Categorie: Agamben

di Daniele Giglioli

Uno degli interrogativi indotti dalla ricomparsa, a quasi quindici anni di distanza dalla prima edizione, di un libro come Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura di Giorgio Agamben è come mai un filosofo così appartato e in fondo così difficile da definire sia potuto diventare negli anni una figura sempre più esemplare. Una risposta non scontata è tutt’altro che facile. Un critico che volesse centrare oggi su Agamben, come fece Giacomo Debenedetti con Croce nel 1949, una sua Probabile autobiografia di una generazione, non andrebbe molto lontano dal vero, ma in un senso del tutto diverso. A differenza di Croce, Agamben non è mai stato una figura centrale, didattica, dispotica, attentissima a esercitare con ogni mezzo possibile una sua ferrea egemonia. Croce ispirava, consigliava, reprimeva, ammoniva, teneva banco, passava al vaglio uomini e idee, metodi e discipline, più spesso respingendo di quanto non accogliesse i motivi di una cultura moderna cui per formazione e gusto e ideologia restava in larga parte estraneo. Aveva dietro di sé le certezze di un sistema; e quei critici che tentavano di “mettere il cornetto acustico” alla sua estetica (sempre Debenedetti) lo facevano con una tale cautela nicodemistica, con un tale timore religioso di varcare le colonne d’Ercole per inoltrarsi nell’ignoto, da risultarci oggi psicologicamente, se non culturalmente, incomprensibili.

Nulla di tutto questo vale per Agamben. Se Croce occupava senza troppi scrupoli e inquietudini il palcoscenico della scena pubblica, Agamben ha optato per la filosofia del “vivi nascosto”. Il suo magistero è stato indiretto, discontinuo, allusivo, indirizzato, al di là della cerchia delle frequentazioni, soltanto a chi si imbatteva abbastanza casualmente nei suoi libri. Se Croce operava in un regime di economia simbolica per così dire tayloristico-keynesiano (alta domanda, lavoro intenso, massiccio intervento pubblico, rapporti stretti con le istituzioni dello stato, fino ad assumere più volte la carica di ministro), Agamben ha praticato fino a non molto tempo fa (diciamo fino alla metà degli anni Novanta, con la pubblicazione di Homo sacer) una postura discorsiva in cui convivevano da una parte inoperosità, interinalità e just in time, dall’altra una rarefazione del discorso mirante ad accrescere il valore di un bene altrimenti inflazionato e svalutato – il sapere umanistico in blocco, niente meno, che al tempo di Croce era accettato for granted, mentre oggi non è più così.

E’ questa, a me pare, la ragione prima del fascino che Agamben esercita, al di là dell’indiscusso valore dei suoi libri, della persuasività delle sue idee, della perentorietà talvolta un po’ auratica della sua scrittura. Prima e più ancora che un maestro, Agamben è stato ed è per molti un simbolo, un segnavia, l’indicazione di una possibilità reale: la possibilità che un sapere sempre a rischio di essere respinto e confinato nell’archeologia si riveli invece una leva potente per interpretare il proprio tempo, risultando tanto più contemporaneo e attuale quanto più non ha timore della propria inattualità, non contingente ma costitutiva. Di questo assunto, posto che sia vero, è possibile fornire due interpretazioni, una riduzionistica, l’altra più generosa.

La prima chiama in causa la sociologia degli intellettuali alla Bourdieu. In questa chiave, Agamben sarebbe il prototipo di colui che balzachianamente “ce l’ha fatta”, sbaragliando la concorrenza e arrivando a occupare, dai margini pur privilegiati in cui si trovava, il centro del campo intellettuale. Per incredibile che sia, c’è ancora chi arriva alla notorietà attraverso la cultura. Che Agamben l’abbia fatto centellinando la sua presenza e non rinunciando mai a un habitus discorsivo sempre di qualità elevatissima, invece di confinarsi nei reticolati di una disciplina accademicamente sanzionata o di rincorrere la visibilità mediatica abbassandosi a intervenire su ogni minuzia, non è ciò che fa la differenza: anche se non tutte le strade portano a Roma, una volta che ci siano giunte poco importa com’erano fatte. Specialisti e tuttologi hanno avuto ciò che meritano, gli uni dimenticati nelle loro giare sigillate, gli altri sprecatisi in un pulviscolo di occasioni minime la cui sostanza effimera non sarà mai riscattata da alcuna eternità, mentre ad Agamben è ormai universalmente riconosciuto di aver messo capo a un’”opera” e di essere il detentore di un prestigio (ma anche, perché no, di un valore) duraturo.

Tuttavia, se l’esemplarità di Agamben si risolvesse tutta nel fatto di essere riuscito a mantenere alti il prezzo e la rendita di un bene insidiato da una progressiva e inarrestabile perdita di valore, allora nulla lo distinguerebbe dai molti speculatori in tempo di peste che gli contendono la palma dell’intellettuale cool. Che i mezzi divergano, che i pubblici a cui ci si rivolge siano spesso radicalmente diversi e incomunicanti, non è l’essenziale. Si tratta sempre di arricchirsi a spese degli altri, di razziare opportunità, di farsi belli in un “tempo di carenza”, secondo la formula di Hölderlin commentata da Heidegger, che va intesa qui in un senso non metafisico ma quanto mai concreto, materialistico e disincantato. Con l’aggravante, nel caso, di vendere le cose sacre sapendo che sono sacre, come rimproverava Fortini a Pasolini. Merce per merce, vale di più quella che si scambia di più.

Sin qui, accentuata fino alla caricatura, la voce del nichilismo. Eppure bisognava lasciarla risuonare: ogni discorso che voglia ancora misurarsi con la nostra attualità non può evitare di sentirla e di soffrirla fino in fondo. La perdita di valore del discorso sul valore (non è questa una definizione accettabile della filosofia?), in un mondo che si è postmodernamente reso indiscernibile dal discorso sul valore di scambio, è l’orizzonte incontornabile contro cui deve stagliarsi ogni enunciato che si voglia dotato di un senso non immediatamente fungibile, consumabile, asservito. E’ la sua atmosfera, il suo tessuto connettivo; ed è perciò tanto più vero il fatto che l’esemplarità di Agamben trae da quell’orizzonte non solo il suo valore di scambio ma anche il suo possibile valore d’uso. In questo senso va inteso il suo costante rifiuto di arrendersi tanto allo specialismo quanto alla spettacolarizzazione. A un universo del sapere minato dal doppio rischio di dissolversi in marketing, più o meno di nicchia, o di confinarsi in una serie di pratiche superstiziose, di riti non più dotati di un mito che li interpreti, che è il destino cui sembrano rassegnarsi più o meno mestamente gli studiosi, Agamben contrappone la sfida di ritrovare in questo stesso universo quella che era stata la promessa fondamentale, e sempre da adempiere, della filosofia: la dicibilità del senso, il tempo appreso nel pensiero. Proprio perché questo è ciò che il nichilismo predica come impossibile, questa è anche la posta in gioco, l’unica che conti, l’hic rodus hic salta squisitamente politico su cui si misura il valore non mercantile di un pensiero. (Ed era questo, a torto o a ragione, che gli intellettuali della generazione di Debenedetti cercavano in Croce).

Tutto ciò è bene esemplificato dall’ultimo libro pubblicato da Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura (già uscito presso Marsilio nel 1996 e ora ripreso in edizione accresciuta da Laterza, con un bella postfazione, fedele e partecipe, di Andrea Cortellessa). E lo si vede tanto più in quanto Agamben si applica qui alla branca oggi più screditata del sapere umanistico, la critica letteraria. Pur essendo una raccolta di saggi, spesso d’occasione (dedicati ad autori sia classici sia contemporanei, come Arnaut Daniel, Dante, Francesco Colonna, Pascoli, Caproni, Zanzotto, Delfini, Manganelli e altri ancora) il libro ha un intento fortemente unitario, che si spiega alla luce del suo titolo: far emergere, attraverso il continuo cortocircuito tra una lettura ravvicinata fino alla microscopia filologica e un orizzonte filosofico più vasto, una serie di costanti tanto più strutturali quanto meno evidenti che costituiscono l’ossatura morfologica della cultura italiana. L’opposizione tra tragedia e commedia, indagata alla luce della scelta di Dante di denominare Commedia il suo poema sacro, cui soggiace una più generale, teologica opposizione tra diritto e creatura. Oppure quella tra biografia e favola, in Antonio Delfini, tra lingua morta e lingua viva, in Pascoli, o tra lingua e dialetto in Zanzotto; o ancora la tensione tra il polo dell’inno e quello dell’elegia che costituisce secondo Agamben il motore primo della poesia italiana del Novecento, accanto a quella, messa a fuoco in un memorabile saggio sull’ultimo Caproni, tra lo stile e la maniera. Sullo sfondo, il rifiuto di consentire a quella scissione irrevocabile tra voce e significato, tra suono e senso, tra sapore e sapere, tra poesia e pensiero, o appunto tra filologia e filosofia, che è insita fin dalle origini nel progetto della metafisica occidentale e che Agamben propone invece di vedere non come una dicotomia ma come una polarità, un “gioco”, un “agio”, una comune scaturigine e insieme una meta cui deve tendere quella “scienza (ancora) senza nome” che può per il momento ricevere la denominazione provvisoria, via Friedrich Schlegel e i romantici di Jena, di “antropologia progressiva”.

Categorie italiane, in questo senso, significa dunque non tanto l’identificazione di tratti pertinenti solo alla cultura italiana, ma la descrizione del modo attraverso cui quella cultura particolare si mette in relazione – come l’individuo alla specie o un atto di discorso a una lingua – a un orizzonte categoriale inerente al retaggio di una specie umana che ha il linguaggio, la cultura, la creazione di mondi come suo principale strumento adattativo. Per convincersene, basta proiettare la più fondamentale di queste opposizioni, quella tra piacere e conoscenza, sul nostro scenario politico attuale, minimo, spicciolo: più scissi di così non potrebbero essere, in un contesto ideologico in cui ogni godimento si pensa come possibile soltanto a patto di rinunciare a ogni pretesa di verità, in cui il finto (l’invenzione, l’immaginazione) non ha più gioco né ragion d’essere perché è stato completamente requisito dal suo antonimo, il falso, e in cui il vero è ridotto alla sua caricatura, come se vero fosse solo ciò che ci suggerisce un meschino e cinico principio di realtà.

Per questo Categorie italiane va letto non accanto ma insieme agli altri libri più dichiaratamente “politici” di Agamben; non solo come la continuazione di Stanze e di Infanzia e storia, ma anche come perfettamente complanare alla serie di Homo sacer. E’ libro politico non benché ma proprio perché parla di poesia, di ciò che la poesia può essere, di ciò che la politica dovrebbe essere: l’appropriazione comune della facoltà creativa che ci appartiene come specie, la profanazione della segregazione “religiosa” (religione è per Agamben non ciò che unisce ma ciò che divide, istituendo una barriera tra il sacro e il profano) non tanto, stucchevolmente, tra le diverse discipline, ma tra gioco e lavoro, infanzia e storia, felicità e destino. Profanazione, ha scritto Agamben in un saggio recente, significa restituire all’uso comune quello che il sacro aveva requisito in uno spazio altro, segreto, separato; e a buon diritto Cortellessa commenta con favore la mancata distinzione, nella critica di Agamben, tra interpretazione e uso, che è stata invece il cruccio massimo della teoria letteraria novecentesca. Se interprete è per tradizione qualcuno che è stato autorizzato, consacrato, istituito come corpo separato dal comune che si incarica di rappresentare, colui che usa non rappresenta nessuno, e non ha bisogno di altra autorizzazione oltre alla scelta di insediarsi in un punto qualsiasi della facoltà di linguaggio che appartiene a tutti. Poi lo si giudichi dai frutti, ovvero da quanto di ciò che ha prelevato dal comune sappia non appropriarsi ma restituire, accresciuto, a chi lo legge. Il manifesto di una nuova critica, non soltanto letteraria, potrebbe ben partire da qui.

(pubblicato su il manifesto, 18/3/2010)

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6 Commenti

  1. bella recensione, me lo prendo sicuramente. poi agamben critico letterario che parla di manganelli e caproni e con la prefazione di cortellessa mi attira moltissimo.

  2. “La perdita di valore del discorso sul valore (non è questa una definizione accettabile della filosofia?), in un mondo che si è postmodernamente reso indiscernibile dal discorso sul valore di scambio, è l’orizzonte incontornabile contro cui deve stagliarsi ogni enunciato che si voglia dotato di un senso non immediatamente fungibile, consumabile, asservito.”
    Che periodo!

  3. Perché c’importa la poesia? Il modo in cui si configurano le risposte a quest’interrogativo dà la misura di assoluta non trivialità della domanda. Poiché l’ambito dei rispondenti si spartisce esattamente fra coloro che affermano l’importanza della poesia solo a patto di confonderla interamente con la vita, e coloro per i quali il suo importare è, invece, funzione esclusiva del suo isolamento da quella. Entrambi i campi smentiscono così il loro intento apparente: i primi, perché sacrificano la poesia alla vita in cui la risolvono; i secondi, perché sanciscono in ultima analisi la sua impotenza rispetto alla vita. Altrettanto vani del romanticismo e dell’estetismo, che le confondono in ogni punto, sono il classicismo olimpico e il laicismo, che, tenendole in ogni punto divise, votano l’umanità a tramandarsi un patrimonio sacrosanto, ma inutile proprio per l’istanza che in ogni ordine dovrebbe risultare decisiva.

    Di contro a queste due posizioni, sta l’esperienza del poeta, che afferma che, se poesie e vita divergono infinitamente sul piano della biografia e della psicologia dell’individuo, esse tornano a confondersi senza residui nel punto della loro reciproca desoggettivazione. E – in questo punto – esse si uniscono non immediatamente, ma in un medio. Questo medio è la lingua. Poeta è colui che nella parola genera la vita. La vita, che il poeta genera nella parola, è sottratta tanto al vissuto dell’individuo psicosomatico che all’indicibilità biologica del genere..

    Alle origini della poesia italiana, questa unità di vissuto e poetato, nel medio della lingua, in un punto singolare, ma senza soggetto, è stata enunciata come compito proprio del poeta nella terzina in cui Dante definisce lo Stilnovo:

    Ed io a lui: “I’ mi son un che, quando

    Amor mi spira, noto, e a quel modo

    ch’e’ ditta vo significando”.

    Qui l’io del poeta è fin dall’inizio de soggettivato in un generico un ed è questo un (qualcosa di più – o di meno – dell’ “esemplare universale” di cui parla Contini) che, nel dettato d’amore, fa l’esperienza dell’indissolubile unità di vissuto e poetato. L’unità di poesia e vita non ha, a questo livello,carattere metaforico: al contrario, la poesia c’importa perché il singolo, che, nel medio della lingua, esperisce quest’unità, compie, nell’ambito della sua storia naturale, una mutazione antropologica a suo modo altrettanto decisiva di quanto fu, per il primate, la liberazione della mano nella stazione eretta o, per il rettile, la trasformazione degli arti che lo mutò in uccello.

    Giorgio Agamben, da “Disappropriata maniera”, prefazione a Res amissa di Giorgio Caproni,, Milano, 1991

  4. recensione celebrativa in cui bourdieu e’ citato a sproposito. Interessante invece sapere della rete di potere di Agamben, a partire dai suoi familiari, detto con il massimo rispetto per il concetto di potere.

    “E’ libro politico non benché ma proprio perché parla di poesia, di ciò che la poesia può essere, di ciò che la politica dovrebbe essere: l’appropriazione comune della facoltà creativa che ci appartiene come specie”

    ‘sta cosa francofortiana del valore contestativo della cultura e dell’arte proprio in quanto arte mi irrita terribilmente. Oltretutto prendere la poesia, che notoriamente non legge nessuno, e’ proprio masochista.
    In contesti in cui l’arte e la letteratura erano intrise di propoganda e la battaglia ideologica un fatto lacerante e quotidiano l’atteggiamento dei francofortesi era forse tatticamente interessante e in fondo propositivo. Oggi questa postura e’ conservatrice e anacronistica. Come Agamben, che dorme ma piglia pesci.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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