La ricostruzione non finisce qui

di Giuseppe Zucco

Roma crepita. Il sole scioglie i sanpietrini, i monumenti, le linee dei palazzi. Le generazioni, le moltitudini, le comunità internazionali. Scioglie i minuti ed i millenni. Le gru immense sulle spianate da ricostruire e ripopolare. Scioglie il tardissimo impero e i campi rom. Gli americani sotto i cappelli di paglia, i bambini nelle carrozzine, il trucco delle ragazze romane. Scioglie i vecchi con la camicia aperta, gli uomini nella pozza elegante del completo scuro, i pakistani con le rose in mano e il fazzoletto bagnato in testa. La riga di formichine rosse sull’asfalto fuso. E anche io mi sciolgo. Io sono questa cosa che galleggia nell’aria, la scintilla che arde e brucia mentre aspetta il 36 o il 90 Express, questa piccola pozza umana che gocciola ed evapora davanti una fermata sulla via Nomentana, dimenticato nell’estate nucleare ed atomica del 2009. Nessuna ombra. Neanche ricordo cosa sia l’ombra e il riparo. Il miraggio è via Capraia, i giardinetti rinsecchiti, l’appartamento in affitto, il frigorifero dove infilare la testa e congelare i pensieri. Custoditi a quattro gradi centigradi, in ordine per intensità e incidenza sulla storia universale, i pensieri attendono il loro turno. Nel tremolio dell’aria, si avvera il 36. Ci salgo su, ci salgono tutte le mie molecole sciolte nell’aria, una per una ci salgono, ricompattandosi e prendendo forma in questa cosa che sono io, nei miei jeans e nella mia maglietta, una cosa unica e seriale nell’aria condizionata del 36. Chiude le porte, trema e riparte. L’autobus crepita. Le molecole dei passeggeri appena saliti scalano l’aria, ruotano e luccicano. Gli esseri viventi sono questo pulviscolo, questo movimento discontinuo e disordinato, il calore ed il movimento nella luce dorata. Si sta schiacciati, e l’unica fuga è impennare lo sguardo, guardare il pulviscolo scendere sulle teste e sulle mani, sulla plastica a cui appendersi, nell’aria rovente quando le porte si aprono. Una fermata, la gente scende. L’autobus scarica i passeggeri e la libertà delle molecole. Scarica tutti tranne lui. Dentro i miei jeans, nelle mie All Stars consumate, non ci credo. Stento a crederci mentre le porte si chiudono, la folla si dirada, e lui appare nell’aria condizionata del 36. Non lo avevo notato prima, ora è davanti a me. È un fantasma. L’Italia che non sparisce e ritorna. La copia a colori del protagonista del film girato a Roma da Vittorio De Sica nel 1952. È Umberto D.. Non ha il cappello, né il cane Flik al guinzaglio. Non è esattamente lui, ma è come se lo fosse. Il neorealismo è questa piccola figura in giacca e cravatta, la miniatura umana in cui l’Italia si rispecchiò un tempo, questa creatura solitaria che osserva la città sciogliere e svanire dal finestrino. Mi chiedo quanti anni abbia. Immagino quest’uomo girare sotto il sole, lungo le strade romane, contando i sanpietrini e annotando nella memoria i tatuaggi dei ragazzi. Immagino la copia a colori di Umberto D. tornare a casa, senza parlare con nessuno, gli occhi grandi e inconsapevoli, troppo antico e vero per comprendere la manifestazione sotto l’ambasciata dell’Iran o le urla dei ragazzi in coda per un casting televisivo. Una figura cinematografica e preistorica, inconsapevole del mondo e di Giulio Andreotti, delle parole del Presidente del Consiglio che lo valutarono come una carie sul sorriso luminoso e progressista dell’Italia, “la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”. Non ha i capelli bianchi, i baffi non sono virgole sul discorso muto delle labbra. Mentre le porte si aprono, e le persone rimangono incantate dall’aria confezionata dal 36, guardo i suoi capelli radi, la desertificazione sulla testa, il piccolo riporto che Il Nuovo Umberto D. liscia di continuo, come se la sua esistenza e la sua onorabilità dipendessero da questo gesto furtivo, dalla cura degli ultimi capelli trattenuti, piccole vedette del destino di quest’uomo e di questa nazione. Lo guardo nella sua divisa da funzionario ministeriale in pensione. Il completo stirato, la cravatta e la giacca tra il grigio e il verde, la borsa di cuoio consumato. Lo guardo nella sua piccola e placida e inconsapevole esistenza. Vorrei mettergli le mani al collo. Immagino me stesso, nei miei jeans e nella mia maglietta, scendere dove scende il vecchio e aggredirlo alle spalle. Stringergli le mani al collo urlando perché è ancora qui, perché non ci lascia in pace. Stringo le mani e vedo la bocca del 1952 spalancarsi, gli occhi del neorealismo uscire dalle orbite. Non è un fantasma. È vivo, è qui, il collo trema sotto le mie mani. Schiaccio la sua testa contro il muro. Sento l’inno di Mameli scendere dal cielo, i piatti e la fanfara risuonare nell’aria. Sollevo lo sguardo al cielo. La copia a colori di Umberto D. è l’Italia, l’Italia del dopoguerra da ricostruire, l’Italia che non è mai stata ricostruita davvero, il paese dei fantasmi che girano per strada e salgono sugli autobus. Scendo in via Capraia, rimango a guardare il 36 filare via, Umberto D. dietro il finestrino. Io sono questa scintilla dell’Italia che arde e brucia. Nel 1952, un attimo prima che si espanda sullo schermo la parola fine, il protagonista del film di De Sica tenta il suicidio. Non ci riesce. Il cagnolino neorealista Flik, l’unico essere vivente che lecca Umberto D., scodinzolando trascina fuori l’uomo dalle secche del peccato capitale. Nell’estate del 2009 è Umberto D. a girare per le strade romane, con un ossicino in tasca, chiamando a voce alta il suo cane, inseguendo e valutando i cani che incontra nei giardini. Flik non tornerà a casa. Flik si è lasciato andare nel Tevere. Non ne poteva più della mano neorealista che lo accarezza, dell’Italia mai finita di ricostruire che ritorna sempre, di questa Italia inconsapevole del mondo che cammina per strada sognando il suicidio. Salgo a casa. Mi spoglio. Infilo la testa nel frigorifero. Tutti i miei pensieri, freddi e in ordine, mi guardano.

 

Questo racconto è risultato finalista al concorso “Roma, la violenza che viene”, organizzato dalla rivista “Accattone” e da “minimum fax live”.

 

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4 Commenti

  1. “Custoditi a quattro gradi centigradi, in ordine per intensità e incidenza sulla storia universale, i pensieri attendono il loro turno.”

    (……..)”Salgo a casa. Mi spoglio. Infilo la testa nel frigorifero. Tutti i miei pensieri, freddi e in ordine, mi guardano.”…. E in mezzo tutto il resto.
    Zucco, lei è bravissimo, lo sa?

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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