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Gesti senza domani

di Carlo Tirinanzi De Medici

(a F., con autonomia)

Diversi romanzi usciti in Italia negli ultimi anni hanno per protagonisti bambini e adolescenti. Al di là delle evidenti differenze di qualità, stile e scopo, in opere come Io non ho paura di Niccolò Ammanniti (2001), Il tempo materiale di Giorgio Vasta (2008), Stabat mater di Tiziano Scarpa (2008), Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia (2009) o Acciaio di Silvia Avallone (2010) si racconta di ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni che devono destreggiarsi in un mondo distante, misterioso, a tratti incomprensibile: quello degli adulti. In questi romanzi si racconta l’epoca dell’immaturità e il percorso che disegnano è quello di una conquista progressiva della consapevolezza da parte dei giovani.

Sembrerebbero tutti, in senso lato, romanzi di formazione, il che è al contempo vero e falso.
Vero, perché il percorso dei protagonisti è quello di una progressiva presa di coscienza delle cose del mondo (o almeno così ci sembra). Falso, perché il romanzo di formazione è divenuto un meccanismo inattivo, oggetto di operazioni di recupero o semplice repertorio di stilemi. Esso, nella sua forma classica, è ormai escluso dallo «spazio letterario» della contemporaneità, ovvero da quell’insieme di opere che uno scrittore in un dato momento ritiene ragionevole scrivere. Franco Moretti ha osservato che «maturità e gioventù sono inversamente proporzionali» nel romanzo di formazione, e che proprio il contrasto derivato dalla compresenza dei due termini creava lo spazio artistico e formale del genere letterario. Nei romanzi dell’immaturità manca proprio questa struttura profonda di opposizione: viene recuperato solo ciò che è sulla superficie della forma originale, personaggi e situazioni, ma manca il contrasto profondo tra maturità e gioventù che dava senso al romanzo di formazione ottocentesco. Possiamo dire qualcosa di simile, tra l’altro, anche per altre forme narrative. Il malinteso realismo di tanta letteratura contemporanea, per esempio, recupera Flaubert senza preoccuparsi delle spinte e controspinte estetiche, epistemologiche e culturali cui Madame Bovary rispondeva, e realizza il desiderio del protagonista di Zoo o lettere non d’amore di Šklovskij: «vorrei scrivere come se la letteratura non fosse mai esistita». Ma quando i romanzi cadono fuori dalla storia del romanzo, essi, come afferma Kundera, cessano di essere opere e divengono pura attualità, «un gesto senza domani».

Il punto allora non è l’uso dell’adolescente o del bambino nel romanzo, ma è avere un buon motivo per farne il protagonista. Stefano Benni, ad esempio, nel suo piccolo ha sempre raccontato storie di ragazzi, ma il senso dell’operazione dello scrittore bolognese è chiarissimo: il bambino è il classico punto di osservazione straniante che produce lo spazio satirico tipico dei romanzi benniani. In secondo luogo il bambino è funzionale alla creazione del mondo fiabesco-meraviglioso in cui di muovono i protagonisti, in contrasto con il mondo gretto-realistico degli antagonisti, che sono tutti adulti — vecchi e bambini, dunque, a loro agio (i primi per innocenza, i secondi per esperienza) con il magico che irrompe nella logora quotidianità, fatta di prevaricazioni e violenze, degli adulti.

Ma non è certo questa la linea seguita dalle opere di cui sto parlando. C’è troppo realismo, troppo storicismo, troppa serietà perché la linea magico-meravigliosa prenda il sopravvento.
Per esempio a Lagioia interessa raccontare una Bari mefitica, ubriaca di denaro e droga, dove si brucia la gioventù italiana, e collegare quella realtà alla nostra di oggi tramite la duplicità del protagonista ragazzo degli anni Ottanta e adulto del Duemila. Ma egli non vive nessun contrasto tra maturità e gioventù: il racconto retrospettivo permette all’io narrante di “controllare” il protagonista, suo vecchio io, e rimodulare il proprio vissuto in base alla prospettiva che egli ha assunto oggi. La cifra storiografica dell’operazione è data dalla preminenza che il secondo ha sul primo nel tessuto narrativo: questo ragazzino è più adulto del padre. Il passato è un teatro in cui far muovere le contraddizioni di oggi: il protagonista del romanzo di Lagioia (e anche di quelli di Vasta e di tutti gli altri) è un adulto consapevole e maturo infilato nelle carni di un adolescente. A questo punto è più efficace un romanzo di formazione tardiva (per non dire estrema) come La fuga (2009) del giovane Adam Thirlwell, che rifiuta i ruoli prestabiliti e non confonde mai la «formazione» con la «maturità». Nella narrativa italiana, invece, abbiamo romanzi in cui l’immaturità è un’assenza, uno iato della memoria tra «come eravamo noi» e «come sono io». I romanzi dell’immaturità parlano, paradossalmente, di persone assai mature.

L’uomo maturo (nella Fuga, ad esempio, lo sono tutti meno il protagonista) sa che la vita «è viaggiare in capo al mondo, dire ‘Prego, prima lei’», ride educatamente alle battute del suo capufficio, paga con regolarità il mutuo per il villino a schiera e non si ubriaca mai alle feste. Magari è «democratico» e crede nella laicità, nel rispetto della diversità, nell’uguaglianza di fronte alla legge; oppure è reazionario, o «radicale»: in ogni caso è sempre sicuro di sé, perfettamente consapevole di avere precise responsabilità, dovute al posto che occupa nel mondo. C’è perciò un contrasto tra messaggio e medium: il romanzo ha necessità di compromettersi con l’immaturità, perché solo così evita di imitare gli atteggiamenti moraleggianti delle «persone serie». Il romanzo non sta mai al suo posto e fa sempre qualcosa di stupido, ingenuo o sconveniente. I suoi colpi di testa non sono quelli infantilmente ribellistici degli adolescenti, poiché il romanzo è nato adulto (con Cervantes, Sterne, Defoe) e nel corso degli anni magari è invecchiato (con Svevo, Gombrowicz, e poi con Bellow), ma sempre nell’ostinata ricerca di un’esperienza senza la saggezza a buon mercato del senno del poi, senza mai invischiarsi nella melassa delle buone maniere: è un genere selvaggio, come i Detective di Roberto Bolaño, non ha morali da vendere né etiche da regalare. Insomma il romanzo vive con la consapevolezza che la sua vecchiaia senza maturità, scevra di ogni consapevolezza su quel che è vero o bello o giusto, è l’arma con la quale esso può incidere la crosta indurita delle doxai, delle interpretazioni e delle credenze sul mondo che ci sono date da altri. Perché è solo in questo modo che il romanzo può mettere a nudo il nostro io, la nostra storia, disegnare le infinite possibilità del mondo e puntare a qualcosa di più elevato di un premio Strega.

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11 Commenti

  1. A mio avviso IL TEMPO MATERIALE di Vasta fa eccezione; lì ci sono ragazzini intenzionalmente più maturi, quasi geniali; ma è un particolare che fa gioco, nel contesto. Sulla questione generale la mia idea è che questo riandare all’infanzia o all’adolescenza sia un po’ come l’appoggiarsi – altrettanto ricorrente nella narrativa italiana attuale – alla propria biografia presente; valgano ad esempio i libri di Siti o Covacich o Piccolo e tanti altri. E questo appoggiarsi io lo leggo come una difficoltà creativa che altre letterature – quella americana per es. – non hanno. E’ come se mancasse un’audacia cosmologica, come se non avessimo il coraggio di creare mondi, ma soltanto di ri-creare un micro-cosmo che già conosiamo perfettamente, e nel quale siamo certi di non perderci, ci sentiamo a nostro agio. Trasponendo su un piano televisivo, faccio il paragone fra I CESARONI e LOST: uno iato estetico e cognitivo pressoché incolmabile.
    ps: L’UOMO VERTICALE di Davide Longo smentisce magnificamente quanto ho affermato sopra a proposito della narrativa italiana, e non è certo l’unica eccezione. Ma la linea generale mi sembra più l’altra.

  2. Ma quando i romanzi cadono fuori dalla storia del romanzo, essi, come afferma Kundera, cessano di essere opere e divengono pura attualità, «un gesto senza domani»: vorrei che qualcuno mi spiegasse questa affermazione… e’ davvero possibile scrivere un romanzo che sia fuori dalla storia del romanzo; e’ in generale possibile essere fuori dalla storia? A meno che, come a volte mi pare, la storia non esista, e allora diventa vagamente ridicolo il nostro voler aggiungere un paragrafo al lbro di testo, magari pensando di ‘mandare in buca’ tutti gli altri…
    @Macioci sono d#accordo su tutto, anche sul diverso e piu# alto livello di Vasta— ma c’era bisogno di tirare in ballo le serie? L’esempio e’ funzionale, ma le due sono entrambi esempi opposti e complementari di schifezza…

  3. Certo, sono un gesto senza domani. Per non parlare, ma proprio no, dello stile. Lo stile è il modo di un autore, il modo che lo distingue da ogni altro autore e , a mio parere, di stile nemmeno l’ombra in questi cartelloni da incollare a metri e metri di muri di periferia o di autostrade, fino a che spariranno tra il rumore del traffico e la crosta dello smog. Per essere sostituiti da altri , enormi, insignificanti fotografie.

  4. Salve a tutti e grazie per i commenti. Mi scuso in anticipo per gli accenti, ma al momento non dispongo di una tastiera per scrivere in italiano.

    @Enrico e Fabrizio: che Vasta si situi ad un livello superiore per capacita’ narrative sono d’accordo, ma quello che mi perplime e’ l’impianto di fondo di queste opere.
    @ Enrico: sulla somiglianza tra questi romanzi e la linea di Siti e altri, somiglianza ovviamente funzionale, non sono d’accordo. Proprio Siti tenta un respiro narrativo assente altrove.
    @ Fabrizio: scrivere romanzi fuori dalla storia del romanzo sembra essere divenuto il passatempo preferito degli italiani. Sul discorso, piu’ generale, di esser fuori dalla storia non so dare risposte ne’ opinioni, ma per quanto riguarda il romanzo la frase da “Zoo o lettere non d’amore” mi e’ sempre parsa chiarificante: vuol dire scrivere come se la letteratura, e dunque le strade, i percorsi, i tentativi fatti, non fosse mai esistita e lo scrittore si approcciasse alla scrittura senza tener presente che un passato c’e’, che appunto c’e’ una storia.

  5. ciao a tutti,

    leggo questo post e rimango perplesso. degli esempi di letteratura italiana contemporanea proposti, ne ho letti solo due, “riportando tutto a casa” di nicola lagioia e “il tempo materiale” di giorgio vasta.

    non mi esprimo sul resto, magari sarà pure come è scritto qui, ma i due romanzi appena ricordati sono tra i libri migliori usciti negli ultimi anni. tutt’e due, nelle rispettive maniere, hanno una lingua precississima, toccante e prensile. entrambi sono libri amplissimi, capaci di contenere un’intera epoca storica e nello stesso tempo di far brillare nelle avventure marginali di alcuni ragazzini tanto la storia quanto le nevrosi, le ossessioni, i sentimenti, determinate forme di sentimenti, che attraversano quei ragazzini. entrambi – in modo più immaginifico e paradossale vasta, in modo più realistico e corrosivo lagioia – raccontano un trauma tutto italiano. il terrorismo e gli splendidi splendenti anni ’80. ma con una torsione inaspettata: la storia in carne e ossa del brigatismo raccontata da vasta diventa una formula immaginaria da occupare e riorganizzare dentro il racconto, mentre l’immaginario degli anni ’80 in lagioia diventa il corpo e il sangue dei suoi personaggi.

    gli adolescenti di vasta e lagioia, seppure consapevoli dello spirito del tempo, affrontano le contraddizioni della propria epoca con azioni spiazzanti, ma tutt’altro che mature, come qui viene proposto: i ragazzini di vasta giocano al brigatismo, ma niente è più serio per un ragazzino di un gioco, e giocando lo portano alle estreme conseguenze. il protagonista di lagioia porta avanti una storia d’amore, se non ricordo male, nel quartiere più degradato di bari, rimanendo per giorni in casa di uno spacciatore. la presunta maturità affermata nel post qui letteralmente esplode: i protagonisti dei romanzi dirottano le proprie vite seguendo logiche che rifuggono qualsiasi forma di consapevolezza e maturità.

    che i due protagonisti, poi, siano ipersensibili e qui frettolosamente definiti “maturi”, non mi sconvolge più di tanto: abbiamo imparato leggendo per esempio david foster wallace che è una caratteristica di questi tempi l’ipersensibilità, anche se tutta la conoscenza acquisita a volte non porta a nessuna forma di maturità, ma se vogliamo ad una specie di blocco sentimentale: si acquisiscono tali conoscenze, ma poi non si capisce bene come utilizzarle. un puro scacco cognitivo.

    ed è vero che sono romanzi di formazione, ma di una forma particolare: una strana miscela tra romanzo di formazione e romanzo storico, al punto da rendere ancora più esplosive ed emblematiche le traiettorie dei protagonisti.

    però c’è una cosa che non riesco a capire. vista la trama dei romanzi, la potenza del loro linguaggio, la continua sorpresa spiazzante del linguaggio utilizzato, l’affinità con molta parte della letteratura contemporanea e non, (perlomeno è facile notare in alcuni passagi di lagioia la predilezione per philip roth), non si spiega come questi romanzi possano essere descritti come libri appiattiti sul presente, fuori dalla storia del romanzo, un gesto senza domani. mi pare allora che due o tre formulette di critica letteraria qui vengono adoperate in forma stereotipata senza riuscire a cogliere niente di vero e necessario, tanto più mettendo sullo stesso piano libri che per potenza espressiva, nitore e un sottilissimo filo emotivo che stringe vicino lettore e scrittore, è facile distinguere e porre all’attenzione.

    giuseppe

  6. Tra gli scrittori italiani ( come, troppo spesso, accade anche nel cinema) manca l’energia, manca l’nvenzione, manca la genialità. E per citare solo qualche nome di scrittori contemporanei che scrivono romanzi magnifici e inventano mondi e storie mai sentiti, con il rispetto assoluto, però, della storia del romanzo moderno, ecco qualche nome ( e non ci sono solo P.R. o F.W.) ma Patrick deWitt, Kiran Desai, Elizabeth Strout, C.E. Morgan e Adiga e il grande Doctorow, e J. Banville e mille altri inventori che ad ogni nuovo romanzo mettorno il lettore (e parlo di lettori, solo di lettori) di fronte alla meraviglia dell’nvenzione unita alla grande generosità del rispetto, appunto , della storia della letteratura.

  7. Caro Tirinanzi,
    non mi convince l’uso che fa delle categorie critiche proposte da Franco Moretti. Non credo sia, del resto, fruttuoso impiegare categorie valide per i romanzi di formazione di fine ottocento/ primo novecento alla contemporaneità. Il problema è capire la specificità della situazione italiana di oggi, il contesto non solo letterario ma anche culturale e sociale.
    Inoltre, alcune scelte critiche e romanzesche da Lei citate sembrano volte forzatamente a giustificare un impianto teorico filo kunderiano che vede nel romanzo occidentale la forma privilegiata entro cui deve, per forza di cosa,svilupparsi il romanzo contemporaneo, come del resto la citazione di Thirlwell (elogiato da Kundera stesso) testimonia.
    Questo tipo di approccio critico che si avvale di categorie passate e che distrugge in modo disinvolto le opere senza dimostrazioni sul piano testuale è un esercizio snobistico che denota i tratti più superficiali dell’accademia italiana.

  8. Salve,
    mi scuso per il ritardo nelle risposte: ero via e non ho avuto accesso a internet.

    @ concetta: possiamo raffinare i termini, se vogliamo, ma non credo di aver appiattito il discorso sul presente per farlo rientrare nelle categorie del passato.
    Non capisco invece la faccenda dell’impianto filo-kunderiano verso cui si volgono le mie scelte critiche e romanzesche. Posso risponderle se mi fa presente di quali scelte lei stia parlando. Inoltre io non credo che il romanzo contemporaneo debba per forza di cose svilupparsi nell’alveo della produzione occidentale ma, parlando di opere occidentali mi sembra ragionevole che si tenga conto dei precedenti.
    Thirlwell? Parlo di Thirlwell perché è l’esatto opposto degli scrittori di cui tratto, mi sembrava abbastanza evidente. Se poi Kundera, per il quale non parteggio in modo sfegatato (ho usato anche una citazione da Sklovskij e una da Guido Mazzoni ma perché allora lei mi dà del filo-kunderiano e non del para-formalista?) elogia Thirlwell, avrà le sue ragioni, ma non ne venga a chieder conto a me.
    Francamente non considero questo pezzo come tipico frutto dell’accademia, ma forse parliamo di accademie diverse. Inoltre mi pare ingeneroso dirmi che ho distrutto snobisticamente e disinvoltamente le opere: credo di avere portato alcune motivazioni. Poi a lei possono sembrare stupide, ma questo è un altro discorso.

    @ Giuseppe Zucco: la maturità dei protagonisti non la vedo nelle azioni che essi compiono, ma nelle azioni che essi narrano. Le faccio notare che ho distinto «immaturità» (romanzo) e «ribellistico-adolescenziale» e che dunque le azioni dei protagonisti cui lei fa riferimento sono da ricondurre a questa seconda categoria.
    Ma ciò che più mi premeva mettere in luce era questo doppio movimento di molti romanzi italiani: incantamento per la giovinezza l’adolescenza l’infanzia da un lato e dall’altro la consapevolezza degli uomini adulti. Tra l’altro, in questo le «formulette di critica letteraria» non hanno un gran peso.

    @ Wif: completamente d’accordo!

    Grazie a tutti per i commenti e a presto.

    Carlo

  9. mi permetta di capire: lei vede “maturità” nelle azioni che i protagonisti narrano, cioè – a meno che lei non intenda altro – nella lingua utilizzata.

    allora: non è che sovrappone la maturità dei personaggi con la maturità degli scrittori qui richiamati?

    e se riscontra tale maturità formale – cioè un robusto lavoro di sintassi e composizione e lima su una lingua che precede gli scrittori, e quindi parecchio già lavorata ed affinata in altre forme romanzo – com’è possibile sostenere che questi romanzi non tengano conto delle spinte e controspinte estetiche ed epistemologiche della forma romanzo ottocentesca, e ancora di più con la forma romanzo tout court? cos’è, questi romanzi sono venuti fuori dal nulla, senza nessuna tradizione alle spalle?

    e di più: la forma che lei definisce “ribellistico-adolescenziale” è una forma di maturità? davvero?

    e infine: questa linea magico-meravigliosa che dovrebbe prendere il sopravvento per restituire tale immaturità, cosa c’entra, per esempio, con bolano? leggendo “2666” si capisce come lo sforzo dello scrittore è sempre quella di restare un passo al di sotto della linea del magico e del meraviglioso, cercando di andare oltre la tradizione latinoamericana che lo ha preceduto, recuperando nella propria scrittura kafka e borges, mica marquez. tanto che nel volume “tra parentesi”, edito da adelphi, a p. 110, bolano si promette di fare “della letteratura cilena [io direi anche, della letteratura tout court] qualcosa di ragionevole e visionario, un esercizio di intelligenza, avventura e di tolleranza”.

    giuseppe

  10. Come esempio di immaturità, che quindi farebbe collassare il mio ragionamento, lei ha portato due episodi dei romanzi di Vasta e di Lagioia. Nel mio articolo (paragrafo 4) ho approfondito l’esempio di Lagioia che mi sembrava il più chiaro tra quelli a mia disposizione e a quello mi rifaccio per ragioni di concisione: da un lato abbiamo l’adolescente che vive, dall’altro l’adulto che racconta. Ma il secondo si sovrappone al primo, finché il primo non svanisce: si pensi alla descrizione di “Drive In:” è l’adulto che parla. Noi vediamo il mondo con gli occhi di un adulto. In questo senso dicevo che il punto sta nella narrazione degli eventi.
    “Ribellistico-adolescenziale” non è una forma di maturità: ma è una tappa sulla via della conquista della propria maturità. Se ho ripreso l’espressione nella mia precedente risposta l’ho fatto perché mi sembra importante distinguere l’invecchiare senza maturità (per la qual cosa, lo dice anche Guccini, «ci vuol scienza, ci vuol costanza») che è un processo che riguarda il narratore dall’atto di ribellione al mondo craxian-berlusconiano (ma più berlusconiano che craxiano, quindi più Duemila che Ottanta) che appartiene al protagonista.
    Infine: mai detto che la linea magico-meravigliosa è la soluzione né che Bolaño vi appartenga. L’ho citato quando ho detto che il romanzo è un genere “selvaggio.” Fiabesco (e non magico)-meraviglioso è un termine con cui mi riferisco all’immaginario di Stefano Benni in tutt’altra parte del mio scritto.

    Carlo

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