La riduzione del sangue

di Marco Mantello

L’undicesimo comandamento recita:

Non bruciarti di nuovo la vita
a violare le leggi marittime.
Quelli salgono, sparano, estraggono
le prove solite dell’innocenza
portate apposta per l’occasione.
Non risultano italiani fra le vittime
Tutto il resto è televisione.

*

Gli israeliani sono geni militari
e non solo economisti straordinari.
Sotto gli occhi spalancati di un sistema
che distingue gli innocenti
dai militari e dai terroristi
vai sicuro con i turchi pacifisti.
Con i turchi, essendo turchi,
ci sarà sempre il fondato sospetto
di qualche -ismo diverso da ‘pace’
infiltrato nella pancia di un veliero

*

Una cosa già successa.  Ritornerà.
In altri luoghi. Con altre facce
per le cause imputate all’Ennesimo
quando il Dubbio coincide col Vero.
Diecimila aspiranti Gesù
cammineranno da soli sull’acqua
in attesa che Pio Dodicesimo
gli dia ordine di gasare Gaza

*

Poi, da resuscitati, grideranno digiunando nel salotto:
La borghesia universale. L’ebreo errante
La vittima divenuta carnefice.
O forse no, staranno sotto
a cercare le forme più adatte
per espellere la tentazione biblica
dal loro senso della giustizia

*

I difensori del muro del pianto
(invitati allo stesso salotto)
proveranno piacere e pena
per l’immaginario corrotto del comunista .
La parola antisemita
si farà viva. Presente
fino a giudicare tutto.
Fuorché la realtà non vista.

*

O forse no. L’hanno vista e capita benissimo.
Sarà lo scorrere delle cose, le inversioni:
quando ‘loro’ rappresenta la regola
i ‘nostri’ morti sono eccezioni.

*

Ecco se questa roba l’avesse scritta un ebreo
non potrei dirgli: ‘Ti stai dando in Olocausto’
o ‘Fai bene ad assolverti. Il tuo gesto vale
il braccio di un tenente. O la vita di un pacifista turco’
Gli direi solo: ‘Non te lo ha chiesto nessuno
e sentirsi ebrei non c’entra nulla’

*

Dentro al letto fra la mia sposa
e il tristissimo frutto che porta addosso
certe parole rassomigliano alle coperte.
Israele e l’Occidente, oggi, sono la stessa cosa
come è vero che un mare è rosso
perché le acque non si sono aperte

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14 Commenti

  1. Grazie, davvero, per i commenti e in particolare a Salvatore, ho visto che la poesia è stata postata anche su un altro sito, spero contribuisca a un dibattito per me importante, che già sta scomparendo dai giornali.

  2. Gli israeliani sono geni militari
    ma talvolta sono anche molto fessi
    van sicuro con i turchi pacifisti
    che pacifisti poi non sono
    e neanche se alla radio gli dicono
    di tornarsene lesti a Auschwitz
    che pure per mare non ci arrivi
    capiscono chi gira sul naviglio
    e ci vanno e prendono legnate
    e poi solo sanno usare gli Uzi
    e massacrano per il Netanyahu,
    per Liberman truffatore in Bielorussia
    per il niente ormai che hanno dietro e dentro

  3. “Tornatevene ad Auschwitz”

    La poesia per la sua natura evocativa più che descrittiva ha questo di bello rispetto alla prosa: che il grande autore può essere relativamente svincolato dalla grammatica e dalla morfosintassi della lingua (ciò che si chiama “licenza poetica”); e che qualunque autore può essere svincolato dall’aderenza ai fatti.

    D’altronde stasera ho seguito un telegiornale alla BBC, dove passavano le immagini degli israeliani picchiati mentre il commentatore parlava dell’eccessiva reazione israeliana contro gli “attivisti”, e della poca credibilità dell’apertura della frontiera di Gaza sul versante israeliano (ricorderete che l’egitto ha aperto la frontiera). Quando tutti quelli che sono del settore sanno esattamente cosa è successo. Insomma un telegiornale che secondo i nostri criteri era poesia pura.

  4. Credo che il commentatore anonimo che ha virgolettato “Auschwitz” farebbe bene in primo luogo a firmarsi con nome e cognome e in secondo luogo a ripensare a quello che ha scritto. L’antisemitismo per favore no.

  5. Io? Non ho virgolettato “Auschwitz” come espressione di antisemitismo. Proprio no. “Tornatevene ad Auschwitz” è un insulto proferito via radio all’indirizzo della marina israeliana da qualcuno a bordo di una delle navi “pacifiste”. Già questo dovrebbe far riflettere su chi c’era sulle navi.

    Il resto del mio commento era riferito alla poesia la quale, certo evocativa, evoca però un quadro diverso dalla realtà, naturalmente a modestissimo parere mio e se l’ho bene interpretata.

  6. Ok chiarito il virgolettato (ti rispondo per l’ultima volta perché continui a firmarti come anonimo e la cosa non mi piace, scusami. Ovviamente le cose cambiano se ti firmi)
    Quindi secondo te la realtà è: non è stato ucciso nessuno. Oppure: hanno fatto bene a uccidere perché sono stati uccisi dei terroristi. O ancora: i soldati israeliani, coni il loro equipaggiamento, immagino misero, se paragonato a quello dei ‘terroristi’, hanno reagito in modo proporzionato a un attacco, sparando in testa alla gente. O meglio ancora: i soldati israeliani hanno sparato perché offesi dall’antisimetismo imperante su quella nave di terroristi. E’ una non-percezione della realtà, a mio parere.

  7. Riporto, per corretezza, anche il ‘contro canto’ ai dispacci dell’esercito israeliano passivamente citati dall’anonimo come ‘realtà’. Questa persona che ha scritto il pezzo qui di sotto postato, pare che ci fosse. La fonte è ‘nuova società’, giornale online diretto da Diego Novelli (si è di sinistra). Poi ognuno giudica chiaramente, come meglio crede..

    Io pacifista disarmata, prigioniera nelle carceri israeliane
    Lunedì 21 Giugno 2010 14:03
    di Lauren Booth

    Una delle tendenze più impressionanti dopo l’attacco della flottiglia è stata la velocità con cui la hasbara [termine con cui lo stato di Israele descrive gli sforzi esercitati per giustificare la politica del suo governo, ndt] israeliana sia stata smascherata dai giornalisti del web. Gli audioclip manipolati, in cui amatori con finto accento arabo sibilano “Tornatevene ad Auschwitz” agli ufficiali navali israeliani, non ci hanno messo molto ad essere tolti di mezzo, vero? Poi ci sono le affermazioni “talmente patetiche da sembrare comiche” sul fatto che la flottiglia fosse collegata con Al Qaeda. Mi sono sbellicata nel leggere in un giornale israeliano che l’attivista umanitario (nonché ex marine americano) Ken O’Keefe stava andando a Gaza per “addestrare un’unità di commando di Hamas”. Conosco Ken abbastanza bene. E francamente non sono sicura di chi dovrebbe sentirsi più insultato da tale stupidità, se lui o Hamas. In entrambe i casi, usare i termini “il jihadista Hamas” e “la sicurezza di Israele” non ha più lo stesso effetto scioccante e suggestivo sui giornalisti o sul pubblico in generale.

    Oggi la storia mondiale viene modellata da internet, non dal Ministero degli Esteri israeliano.

    Intanto, come una star del calcio sorpresa a tradire la moglie, invece di dire “Ho fatto un gran casino, perdonami”, le fonti del governo israeliano ed altri filibustieri urlano: “Non è giusto guardarci tutto il tempo, è male!” e “Non sono affari vostri, lascateci in pace!”. Una vera sfortuna che la biancheria sporca dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndt] sia stata mandata in onda per quello che è, via facebook e twitter. I singhiozzi sionisti del “non è giustooo!” suonano ancora più bizzarri. Ma parleremo più avanti dei “robot” di Israele.

    Dopo il massacro, l’Intelligence israeliana (ci dev’essere un errore) è stata alquanto occupata a cancellare le memory card e gli hard disk di quelle che una mia ricerca preliminare ha stimato fossero circa 800 videocamere, 1200 cellulari e 600 computer. Tutto saccheggiato ai passeggeri della Freedom Flotilla, mentre venivano fatti inginocchiare, ammanettati e messi in posizioni forzate, sul caldo ponte della Mavi Marmara per tutte le 12 ore seguenti l’attacco. Prima che i robots gridassero “Perchè c’è tanto denaro a bordo? Perchè così tante fotocamereee?”. Lasciate che vi spieghi: le brave persone a bordo avevano raccolto soldi per mesi nelle comunità locali di tutto il mondo per portare beni utili alle persone, le scuole ed i bambini sotto assedio nella striscia di Gaza. Inoltre, le fotocamere erano le uniche “armi” che quelli a bordo avevano per difendersi nel caso di un attacco in mare.

    Ora, l’evidenza sta venendo a galla: forzata (dalla linea dura della diplomazia turca) a rilasciare tutti i passeggeri rapiti più presto di quanto avrebbe voluto, Israele (come al solito) si sta vendicando sulle famiglie palestinesi degli attivisti che erano a bordo. I cari di coloro che cercano di opporsi senza violenza alle politiche sioniste di violento Apartheid vengono interrogati, mentre state leggendo, dallo Shabak [Servizio di sicurezza generale israeliano, ndt] per aver semplicemente viaggiato con la Freedom Flotilla. Non mi permetto di dire altro per paura di ulteriori rappresaglie su gente innocente. Ma poichè ormai dovreste rendervene conto, la macchina israeliana è specializzata nella punizione collettiva. Questa settimana un portavoce americano ha dichiarato dal vivo che “I bambini di Gaza erano sotto assedio perchè i loro genitori hanno votato Hamas”. Ci sarebbe troppo da dire su questo, quindi vi lascio libera interpretazione.

    La notte scorsa a Londra, come in molte altre città, i passeggeri della Freedom Flotilla hanno affrontato un gremito meeting pubblico presso la Conway Hall nel centro della città, dove sono apparsi in turni scaglionati, temprati dalla loro esperienza di undici giorni fa (di già? Come passa il tempo!).

    Jamal El Shayyal è il reporter di Al Jazeera che ha continuato a trasmettere mentre gli spari fischiavano dietro di lui sul ponte superiore della Mavi Marmara. Sinceramente, pensavo di avere già sentito, letto e visto il peggio sull’attacco israeliano ai passeggeri della flotta. Ma non avevo visto niente. E credetemi, neanche voi. Quei tre minuti di video, miracolosamente trasmessi dal vivo o contrabbandati sottobanco, mostrano il più mero accenno degli orrori a cui questa gente coraggiosa ha assistito. Ed ha sofferto.

    El Shayyal ha raccontato ad un pubblico ammutolito che “era stato invitato dall’IHH [“Fondazione Dei Diritti Umani, Le Libertà E Gli Aiuti Umanitari”, una ONG turca, ndt] a filmare ogni centimetro della nave”. E così ha fatto. Dalle viscere dello scafo fino ai ponti più alti.

    “Ho controllato e filmato” ha detto “non c’era un’arma a bordo. Non una pistola. Niente artiglieria. Le cose più letali su quella nave erano frutta e verdura”.

    Quando l’attacco del commandos israeliano è iniziato Jamal indossava il pigiama sotto un giubbetto di salvataggio come molti degli altri cosiddetti “terroristi preparati a bordo”. Gli elicotteri hanno quasi provocato un uragano sui ponti, tutti i telefoni satellitari sono andati in tilt (per bloccare deliberatamente gli SOS al resto del mondo) e, così sperava l’IDF, ogni rapporto di fatto su ciò che stava per accadere.

    A questo punto, poco dopo le quattro e trenta del mattino, Jamal ha visto un passeggero turco colpito alla testa. Parlava piano e chiaramente per essere sicuro che fosse capito da tutti.

    “In quel momento non c’erano [ancora] soldati sulla nave.”

    Presto un altro passeggero ha preso una maglia bianca dalla borsa e l’ha usata come una bandiera di resa. Quando gli spari hanno fischiato, molti sono morti. Era chiaro che le richieste di pietà venivano ignorate. E che era in atto un’azione omicida.

    Un membro israeliano del Knesset e Lubna (un attivista che parla anche ebraico) ha preso la parola facendo degli annunci all’altoparlante in inglese e poi in ebraico. Annunci ripetuti almeno 8 volte.

    “Abbiamo della gente gravemente ferita qui, per favore venite a prenderli. NON siamo armati. CI ARRENDIAMO!”

    Presto la trasmissione dell’altoparlante è stata tagliata.

    Sarah Colborne del PSC [Palestine Solidarity Campaign, ndr] ed altri passeggeri hanno negoziato con i soldati l’evacuazione di almeno alcuni dei tanti feriti. Molti non volevano andare con gli israeliani per paura di sentirsi meno al sicuro ad essere “trattati” dalle truppe, piuttosto che essere operati sotto i ponti della nave senza anestetico.

    “Era stata richiesta agli israeliani una barella” ha continuato Jamal “per un uomo con diverse emorragie interne che doveva essere spostato. Ci hanno detto di usare un sacco a pelo”. L’uomo è stato spostato in agonia su un lenzuolo peggiorando le sue ferite. Ed il suo immenso dolore. È sopravvissuto? Non lo sapremo mai.

    Poiché la sparatoria ha spianato la strada all’imprigionamento forzato dei passeggeri, o, chiamandolo col suo nome – al sequestro, Jamal è stato spinto a terra, ammanettato e picchiato. I suoi effetti personali prelevati. Era ormai mattina, in un chiaro, soleggiato giorno d’estate. Centinaia di uomini sotto shock erano tenuti sul ponte, con le mani legate dietro la schiena. Tre e poi quattro ore sono passate. C’erano richieste per andare in bagno. Non è stata data acqua, sono stati presi a calci e pugni dai soldati che passavano ogni pochi minuti. Alla fine Jamal ha convinto uno di loro a farlo andare in bagno, “con le mani ancora legate dietro la schiena”. Un uomo sull’ottantina che cercava di tornare dalla sua famiglia a Gaza, è stato preso in giro dai soldati, nel suo disagio. Dopo tante ore, ha sofferto l’umiliazione di farsela sotto, di fronte ad angeli e demoni.

    Ad un certo punto Jamal è stato portato al piano inferiore. L’area era stata saccheggiata a fondo.

    “Non c’è stato rispetto dei diritti umani o della dignità. I libri sacri di qualsiasi credo sono stati gettati al vento, gli effetti personali sparsi ovunque”.

    Si ricorda di un tranquillo fratello musulmano che diverse volte aveva chiesto ai soldati se fosse possibile allentare leggermente le sue manette. Alla terza richiesta, uno di loro le ha strette così tanto che “ha urlato di dolore al punto da farci venire la nausea”.

    Nel pomeriggio la nave è stata fatta approdare nel porto di Ashdod. Spinto a riva da guardie armate, Jamal è stato salutato così: “Benvenuto in Israele. Si sta divertendo qui?”

    Il giornalista di Al Jazeera voleva farci capire qualcosa in modo molto chiaro. I passeggeri civili non erano “detenuti” né “arrestati”. Erano pienamente, in ogni accezione legale della parola, “rapiti”.

    Nella prigione di Beersheva, è stato messo in una cella, con uno dei capi del gruppo turco per i diritti umani, l’IHH. Non hanno mangiato nulla per 24 ore, solo alcuni sorsi d’acqua. Non sapevano affatto se il mondo sapesse dove si trovassero – o cosa fosse successo. Altrove nella prigione, si potevano sentire gridare contro i rapitori israeliani alcuni rappresentanti consolari dalla Grecia, la Francia, la Spagna e la Macedonia che chiedevano il rilascio dei loro connazionali. Urlando per i diritti umani violati, per il cibo, per l’acqua, per l’accesso alla rappresentanza legale.

    Dal consolato inglese. Niente.

    Alla fine quando ogni altro console aveva visitato i civili rapiti, si presenta un rappresentante inglese. Jamal ha descritto la natura ossequiosa della visita con parole umilianti. Con vari salamelecchi agli israeliani, il diplomatico inglese non ha nemmeno insistito sul diritto di vedere le vittime in privato. Un imperativo legale per i tutti i detenuti durante una visita del genere. Non ha richiesto acqua, cibo, o un termine di rilascio per coloro che in teoria stava rappresentando. Sotto lo sguardo dei soldati israeliani, ha fatto solo due domande: “come si chiama e qual è il suo numero di telefono in Inghilterra”. Poi i nostri cittadini sono stati abbandonati ad interrogarsi sul loro destino e su quello dei loro compagni, affamati, impauriti, scioccati, soli.

    Quando gli israeliani hanno realizzato che i giochi erano finiti, e che il mondo aveva sicuramente visto i video del loro attacco omicida, hanno dato l’opportunità ai detenuti turchi di lasciare la prigione alla svelta, in un’ora.

    Se ne sono andati? No. Di punto in bianco hanno rifiutato di andarsene “prima che ogni altra nazionalità non fosse liberata”. Gli rendiamo onore.

    Jamal, Osama, Alexandra, Sarah, Kevin e altre 400 persone da tutto il mondo sono state rilasciate SOLO grazie al sostegno dei turchi. E non per un intervento della comunità internazionale. Non per un’azione dell’ONU o (Dio non voglia) del governo inglese. Ma grazie al governo turco.

    In tutto il suo tempo da prigioniero, poco più di 40 ore, Jamal, come tutti gli altri inglesi, non ha ricevuto né visite legali, né telefonate, né una giusta rappresentanza inglese.

    Finalmente all’aeroporto di Ben Gurion, deportato da un luogo in cui non sarebbe mai voluto entrare, a Jamal è stato consegnato un pezzo di carta con una sua foto e delle scritte in ebraico.

    Il suo interrogatore lo ha condotto all’aereo sogghignando. “Complimenti” ha detto “questo è il suo nuovo passaporto”.

    “Voglio il mio vecchio passaporto!” ha risposto Jamal.

    “Mi faccia causa!” è stata la risposta.

    C’è altro dai sopravvissuti che è stato filmato e lo diffonderò non appena sarà on line. Ma ora torniamo agli Zio-bots [“robots sionisti”, ndt]. Accanto alle telecamere della Press TV e dello staff del PSC che filmavano i testimoni, c’era l’immancabile ed imbronciata sionista che riprendeva l’evento per alcune organizzazioni opposte alla giustizia ed al libero dialogo. Curiosamente, mentre i sopravvissuti descrivevano il loro orrore in dettaglio, la telecamere di questa donna NON era rivolta a loro, ma ai miei colleghi della Press TV.

    Sono uscita per fumare una sigaretta ed eccola di nuovo. Immediatamente riconoscibile come una proto sionista con la bocca cucita. Mi ha chiesto se stavo con la Press TV e se volevo parlare con lei per la Tv israeliana. Ovviamente non proveniva da nessuna emittente – dato che nessun canale che si rispetti accetterebbe un tremolante video da amatori del tipo che lei stava facendo. Curiosa delle sue vere intenzioni, ho risposto “con piacere”.

    “Crede che la Press TV abbai fatto abbastanza per dare la versione dei fatti israeliana riguardo la flottiglia?”

    Mi sono fermata? Sentivo di doverlo fare, semplicemente per avere il tempo di realizzare che questa donna, dopo un’ora di straziante testimonianza del massacro, non aveva ascoltato né provato – niente.

    “La BBC ha dato a Mark Regev spazio sufficiente per la vostra causa, non crede…”, ho risposto.

    “Si ma non crede che la Press TV dovrebbe…” e poi è successo. La rabbia bianca. Ho sentito i bambini di Gaza piangere, ho visto sparare a pescatori sulla costa, bombardare col fosforo le scuole e i negozi di alimentari dell’UNWRA [“United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East”, Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso dei Rifugiati Palestinesi, ndt]. Ho visto il massacro della flotta della Freedom Flotilla, la tortura, l’inutile ed evitabile morte.

    “Vai a farti fottere” mi sono sentita dire. E per essere certa di non essere poi citata erroneamente ho aggiunto: “Fottiti e basta”.

  8. “Quindi secondo te la realtà è: non è stato ucciso nessuno. Oppure: hanno fatto bene a uccidere perché sono stati uccisi dei terroristi. O ancora: i soldati israeliani, coni il loro equipaggiamento, immagino misero, se paragonato a quello dei ‘terroristi’, hanno reagito in modo proporzionato a un attacco, sparando in testa alla gente. O meglio ancora: i soldati israeliani hanno sparato perché offesi dall’antisimetismo imperante su quella nave di terroristi. E’ una non-percezione della realtà, a mio parere.”

    No, no, c’è anche un’ulteriore possibilità: che alcuni passeggeri abbiano opposto resistenza violenta (legittimamente o illegittimamente non è importante) e che aggrediti i primi soldati (avrà visto le foto della stampa turca sui “commandos piagnoni”), ne siano arrivati altri che hanno sparato. La tensione, magari la paura della premeditazione possono giocare tiri orrendi.

    Occorre che i palestinesi e i loro sostenitori, così come gli israeliani, riescano a superare la paura e l’eccessivo integralismo religioso (anche islamico) che li divide.

    Grazie per avermi risposto. Cordialità.

  9. Questo però è già un punto di vista diverso da quel che mi era parso di capire leggendo il primo e il secondo intervento, lo rispetto ma non condivido la prospettiva generale del ragioanmento. Secondo me se si ragiona in base a quel dato ‘contesto di guerra’, si corre il rischio di giustificare tutto. Comprendere le situazioni emotive è importante, ma occorre non sovrapporre ‘comprensione’ e ‘valutazione’ dei fatti, sopratutto quando parliamo di eserciti, di servizi segreti, e di beneplacito di un governo ad un’azione militare che ha prodotto, come obiettiva conseguenza, un messaggio del tipo: ‘Statevene tutti a casa, se venite qui vi ammazziamo’.
    Ecco per me identificare il comptendere con il valutare implica chiudersi in weberiane gabbie di acciaio, ovvero una conclusione del tipo: ‘Se dei civili sono andati a violare quello che di fatto è un embargo praticato da Israele, dovevano in qualche modo aspettarsi l’eventualità di essere uccisi da soldati in assetto di guerra. Quindi (visto il contesto), era meglio che non ci andassero proprio…’. Troppo credito, infine -o meglio nemmeno il margine di un dubbio- sull’autenticità di quel ‘tornatevene ad Auschwitz’, diffuso dall’esercito israeliano a massacro compiuto…
    Ricambio le cordialità. Un saluto (anche se avrei preferito sapere con chi stessi dialogando. L’anonimato inganna, ma insomma pace).

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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