Cassino, Chiara e Cimiteri

di Helena Janeczek

La terza o quarta volta che vado a Cassino, Chiara Valerio mi aspetta alla stazione per accompagnarmi ai cimiteri. “Andiamo?” chiede.“Aspetta, prima dovrei fare una piccola cosa qui.”

Ci fermiamo al primo binario. Mi giro a destra per cercare il punto dove i maori che ho inventato avrebbero potuto fermarsi per raccogliersi nel ricordo dei caduti.

Il marciapiede è più corto di quanto ricordassi, o immaginassi, e non trovo il muretto che, visto in una foto, mi era parso adatto per farci sistemare il korowai, il mantello di piume che un veterano lascia come coperta ai suoi compagni morti. C’è invece un’aiuola chiusa da un recinto in ferro battuto verniciato di verde, non più alto di una ventina di centimetri, e in mezzo c’è una stele. Dico a Chiara che non lo sapevo, ma non mi stupisce che sia lì, con la sua targa in bronzo dedicata ai soldati neozelandesi. Alla base è appoggiata una corona, come non ne ho mai vista. Niente rami legati in cerchio, avvolti da nastri che recano stemmi e iscrizioni patriottiche: somiglia piuttosto a una ciambella di salvataggio, un salvagente di verde sfrangiato, ornato da un residuo di fiori finti che non si sforzano di imitare fiori veri. Sembrano quelli dei lavoretti in carta crespa che a scuola fanno fare ai bambini, fiori con il compito di dire “sono un fiore”. Sul retro di polistirolo si sono attaccate delle chiocciole, una patina di sporco e muffa glassa il rivestimento sempreverde e rende avvizziti i petali. Ha piovuto molto negli ultimi giorni, ma oggi le nuvole sopra le montagne della Ciociaria stanno per diradarsi.

Forse, non ci fosse stata Chiara, sarei rimasta lì davanti più a lungo. Non so se sarei riuscita a dire una preghiera a labbra socchiuse senza sentirmi fuori luogo, ridicola, invasiva di un dolore altrui. Che cosa ho fatto d’altro se non inventare una storia? e a quale scopo sono tornata se non quello di verificare che non presenti nulla di inverosimile?

Eppure quella stele e soprattutto quella corona che non mi sarei mai aspettata, le sento come qualcosa che mi appartiene. Mi sembra persino che la realtà, superando la mia fantasia, abbia voluto venirmi incontro. Concedermi quasi un premio, farmi arrivare la conferma che quando l’immaginazione tende verso l’esperienza, finisce per catturare qualcosa che è stato vissuto veramente o che è davvero accaduto.

Trascino Chiara a prendere un caffè al bar della stazione, dove ho fatto vuotare ai “miei” veterani diverse bottiglie di vino, poi proseguiamo per la strada principale. Non mi ero mai inoltrata tanto nel centro di Cassino. Nemmeno Chiara, che è di Scauri, la conosce ed è colpita che abbia un aspetto tanto uniforme da incurante ricostruzione e resti triste anche in una delle prime giornate calde e limpide. L’unica cosa degna di nota è un carro armato davanti al municipio, ma anche quel residuato bellico, privo di ogni targa, sembra abbandonato nella piazza semivuota in un punto qualsiasi dove non sia di impiccio.

Troviamo con facilità l’Hotel Continental e l’Hotel des Roses, malgrado sull’Eurostar per Roma mi abbiano rubato il libro Cassino ieri e oggi, che mostrava le vecchie foto degli avamposti tedeschi accanto a quelle degli edifici odierni risorti sui loro ruderi.

 “La cosa strana è che il cosiddetto Hotel des Roses, quel palazzo bianco appena lassù, non è mai stato un albergo, mentre quello che stava qui lo era stato, ma si chiamava “Excelsior” dico a Chiara. Quando non era che una carcassa imbottita di artiglieria e uomini, ha mutato nome di punto in bianco, per ragioni misteriose.

“Però molto meglio Continental” aggiungo, come per dirle che né io né lei e nessun altro romanziere sarebbe mai arrivato a un’invenzione così perfetta per questa battaglia di continenti decisa in pochi metri di deserto lunare dove tutto, tranne la morte, era diventato irreale e quindi rinominabile.

Torniamo verso la stazione per una strada parallela a quella percorsa prima, passando davanti a qualche sede universitaria, e cominciamo a cogliere qualcosa che caratterizza la città attraverso quel che manca. Cassino offre di tutto, vestiti e scarpe di ogni firma grande o piccola, più una quantità incredibile di negozi di telefonia, ma di una vita studentesca non c’è pressoché traccia. Non scorgiamo una sola libreria e, dato che è sabato, neppure uno studente. Saranno in gran parte ragazzi che fanno i pendolari, però non è difficile pensare che ai loro genitori stia bene che durante gli anni in cui si allontanano di casa, non vedano altro che aule e dispense e che l’unica tentazione cui vanno incontro sia l’ultimo modello di telefonino. Cassino è rassicurante perché non offre nulla che non si trovi altrove, nulla che arrivi da più lontano che da Napoli – pizzerie napoletane, pasticcerie napoletane, rivendite di mozzarella di bufala fresca di giornata –, ma anche lì si tratta della semplice reminiscenza che, sino al fascismo, la città faceva parte della campana Terra di Lavoro. Racconto a Chiara che la zona è considerata territorio di camorra: a Mignano, dove l’anno prima ero stata sui luoghi della battaglia di Monte Lungo, hanno catturato un killer ricercatissimo, responsabile della strage di Castelvolturno. E mentre uscivamo in pullman dal centro di Cassino, diretti alla montagna dove alcuni reduci del Primo Gruppo Motorizzato avrebbero ricordato il loro battesimo del fuoco sotto il comando americano per poi commemorare al cimitero militare italiano i loro compagni, uno degli organizzatori del raduno “Quattro passi sulla Linea Gustav” aveva commentato al microfono che la moltiplicazione di negozi e centri commerciali era dovuta agli “amici camorristi” che stavano occupando la zona dopo i tedeschi e gli alleati.

Forse è saperlo che fa apparire questa omogeneità di provincia tanto oppressiva. O forse è il fatto che Cassino, a differenza di molte città italiane, non è un luogo capace di camuffare la sua chiusura dietro belle facciate antiche, testimoni della sua civitas passata. Cassino con il suo triste carro armato davanti al municipio, con la sua targa CITTÀ MARTIRE ai cancelli dei giardini pubblici; Cassino datata a partire dall’ora zero dell’anno zero, risorta per non essere altro se non il contrario di fame, fughe, distruzione e invasori, e poi ancora fame e emigrazione forzata verso i paesi degli ex-invasori. Cassino specchio dell’Italia che si è trasformata senza evolversi, dove si aspira a spostarsi il meno possibile, a stare nel proprio, a non lasciarsi invadere da niente che non abbia l’aspetto invitante delle cose che si comprano.

Arriviamo nel piazzale della stazione e incrociamo un gruppetto di pellegrini tedeschi con vestiti e capelli tirati che li fanno sembrare gioventù degli anni Trenta. Li avevo notati in treno, capendo da collanine e croci che erano pellegrini. Ormai rossi in volto e sudatissimi, aspettano l’autobus da quasi un’ora, non riuscendo a figurarsi che in tutta la giornata ci siano solo tre corse per raggiungere l’abbazia benedettina.

Abbandoniamo giubbotti e maglioni sul sedile posteriore della Panda che Chiara si è fatta prestare da sua madre, dai finestrini aperti respiriamo l’aria che appena lontano dai palazzi si carica del profumo di erba e di pollini. Davanti al cimitero del Commonwealth, ci fermiamo a fumare una sigaretta guardando verso la città che da appena un po’ fuori, un po’ in alto, cambia immagine. E’ così incongrua con il paesaggio che la circonda, con tutto quel verde all’apice del suo rinnovamento, che appare non solo brutta, ma anche fragile. Se è uno specchio dell’Italia risorta dalla guerra, lo è in un modo che congela la ferita originaria. Quindi non vale come esempio. Altrove scempi anche peggiori sono stati creati senza bombe, per semplice avidità e idiozia, altrove cemento, asfalto, capannoni, concessionarie, supermercatoni hanno fatto sparire ogni traccia di paesaggio, ogni odore che non sia di gas di scarico. Altrove quella devastazione comoda è diventata seconda natura, e non lascia più cogliere la fatica elementare di ricreare un ambiente necessario a vivere. Forse Cassino è un monumento quanto i suoi sacrari: memento che l’Italia, l’Italia intera, è una repubblica fondata da morti di fame ansiosi di scordarsi il passato, e che il motore mai spento di quell’affanno ha generato una crescita che la divora.

Giriamo per più di un’ora per il Cimitero del Commonwealth, sotto il sole meridiano, dopo poco siamo letteralmente le uniche anime vive. E’ sabato, il giorno che precede la Domenica delle Palme, per questo Chiara è tornata dai suoi genitori. Scatta foto alle tombe dei gurkha, indiani e maori che le indico, con la naturalezza di un gesto riservato ai propri cari. Davanti al cimitero polacco invece ci sono due famiglie che fanno il pic-nic, si sono rassegnate   in quel modo alla sorpresa che è in via di risistemazione e quindi inaccessibile. Quando usciamo da Cassino, sono già le due e mezza, insisto perché Chiara chiami casa, e infatti le dicono che si sono appena messi a tavola.

“Vedi che ci aspettavano?”

Viaggiamo su una strada che percorre verso occidente l’estensione di quella che era stata la Linea Gustav. A un certo punto scorgo le uscite per i paesi dei Monti Aurunci, dove erano avvenuti gli stupri di massa –  Ausonia, Esperia –, le indico a Chiara che è nata da quelle parti, ma non ne sapeva nulla: tranne che sua nonna era sfollata non lontano, a Spigno Saturnia. Non so se sia per questo che quando parcheggiamo nel cortile di una piccola casa bianca a cui si applica la definizione di “razionalismo balneare”, la prima persona che mi presenta sia sua nonna o se l’avrebbe fatto comunque, come immagino.

Vive al piano terra e davanti alla sua porta ci sono una decina di uova di pasqua da distribuire ai nipoti. E’ seduta in poltrona, curva, ma con gli occhi azzurrissimi che tra poco scoprirò aver passato identici a suo figlio, gli occhi che arrivati a Chiara hanno perso un po’ del loro sfacciato smalto di un cielo dopo il temporale.

“Ti ho portato la mia amica che sta scrivendo un libro sulla battaglia di Montecassino, nonna.”

E lei si volta, si alza, ci viene incontro, senza un “buongiorno”, un “piacere” o altro, dice: “Lo sa che quasi quasi mi prendevano, a me e a mia sorella? Quei marocchini, quegli animali. Però mio padre ci ha salvate, ci ha detto ‘qua tutto intorno ci stanno gli americani, non fermatevi, camminate, continuate a camminare’”.

“Nonna, a me ‘sta cosa non me l’hai mai raccontata!” esclama Chiara e aggiunge che dobbiamo salire sopra perché avremmo una certa fame.

“Andate, andate” dice la nonna e va a risistemarsi nella sua poltrona e la nipote più grande e più curiosa, dopo aver chiuso la porta di casa, schivando un gatto che le striscia tra le gambe e la precede per le scale, scuote la testa ripetendo, “arrivi tu e questa tira fuori una storia che non ha mai raccontato. Com’è possibile?”

Non lo so neanche io, Chiara.

Questo testo è stato letto a “Officina Italia” e pubblicato un “Il Riformista”, il 7.5.2010. La foto è – ovviamente- di Chiara Valerio.

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9 Commenti

  1. insisto dopo “lezioni di tenebra” la Janeczek mi aveva folgorato!!!
    adesso nuovo giro e nuova folgorazione
    una scrittura che cattura
    una trappola per cuori veri
    davvero una scrittrice superlativa
    grazie
    c.

  2. ciao helena,

    queste frasi (“E’ così incongrua con il paesaggio che la circonda, con tutto quel verde all’apice del suo rinnovamento, che appare non solo brutta, ma anche fragile. Se è uno specchio dell’Italia risorta dalla guerra, lo è in un modo che congela la ferita originaria. Quindi non vale come esempio.”) mi girano in testa da quando le ho sentite pronunciare a officina italia, e mi fa piacere ritrovarle qui nella loro esattezza.

    in fondo, in maniera molto condivisibile, tra le mille altre cose, questa è per me un’indicazione di cosa possa essere la letteratura. la letteratura non redime, nè assolve, nè consola: la letteratura “congela la ferita originaria”, il trauma personalissimo e universale dell’esperienza: diffonde e condivide tanto confini quanto la profondità della ferita.

    in maniera molto superficiale, e allargando il discorso, mi piace pensare che se la letteratura possa congelare e condividere le ferite, alla politica spetti poi il compito di ripulire e suturare gli squarci – almeno, e senza mitizzare, alcune ferite individuali, moltissime ferite del corpo sociale. ma oggi manca l’ago e il filo della politica, manca a tal punto che la letteratura supplisce a volte l’assenza di politica per quello che può.

    giuseppe

  3. “al bar della stazione, dove ho fatto vuotare ai “miei” veterani diverse bottiglie di vino”
    bello questo racconto di viaggio di una scrittrice che va nei luoghi reali che hanno generato un mondo romazesco, eppure così reale, forse più reale della stessa realtà, perché la ripulisce, la rende nitida e persino più crudele.

  4. scusate, sono di corsa, intanto: grazie a tutti!!!!
    (chiara, eravamo sotto un sole cocente, dove lo zucchero diventa caramello:-)))

  5. Il talento di Helena Janeczek è di creare con un occhio preciso una realtà che si fissa nella mente. Un giornale di viaggio che fà communicare guerra di oggi e guerra di ieri. Credo che l’immagine la più solitaria e triste sia l’immagine del carro armato, in assoluta solitudine si muore.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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