PHILIP LARKIN

di Franco Buffoni

Il 1956, per l’Inghilterra, non fu soltanto l’anno della crisi di Suez, che ridimensionò radicalmente lo status della nazione come potenza mondiale, ma anche l’anno della svolta in due fondamentali generi letterari: il teatro (con lo shock provocato dalla prima rappresentazione di Look Back in Anger di John Osborne) e la poesia, con la pubblicazione della antologia New Lines, curata da Robert Conquest, che sancì la nascita del Movement.
L’evento era stato preceduto da un articolo anonimo – apparso due anni prima sullo Spectator (poi riconosciuto come proprio da Anthony Hartley), che riconosceva in un gruppo di giovani poeti “il solo movimento degno di questo nome nella poesia inglese dopo quello dei trentisti” – e da un’altra antologia, Poets of the 1950s, apparsa nel 1955 a Tokyo (e, proprio per questo, passata al momento inosservata) curata dal poeta e critico D. J. Enright. I nomi dei poeti presenti nelle due antologie sono gli stessi, con la sola aggiunta, da parte di Hartley, di Thom Gunn: Kingsley Amis, Donald Davie, John Wain, Elizabeth Jennings, John Holloway. E Philip Larkin: di tutti il più rappresentativo dello spirito del Movement e destinato, dapprima, a consustanziarsi in esso, quindi a informare di sé, griffandolo, l’intero movimento.
Nato a Coventry nel 1922, Larkin si affaccia alla vita adulta assistendo alla più radicale e sistematica distruzione di un centro urbano che l’Inghilterra abbia mai conosciuto, ma decide di non testimoniare né questo né alcun altro dramma o tragedia dell’umanità. O, se non altro, di non farlo direttamente.
Il primo libro di versi, uscito nel 1945 presso un piccolo editore, The Fortune Press, e ristampato da Faber nel 1966, si intitola The North Ship. Pur risentendo ancora fortemente dell’influenza di W. B. Yeats, in particolare per quanto attiene l’attrazione per la musicalità del verso (Larkin stesso avrebbe poi ammesso di essere riuscito a trovare una voce propria in poesia solo dopo essersi affrancato dal fascino della versificazione yeatsiana), The North Ship contiene testi poetici di alto valore e a tratti è in grado di annunciare gli sviluppi della poetica dell’autore nel decennio successivo:

Dawn

To wake, and hear a cock
Out of the distance crying
To pull the curtains back
And see the clouds flying–
How strange it is
For the heart to be loveless, and as cold as these. 1

Prima di giungere alla pubblicazione nel 1955 presso Marvell Press di The Less Deceived, il volume che avrebbe rivelato appieno l’originalità e la forza centripeta del suo dettato poetico, Larkin si irrobustì stilisticamente superando con successo quella che vorremmo definire la “prova della prosa”: ben due romanzi, pubblicati il primo (Jill) nel 1946, il secondo (A Girl in Winter) nel 1947, testimoniano di questa fase di apprendistato. Una fase nobile, tuttavia: in Larkin non vi è nulla di “giovanile” in senso deteriore, l’autocoscienza e il senso critico essendo stati in lui profondamente radicati sin dagli esordi. E in questo periodo, per esplicita ammissione dell’autore (cfr. la sua prefazione all’edizione del 1966 di The North Ship), all’influenza quasi subliminale di Yeats si sostituisce quella cercata, costruita, voluta, estremamente tecnica e ideologica, di Thomas Hardy poeta.
The Less Deceived, oltre che uno splendido libro di poesia, può anche essere definito il manifesto programmatico di una poetica, risultando Larkin particolarmente avaro per quanto attiene le cosiddette dichiarazioni di poetica. Emblematico un distico d’esordio: “Too much confectionery, too rich: / I choke on such nutritious images”. La poesia si intitola “Lines on a Young Lady’s Photograph Album”, e il poeta subito attacca difendendosi strenuamente dalle “immagini”. Troppo dolci quei dolci per poterli gustare a lungo; soffocante è quella vita che gli trabocca innanzi. Basterebbe un rivolo di tanta abbondanza per un intero romanzo.
Il poco, dunque, il meno che poco, ma analizzato al microscopio, vivisezionato, è quanto il poeta (la cui infanzia è stata tutta un “forgotten boredom”) abbisogna per nutrire la propria scrittura. Ma in quella noia di una crescita senza rivelazioni (e la critica – o meglio, la mockery – è totale al movimento romantico, alle eroiche mistiche trentiste) 2, in quella monotonia, il poeta ritrova il guizzo, l’attimo: “I… feel like a child / Who comes on a scene / Of adult reconciling, / And can understand nothing / But the unusual laughter, / And starts to be happy”. 3
Colta la chiave di lettura, la poesia di Larkin si dispiega senza reticenze, grazie a uno stile diretto, a un lessico preciso, al rifiuto pregiudiziale della metafora. A Larkin sta a cuore parlarci di quel “meraviglioso odore di ragazze” che lo attrae. E allora perché stare fuori dal locale dove si balla, dove quell’odore domina; perché accontentarsi di sbirciare dalla finestra? Perché, malgrado tutto “What calls me is that lifted, rough-tongued bell / (Art, if you like)”; così, loro, dentro, si agitanto “believing that”; e io sto fuori “believing this”.
Potremmo quasi pensare a Luzi nella locanda, quando osserva entrare gli avventori, e li vede bere e giocare, li sente parlare: al senso di estraneità che egli prova. Con una differenza: Larkin non è sostenuto da alcuna superiorità teleologica, non ha nessuna rivelazione ad innalzarlo: manca il trespolo. Anzi, il trespolo è al contrario. In uno dei testi più celebri della raccolta – “Church Going” – il poeta narra di come talvolta nei giorni feriali scenda dalla bicicletta accanto alla chiesa, ed entri imbarazzato domandandosi chi sarà l’ultimo, proprio l’ultimo, “a cercare questo posto per ciò che era”.
Eroe-antieroe dei propri testi, Larkin finisce con l’incarnare, malgrado la dichiarata avversione al Modernismo e ai suoi autori, l’immagine di un Leopold Bloom per le strade di Oxford (dove ha studiato) o di Hull (dove ha lavorato per vent’anni come bibliotecario), rimuginante spettatore delle azioni e soprattutto delle frasi altrui. “He walked out on the whole crowd”, oppure “Then she undid her dress”, o ancora “Take that you bastard” 4 sono frasi che il poeta sente e si ripete chiedendosi se mai anche lui un giorno potrà dire o fare ciò. Ben sapendo che non accadrà mai; semplicemente egli non uscirà mai dalla sua vita “reprehensibly perfect”.
Se si dovessero percepire parentele patologiche con dichiarazioni relative ad esistenze vissute al 5% non credo si sarebbe fuori strada, sempre tuttavia tenendo conto del fatto che, in Larkin, anche il più piccolo moto di narcisismo riferito al ricordo, al dato personale, viene capovolto e irriso. Nella lirica “I Remember, I Remember”, per esempio, il processo in atto è precisamente il contrario di quanto avviene nel Prelude wordsworthiano (in ambito romantico) o nel World Within World spenderiano (per andare ai trentisti), o più semplicemente nell’Amarcord di Federico Fellini. Il treno passa da Coventry è l’io narrante pensa “è solo dove la mia infanzia non fu vissuta, dove tutto incominciò”. Proseguendo con il giardino “where I did not invent / Blinding theologies of flowers and fruits”, per giungere alle felci “where I never trembling sat” e finire a quelle stanze dove “my doggerel / Was not set up in blunt ten-point, nor read / By a distinguished cousin of the mayor”. Conclusione: “I suppose it’s not the place’s fault”. 5
Fino a rivolgersi alla propria “Pelle”, in uno dei testi conclusivi della raccolta, chiedendole di raggrinzirsi in fretta, di afflosciarsi (sottintendendo con ciò: allora molti problemi si risolveranno definitivamente); e scusandosi con essa, tuttavia, per non averla saputa indossare a nessuna festa quando era nuova e fresca, come è giusto fare con gli abiti “till the fashion changes”.
La pubblicazione di The Less Deceived, coincidendo con l’uscita della antologia di Conquest, costituì il nucleo essenziale attornò al quale, negli anni successivi, andò sviluppandosi il dibattito attorno al Movement. Dibattito al quale Larkin riuscì quasi sempre a sottrarsi, proprio per questo finendo per assumere il ruolo di eminenza grigia del movimento. Ma quali ne erano, in sintesi, i principali punti programmatici? Anzitutto va ricordato che, nei primi anni cinquanta, la scena poetica inglese si presenta piuttosto sguarnita. T. S. Eliot è ormai un monumento mondiale, ma è chiaro a tutti che la sua vena poetica è completamente esaurita. W. H. Auden è diventato cittadino americano e i suoi ex compagni trentisti, perduto con la guerra il baldanzoso slancio giovanile, sono poeticamente allo sbando. Dylan Thomas muore alcolizzato nel 1953, e già da alcuni anni il suo carisma si era affievolito. Ecco dunque i bersagli da colpire: il modernismo con gli “americani” Pound e Eliot e la loro scrittura egoistica e oscura, assolutamente estranea alla netta e cristallina versificazione tradizionale inglese (tanto è vero che ci si rifarà a modelli di chiarezza persino settecenteschi); e il surrealismo metafisico-misticheggiante (leggi Dylan Thomas) con le sue pretese di affascinare inebetendo gli ascoltatori. Occoreva riscoprire l’ironia, la sintassi e lo wit. Non casualmente i “movementeers” vennero soprannominati “university wits” sul modello settecentesco, con riferimento anche alla loro provenienza oxbridgeana e al fatto che ormai insegnavano tutti in varie università del regno (o all’estero come Enright), o almeno regnavano su una biblioteca universitaria, come Larkin a Hull.
Celeberrima programmaticamente fu anche la sentenza di Kingsley Amis: “Nobody wants any more poems about philosophers or paintings or novelists or art galleries or mythology or foreign cities or other poems”. La dichiarazione divenne ben presto moda. Non ci fu più casa editrice importante disposta a pubblicare libri di autori d’ambito cosmopolita, modernista, surrealista o trentista, inclusi Stephen Spender, MacNeice e Day Lewis; o autorevole quotidiano o rivista che invitasse un autore non-moventeer a pubblicare sulle proprie pagine: poeti come David Gascoyne, Charles Tomlinson o J. H. Prynne ebbero vita durissima. Per altri, come Basil Bunting, ancora oggi non è avvenuta una piena rivalutazione.
Ad antologia di tendenza rispose allora un’altra antologia di tendenza (quella del Group, dominata da Ted Hughes), secondo la consuetudine tipicamente inglese di dividersi in certi periodi in battagliere schiere letterarie contrapposte, dotate di organi di informazione, apparati e antologie estremamente tendenziosi; mentre in altri periodi – come in quello attuale – predomina il fair play del dato acquisito, e le antologie si limitano a registrare asetticamente gli autori operanti.
In questo quadro di aspre invettive e reciproche scomuniche Larkin per lo più taceva e scriveva (saggiamente poco: i suoi libri di poesia ebbero una cadenza decennale). Ma quando usciva anche con un solo testo su rivista faceva centro, divenendo così sempre più un modello per tanti giovani aspiranti poeti. E nel 1965 pubblicò il suo libro più importante, The Whitsun Weddings. Prima di passare ad analizzare tale sviluppo maturo della sua poetica, ricordiamo che in seguito (1974) l’ultimo libro – High Windows – ebbe enorme successo di pubblico, ma non riuscì più a centrare con eguale precisione e secchezza elementi biografico-aneddotici insieme a stoici e/o nichilistici ritratti d’ambiente. Poi, lunghi periodi di silenzio interrotti da pochi inediti su rivista, fino alla morte avvenuta nel 1985. Postumi i Collected Poems del 1988 e le Selected Letters del 1992.
The Whitsun Weddings si apre con testi ad ampio respiro, sorretti da mirabili schemi metrici. Larkin gioca a suo piacimento con strofe a 4, 6, 7, 8 versi, riuscendo a presentare come un fatto assolutamente naturale gli intarsi di rima più artificiosi: per esempio, nelle composizioni di strofe a sette versi, ciascuna stanza – già compiuta in sé – risulta legata alle altre in quanto il primo verso riprende la rima del quinto verso della stanza precedente, così da poter permettere la lettura della poesia anche come se fosse composta di sotterranee quartine.
Anche sul piano strettamente contenutistico i testi di The Whitsun Weddings presentano incredibili sorprese. Si confronti per esempio il finale della poesia “Here” (“Here is unfenced existence: / Facing the sun, untalkative, out of reach”) con il finale del primo testo di North, la contemporanea (apparsa nel 1975 da Faber) raccolta di Heaney (“Here is love / like a tinsmith’s scoop / sunk past its gleam / in the metal bin”).
Sempre con la spietatezza del groppo in gola trattenuto fino al distico finale e mai esplicitato se non in termini di sommesso dettaglio; più spontaneo quando si tratta di altri personaggi piuttosto che dell’io narrante, Larkin mette in scena le sue madeleines: la stanza d’affitto di Mr Bleaney, dove poter spegnere i mozziconi sullo stesso piattino-ricordo non più usato dalla morte di lui; o gli spartiti di romanza logorati dal tempo a cui “lei” ora ritorna, rimasta sola, ben sapendo che “così come non era stato allora, non sarebbe stato neanche adesso”. E sempre passando, con un rapidissimo cambio di inquadratura, dal generale al particolare, e giungendo al dettaglio rivelatorio in modo dolorosamente sorprendente (“and the voice above / Saying Dear child, and all time has disproved”). O anche: “You can see how it was: /…/ The music in the piano stool. That vase”.
Fino al componimento che dà il titolo al libro: le nozze di pentecoste, tanti matrimoni conclusi alla stazione con la partenza degli sposi in treno, paese dopo paese; e l’io narrante che li vede salire, e vede i parenti salutare (“children frowned / At something dull; fathers had never known / Success so huge… / The women shared / The secret like a happy funeral; / While girls, gripping their handbags tighter, stared / At a religious wounding”). Conclusione: “A dozen marriages got under way”.
Il tutto intervallato da un componimento breve, giustamente famoso – “Days” – che a noi italiani, nella prima parte non può non richiamare Lamarque; mentre, nella seconda lassa, pare riprendere l’immagine del prete e del dottore dalla Ballad of Reading Gaol di Oscar Wilde:

What are days for?
Days are where we live.
They come, they wake us
Time and time over.
They are to be happy in:
Where can we live but days?

Ah, solving that question
Brings the priest and the doctor
In their long coats
Running over the fields. 6

Peculiare larkiniana è comunque sempre la capacità di illuminare a giorno l’infimo dettaglio, facendogli assumere valenza universale. E’ così per quegli agnelli (e ci vuole del coraggio per un poeta inglese a porre gli agnelli nel primo verso; come per un italiano la cavallina o l’anguilla: totalmente bruciate in poesia); quegli agnelli che imparano a camminare nella neve: “They could not grasp it if they knew, / What so soon will wake and grow / utterly unlike the snow”.
Una capacità che il poeta riesce persino ad accentuare quando il riferimento è alla sfera sessuale, alla sfera dei rapporti sessuali con l’altro sesso. Dockery, il compagno di università scomparso, ora ha un figlio di vent’anni che frequenta lo stesso loro college. Lo ripete tra sé, pensoso, il poeta, dopo le parole del rettore (la poesia si intitola appunto “Dockery and Son”). Dockery, dunque, a quel tempo… e “Dockery was junior to you, / Wasn’t he?”. Sono “innate supposizioni” che si ergono come nubi di sabbia: “For Dockery a son, for me nothing”. Ma la vita, conclude il poeta – implicitamente ribadendo al sonetto shakespeariano che, tanto, con lui, non c’era nessuna bellezza da tramandare – “is first boredom, then fear. / Whether or not we use it, it goes”.
Certo, che la si usi o no, la vita passa. Ma fino all’ultimo testo dell’ultimo libro l’ossessione, divenuta forse vezzo, birignao; l’ossessione si trascina dal kavafisiano nogozio di merceria (“The Large Cool Store”), dove – oltre i mucchi di camicie e pantaloni – appaiono “Lemon, sapphire, moss-green, rose / Bri-Nylon Baby-Dolls and Shorties” come lucenti alberi della tentazione. E così Larkin, che in “Annus Mirabilis” ci aveva dichiarato

Sexual intercourse began in nineteen-sixtythree-
Which was rather late for me-
Between the end of Chatterley ban and the Beatles
First L.P. 7,

vuole concludere – e può assolutamente permetterselo – il suo percorso poetico e umano in tono quasi voyeuristico:

High Windows

When I see a couple of kids
And guess he’s fucking her and she’s
Taking pills and wearing a diaphragm,
I know this is paradise. 8

NOTE
[ Tutte le versioni italiane dei testi di Philip Larkin presentate in queste note sono di Franco Buffoni. ]

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NOTE
  1. Alba

    Svegliarsi sentendo in lontananza
    Un gallo cantare,
    Aprire le ante e vedere
    Le nuvole fuggire…
    Come è strano che il cuore non senta,
    Che sia freddo come le cose.

  2. A mo’ di esempio, su questo punto, commenteremo in seguito la lirica “I Remember, I Remember” che appare nella raccolta The Less Deceived.
  3. Giungendo

    Come si allungano le sere
    La luce gialla e fredda
    Bagna la fronte serena delle case.
    Dall’albero di alloro
    Nel giardino spoglio
    Un tordo canta:
    La sua voce nuova sorprende
    Il muro di mattoni.
    Presto sarà primavera
    Presto sarà primavera
    Ed io con la mia infanzia
    Di noia dimenticata
    Mi sento un bambino
    Che giunge proprio quando
    Gli adulti fanno pace,
    E non capisce niente
    Tranne un sorriso insolito,
    E comincia ad essere felice.

  4. “E lui piantò baracca e burattini”, “Allora lei si slacciò il vestito”, “Prenditi questo, bastardo”. Cfr. “Poetry of Departures” in The Less Deceived.
  5. “Dove non inventai / Stupefacenti teologie di fiori e frutti”, “Dove non mi sedetti mai tremante”, “Dove i miei versi / Non vennero composti in un corpo dieci logorato”; “Suppongo che non sia colpa del posto”. Cfr. “I Remember, I Remember”, in The Less Deceived.
  6. Giorni

    A cosa servono i giorni?
    I giorni servono per viverci.
    Vengono e ci svegliano
    Ogni volta di nuovo.
    Servono per viverci felici.
    Dove si può vivere se non nei giorni?

    Ah, risolvere il problema
    Porta il prete e il dottore
    Nei loro abiti lunghi
    Di corsa per i campi.

  7. da “Finestroni”

    E a scopare si cominciò nel 63
    Tra la fine del bando a Lady Chatterley
    E il primo ellepi dei Beatles.
    Invero piuttosto tardi per me.

  8. da “Annus Mirabilis”

    Quando li vedo in coppia
    E si capisce che scopano
    E lei prende la pillola ha il diaframma
    Io lo so che quello è il paradiso.

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franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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