JOHN KEATS E LA TRADUTTOLOGIA

di Franco Buffoni

John Keats pare occuparsi ben poco del problema della traduzione.
Nell’epistolario i riferimenti sono solo due. Il primo, nella lettera a Jane Reynolds del 14 Settembre 1817: “Mia cara Jane, sei una traduttrice talmente letterale che un giorno o l’altro mi divertirò a leggere delle frasi in un’altra lingua e a pensare come le renderesti in inglese. Questa è un’epoca che favorisce le bizzarrie e ti consiglierei come un buon investimento, di studiare l’ebraico e di stupire il mondo con una traduzione figurativa nella nostra lingua materna…”.
Che cosa Keats intenda per “traduzione figurativa” lo si comprende chiaramente dal secondo riferimento. È contenuto nella lettera a John Hamilton Reynolds del 22 settembre 1818, a cui Keats allega la sua traduzione di un sonetto di Ronsard, che egli definisce “libera”, mentre, con riferimento alle opere di Ronsard, egli parla “di grande bellezza”. La traduzione è “libera” anche perché Keats non aveva con sé l’originale quando la redasse, e quindi non ricordava più, così egli afferma, “gli ultimi versi”. Translated from Ronsard venne composto a metà settembre del 1818 e pubblicato per la prima volta nel 1848; il sonetto di Ronsard, Nature ornant Cassandre è il secondo sonetto di Le premier Livre des Amours (Amours de Cassandre, 1552).
Ma se non lo fece in prosa (non lo potè fare anche proprio per mancanza di tempo, la morte precoce avendolo colto a venticinque anni), una concezione raffinatissima di che cosa sia la traduzione letteraria Keats riesce ad esprimerla in poesia nel sonetto On First Looking into Chapman’s Homer.
Pubblicato sull’Examiner di Leigh Hunt il 1 dicembre 1816, e composto nell’ottobre dello stesso anno, il sonetto ebbe una particolare genesi, ben narrata da Cowden Clarke nelle sue Recollections of Writers. Una sera Leigh Hunt mostrò a Keats, in una rara edizione in folio del 1616, i libri dell’Odissea tradotti da Chapman. In particolare l’attenzione del poeta cadde sui versi che, nel V libro, descrivono il naufragio di Ulisse. Keats rimase talmente colpito e ispirato da trascorrere il resto della notte a comporre, presentando al mattino il sonetto concluso all’amico.

On First Looking into Chapman’s Homer

Much have I travell’d in the realms of gold,
And many goodly states and kingdoms seen;
Round many western islands have I been
Which bards in fealty to Apollo hold.
Oft of one wide expanse had I been told
That deep-brow’d Homer ruled as his demesne;
Yet did I never breathe its pure serene
Till I heard Chapman speak out loud and bold:
Then felt I like some watcher of the skies
When a new planet swims into his ken;
Or like stout Cortez when with eagle eyes
He star’d at the Pacific – and all his men
Look’d each other with a wild surmise –
Silent, upon a peak in Darien.

Guardando per la prima volta nell’Omero di Chapman

Molto ho viaggiato nei regni dell’oro,
Molti stati grandi e imperi ho visto;
In molte isole dell’ovest sono stato
Che i bardi tengono in fedeltà ad Apollo.
Spesso di un grande mondo avevo udito
Dal cipiglio di Omero governato;
Ma mai ne respirai la quiete pura
Finché di Chapman udii la voce audace:
Come un astronomo dei cieli mi sentii
Quando un nuovo pianeta percepisce;
O come Cortés dallo sguardo fiero
Quando mirò al Pacifico in silenzio
Da una cima di Darien. E la ciurma
S’interrogò con impietoso sguardo.

Il sonetto presenta una struttura petrarchesca (sappiamo che Keats ricorse sia al modello shakespeariano – tre quartine più distico – sia al modello petrarchesco) con uno schema di rime ABBA che nelle due terzine diventa ABA BAB. Mentre le due quartine (vv. 1-8) possono dirsi inserite nella tradizione neoclassica dei riferimenti ad Apollo e ai regni dell’oro (eco dell’Eldorado), con un movimento della scrittura che potrebbe definirisi “orizzontale”, nelle due terzine conclusive (vv. 9-14) il componimento diviene “verticale” grazie alle due similitudini con le quali il poeta vuole manifestare lo stupore, la meraviglia che lo colse leggendo la traduzione di Chapman. L’inglese levigato e perfetto di Pope (cioè della traduzione canonica di Omero nell’Inghilterra del primo Ottocento: l’unica che Keats conoscesse) svanisce d’incanto e lascia il posto alle rudezze elisabettiane, alle libertà sintattiche e semantiche che quell’inglese ancora arcaico poteva permettesi.
Grazie a questa traduzione Keats ritiene di avere scoperto il vero Omero ed è questa la meraviglia che intende manifestare al lettore nel suo primo – cronologicamente parlando – capolavoro.
Entrambe legate alle letture che Keats ragazzo amava compiere, le due similitudini sono fonte di freschezza e di entusiasmo: quella dell’astronomo (il guardatore dei cieli, con un espressione di segno elisabettiano) che scopre un nuovo pianeta (e Keats qui rivive l’emozione provata leggendo della scoperta di Urano avvenuta pochi decenni prima). E la seconda, ancora più stupefacente, con gli uomini della ciurma di Cortés che si guardano l’un l’altro annichiliti, fulminati dallo sguardo d’aquila del conquistatore che ai suoi piedi vede distendersi il continente sud americano.
Traduzione come fonte di meraviglia, dunque, e sonetto paradigmatico sul senso profondo del tradurre ponendo in dialogo civiltà culturali e fasi diverse nell’evoluzione delle lingue vive. Ma il sonetto diventa ancora più intrigante per lo studioso di traduttologia, allorché si scopre che sul promonotorio di Darien non si trovava Cortés, e Keats lo sapeva benissimo, bensì Balboa. Questo nome non soddisfaceva la melopeia keatsiana. Nemmeno Pizarro l’avrebbe soddisfatta. Occorreva un bisillabico crudele come una frustata per avvalorare la sensazione di rapacità, terrore e meraviglia, e Keats procede alla falsificazione storica senza il minimo dubbio. Da un punto di vista traduttologico, se si ritiene la traduzione di poesia volta ad un’ottica di tipo estetico, questo stesso tipo di libertà può prendersela anche il traduttore?

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20 Commenti

  1. Per chi fosse curioso anche dell’altra traduzione menzionata da Franco, riporto qui il testo originale di Ronsard (ci sono alcune varianti del testo francese dell’epoca, ma non è qui il luogo per fare il filologo) :

    «Nature ornant Cassandre qui devoit
    De sa douceur forcer les plus rebelles,
    La composa de cent beautez nouvelles
    Que dés mille ans en espargne elle avoit.

    De tous les biens qu’Amour-oiseau couvoit
    Au plus beau Ciel cherement sous ses ailes,
    Elle enrichit les graces immortelles
    De son bel œil, qui les Dieux esmouvoit.

    Du Ciel à peine elle estoit descendue
    Quand je la vey, quand mon ame esperdue
    En devint folle, et d’un si poignant trait

    Amour coula ses beautez en mes veines,
    Qu’autres plaisirs je ne sens que mes peines,
    Ny autre bien qu􀂳adorer son pourtrait.»

    e la traduzione — per l’appunto, “a memoria” — di Keats :

    «Nature withheld Cassandra in the skies,
         For more adornment, a full thousand years;
    She took their cream of Beauty’s fairest dyes,
         And shap’d and tinted her above all Peers:
    Meanwhile Love kept her dearly with his wings,
         And underneath their shadow fill’d her eyes
    With such a richness that the cloudy Kings
         Of high Olympus utter’d slavish sighs.
    When from the Heavens I saw her first descend
         My heart took fire, and only burning pains …
    They were my pleasures ‒ they my Life’s sad end;
         Love pour’d her beauty into my warm veins … »

    E, comunque, ovviamente, grazie ancora a Franco per queste perle.

  2. Non capisco bene la domanda finale:
    «Da un punto di vista traduttologico, se si ritiene la traduzione di poesia volta ad un’ottica di tipo estetico, questo stesso tipo di libertà può prendersela anche il traduttore?»
    chi altri dovrebbe eventualmente prendersela?
    [abbiate pietà, sono un po’ lenta, in questi giorni, magari per altri è cristallino]

  3. penso tradurre “Balboa” (ove vi fosse stato nell’originale) con “Cortés”;
    dipende dalla sicurezza del traduttore e dal risultato complessivo, probabilmente ma tradurre poesia è sempre un rischio altissimo e tanto vale correrlo fino in fondo.

  4. molto chiaro, e forse la sciarpa del milan non sarà più vista come un jingle aggiunto al Flauto magico.

  5. Ah, ho capito:-)

    [scusa @Buffoni, ho qualche neurone disconnesso, ieri sera per mostrare il fondo di un bicchiere a una persona l’ho capovolto senza rendermi conto che era pieno di vino rosso]

    @ lucia

    no, continuo a vederla come un gingle

  6. cari amici, sarà per il vino rosso di Alcor, ma stasera mi sembra proprio di avervi qui tutti a cena da me…

    ps1 Lichtenberg, in uno dei suoi aforismi, questionava: vorrei vedere sottolineati in rosso i versi da Shakespeare scritti con un buon bicchiere di rosso in corpo.

    ps2 stasera fa freschino anche a Roma: per me Cannonau…

  7. grazie anche agli illuminanti articoli di franco buffoni, quelle che prima erano solo sensazioni, vaghe intuizioni che nascevano anche dal fatto che mi e’ capitato di dover apprendre e usare svariate lingue in svariati paesi, si stanno trasformando in solide convinzioni.
    tutte le cose che si dicono sulla traduzione=tradimento, sull’impossibilita della traduzione, sono delle affermazion insensate.
    La traduzione, non solo è possibile ma espande le potenzialità di un opera.
    Voorei citare javier marias che avevo richiamato in una precedente occasione e di cui hoi finalmente ritrovato il testo:
    […] i testi originali sono intoccabili, quasi sacri. Come già aveva notato Borges, uno spagnolo o un ispanoamericano non ammetterebbero, all’inizio del Quijote, parole diverse da queste: , così come un tedesco non accetterebbe altre che per l’inizio de la metamorfosi di Kafka. Qualsiasi variante in spagnolo o in tedesco, anche minima, sarebbe per noi inaccettabile. In questo modo però, la disgrazia per noi spagnoli é chela lingua del Quijote ci sarà sempre più lontana, e ogni volta, per poterlo leggere, avremo bisogno di più note a piè di di pagina…. Invece quei testi potranno essere tradotti più volte, sempre nella lingua del loro tempo, senza smettere di essere se stessi, proprio come una partitura musicale può essere interpretata infinite volte, con un’infinità di sfumature, velocità, strumenti, secondo gli interpreti, senza smettere di essere se stessa. La partitura non cambia, ma suona in modo differente ogni volta che la si interpreta, e in realtà si può dubitare della sua esistenza solo se non viene interpretata, se non ha luogo, se non succede. I testi originali sono un pò come le esecuzioni o gli adattamenti di ciò che senza di esse tace, e con il tempo impallidisce, o si trasforma in geroglifico per i discendenti di chi li scrisse l’irripetibile e intoccabile e inalterabile testo.

  8. Qui da noi ci ha provato Busi con Boccaccio. Ma non credo che l’operazione funzioni, anche se non l’ho letto, e indipendentemente dalla qualità della versione. E ovviamente del singolo e legittimo tentativo, interessante per uno scrittore.

    [Aglianico nel mio caso, prosit!]

  9. [ grazie ancora! ]

    sul famoso incipit

    μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος

    Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta

     

     
    Opere del Cavalier Vincenzo Monti, SULLA PROTASI, pag.8-9, 1821
     
    ,\\’

  10. @orsola
    veramente cio’ che dice javier marias è proprio il contrario.
    il testo di un’opera italiana resta intoccabile in italiano, cosi’ come il don quijote resta intoccabile in spagnolo e la metamorfosi in tedesco.
    Ma il testo del boccaccio deve essere tradotto per esempio in spagnolo, e verrà ritradotto innumerevoli volte.

  11. E comunque, basterebbe tirar via la “o” dalla traduzione citata dal Monti:
    “L’ira, dea, canta, del Pelide Achille”, senti come scorre bene? Accenti principali su prima, quarta, (ottava) e decima. Da manuale.

  12. @Alcor
    Alcor ti chiedo perdono, l’errore è gravissimo se non altro perchè la parola storpiata – accidenti a me – evoca tristi pensieri :-)

  13. A mio avviso, quella “licenza” di mistificazione storica (ma non tanto, sia Cortés che Balboa erano conquistadores, ergo genocidiavano gli indios, per cui cambia il nome ma la sostanza non muta) che si è preso Keats, un traduttore professionista non può prendersela, perché il traduttore (professionista) deve rimanere fedele al testo dal punto di vista semantico, mentre dal punto di vista “estetico”, ossia, nel caso d’una poesia, come ri-creare o dare/non dare l’idea della partcolare tramatura ritmico-timbrica di un testo, beh, quello, proprio perché la traduzione è impossibile (ancorché necessaria: credo sia questa la ragione sottesa al fatto che molti ottimi traduttori hanno preferito volgere una poesia classica in verso libro anziché mettersi a rincorrere le sue trame fonico-timbriche e ritmiche) dipende dall’estro del traduttore stesso, e vediamo che i traduttori, sotto questo aspetto, se ne prendono, di licenze. Si sa che taluni aspetti del significato complessivo di un testo dato variano nella storia, e dipendono dalla congerie culturale o dallo zeitgeist del tempo nel quale il lettore (esegeta o traduttore del testo) vive, ma s-cambiare Cortès con Balboa, quello solo l’autore “può” farlo.

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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