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A casa Brescia non risponde nessuno

di Sarah Zuhra Lukanic

In quel pomeriggio piovoso e bigio, mi ero riparato sotto il portico che conduceva a casa di Alessandro Brescia. I miei abiti, neri e logori, preannunciavano la brutta notizia che stavo portando. In quel periodo mi faceva da scorta Luek, un ragazzo singalese. Nel nostro cantiere era una specie di gatto randagio, benvoluto da tutti. Il suo nome era composto di 52 lettere, ma lui si faceva semplicemente chiamare Luek, che in singalese vuol dire amico. Con noi lavoravano parecchi lavoratori stranieri. Alcuni venivano con Albert, il rumeno che possedeva una ditta edile e se la passava piuttosto bene. C’era un macedone, c’erano due ragazzi moldavi e poi Danilo l’ucraino. Albert spifferava in giro la storiella che Danilo avesse fatto la guerra. Io so che la guerra in Ucraina non c’era stata, ma era inutile contrariare Albert.

Pareva un mister di calcio che dal suo pulmino verde pisello faceva sbarcare in mezzo al cantiere i suoi operai, i suoi assi uno per uno. Sapeva il fatto suo Albert. Non aveva mai voglia di raccontarmi del suo passato da clandestino dentro i cantieri in lungo e in largo lo stivalone. Per lui il passato era come la pala colma di sabbia che getti dentro la betoniera. Mescolata e definitivamente persa. Altri stranieri arrivavano con camion che venivano lasciati in sosta dietro i cumuli di ghiaia in fondo al cantiere. Non dovevano dare nell’occhio. Anche Luek era sceso assieme a loro. Il capomastro era un certo Salvatore Romano. Aveva addosso il peso della sua terra vesuviana e la portava in giro orgogliosamente; come la gotta, che faceva la sua camminata simile ai passi di un grizzly. Non serviva che parlasse. Quando ondeggiava per il cantiere, un passaparola circondava le gru e sbatteva sui calcestruzzi, per terminare sui depositi di materiale: “Occhio ragazzi”. Salvatore Romano era quella specie di presenza che riportava in ordine i pedoni del cantiere in un colpo solo. La scacchiera si riordinava all’istante.

Due o tre giorni prima dell’incidente, nel nostro cantiere era giunto un grande camion. Una ventina di ometti riparati da sacchi di calce. Il caporale che li scortava era quello solito. Tutti lo chiamavano Eccellenza. Quando era sceso dalla camionetta si era avviato immediatamente, con un ombrello grande e sfolgorante come quello delle corse dei motocicli, verso il container dove era allestito l’ufficio di Salvatore Romano. Di solito quando bussavi nel container del capomastro lui balzava prontamente dalla sedia. Lo trovavi quasi sempre che frugava dentro le tasche dei pantaloni. Immaginavo che le tasche erano bucate, perché spostava le palle da destra a sinistra. Quella mattina ero nell’ufficio per la solita organizzazione del cantiere. Il caporale non aveva salutato, mi ricordo che non aveva bussato nemmeno. Il buongiorno dell’Eccellenza era un fracasso di frasi. Mi ricordo: “Tempo di merda”. Poi aveva fatto un segno con la testa per sottolineare la mia presenza, ma Salvatore l’aveva tranquillizzato con un cenno della mano.

“Quanti sono?”. Il capomastro masticava di prima mattina una piadina che gli lasciava fili verdi di spinaci tra le zanne giallastre. “Allora quanti?” aveva ripetuto più volte.
Eccellenza aveva risposto con il ritardo consueto. “Ho una ventina di uomini. Tutti cingalesi. Niente slavi. Tranquillo. Io non voglio rogne”.
“Cazzo, sono lenti” ingoiando il boccone come non avesse mangiato da giorni.
“Se serve questi si nascondono sotto terra. Non parlano” rispose il caporale con duro cipiglio. Poi si mise in disparte.
“Col cazzo che non parlano” aveva borbottato collerico il capomastro. Poi prese la cornetta del telefono. “Manda Luek” disse con voce più tranquilla, il che voleva dire che l’affare era fatto.

Dentro quell’ufficio mi sentivo di troppo. Dovevo subire le loro parole viscide. “Strano che non mi abbia detto niente” pensavo ascoltando il mio capomastro e l’Eccellenza. Parlavano di politica, di fica e di liquidi. E poi, che so io cosa pensava Salvatore Romano di uno come me che aveva scelto il cantiere invece di preferire i corridoi del nostro Comune.
“Ecco qua il nostro topo di sacrestia”. Entrambi avevano dato il loro benvenuto a Luek. Poi con voce seria e diligente il capomastro aveva detto: “Vedi, lì fuori ce ne sono una ventina dei tuoi…”.

Quando muore qualcuno nel cantiere, io vedo le croci bianche che spingono il cielo, fino a spaccarlo in due, in tre, in quattro, in mille pezzi.
I corpi di due stranieri erano negligentemente avvolti dentro le coperte che di solito usavano per ripararsi dal freddo. Poco distante il corpo del mio amicone Alessandro Brescia. Stessa sorte canaglia. “È stata una disgrazia” ripeteva il mio capomastro con le sopracciglia aggrottate. Ai corpi dei due stranieri ci aveva pensato l’Eccellenza. Erano annaffiati dall’acquazzone come due scomodi bauli.
Quando è arrivata la polizia, sul piazzale c’era solamente il corpo di Alessandro Brescia. Il camion del caporale era oramai parcheggiato in qualche altro cantiere.
Dovevo portare la brutta notizia a casa Brescia. “Hai studiato, sei calmo e diverso”. Erano state le parole del mio capomastro. La mano di Salvatore Romano era gelata. La lucetta flebile nel suo ufficio. Io fissavo una calamita a forma di coccinella che reggeva un foglietto sulla lavagna con la scritta: “Papà, ricordati della festa!”
Il giorno dopo sono arrivati i giornalisti. Nessuno aveva voglia di parlare.
Io e Luek non siamo mai arrivati a casa di Brescia. Ci siamo fermati prima, dai ragazzi singalesi, invisibili, che avevano sepolto i loro compagni di clandestinità.
Sul telefonino di Salvatore Romano ho lasciato un messaggio: “A casa Brescia non risponde nessuno …”

Sento tossire l’operaio che lavora qui sotto; la sua tosse arriva attraverso le grate che dal pianterreno danno nel mio giardino. Sicché essa pare risuonare tra le piante, toccate dal sole dell’ultima mattina di bel tempo.

Pier Paolo Pasolini, La tosse dell’operaio (1969)

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1 commento

  1. Bel racconto. Brava Sarah Zuhra Lukanic. Bisogna ridare dignità anche estetica alla gente che lavora nelle fabbriche e nei cantieri, dove c’è più bellezza che nei tribunali, che che sene dica….

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