L’Italia che non è in me

 

di Tommaso Pincio

La questione è un terreno minato. Pertanto si preferisce eluderla o ammantarla d’altro. È che ne siamo troppo intrisi. È quello che siamo. A prenderla di petto, ci vedremmo costretti a gettare il bambino prima ancora dell’acqua sporca. Nondimeno, è giusto rammentare la verità vera di quando in quando. Quella sepolta dai tanti strati di verità di comodo. Di cosa sto parlando? Ma della causa primigenia, naturalmente. Di ciò che precede la televisione scosciata e caciarona dei tronisti e delle veline, la tivvù a cui siamo soliti imputare gran parte delle responsabilità dell’attuale degrado. Non che il più vituperato fra gli elettrodomestici sia esente da colpe, intendiamoci, ma se è riuscito a tanto è perché esistevano i presupposti, le condizioni ideali, il terreno giusto per fare di noi un paese civicamente irredimibile.
So bene che calcando la mano su un simile tasto mi accodo alla pletora strabocchevole dei grilli parlanti. Ma posso farmene una ragione, sono in nobile compagnia. Dall’Italia «non donna di province, ma bordello» di dantesca memoria al «tugurio i cui proprietari sono riusciti a comprarsi il televisore», che è come Pasolini vide l’Italia in un’intervista del 1963, l’invettiva contro il proprio paese è un genere di discorso antichissimo e mai caduto in disuso. Probabilmente, il genere italiano per antonomasia. È a tal punto italiano che neppure chi riveste cariche pubbliche sa resistere alla tentazione, fregandosene che il ruolo presupponga altro contegno.

Recente il caso di un ministro messo nell’angolo per via del putiferio scatenato del maldestro tentativo di appellarsi al legittimo impedimento. Qualcuno ricorderà: raggiunto telefonicamente da un’emittente televisiva, il ministro rilasciava la testuale e per nulla edificante dichiarazione: «È una cosa indecente. Non ho mai visto l’Italia, dopo che ha perso i mondiali, che se la prenda con me!» Mettere sullo stesso piano la squallida esternazione di quel ministro e i versi del sommo poeta potrà apparire blasfemo, nondimeno vi prego di seguirvi nel mio ragionamento, prestando attenzione alla lingua.

Preso dalla foga, mosso dall’indignazione, al ministro si è accartocciata la sintassi. Nelle sue accalorate parole, il soggetto della frase ha finito per comprendere ogni cosa. Nella parola Italia si sono trovati a convivere la nazionale di calcio e il popolo dei tifosi. Ma non solo, quel pronunciare «Italia» comprendeva pure il popolo tutto, e la parte di popolo che punta il dito contro un servitore dello Stato che vorrebbe tanto impegnarsi nel proprio dovere. L’Italia era poi anche la gente in senso ideale (ideale per il ministro, ovviamente), la gente che dovrebbe stare al suo posto e badare ai fatti propri o al massimo a quelli del calcio. L’Italia era infine la premessa per cui una tale considerazione degli italiani e della cosa pubblica, benché sconfortante, rientra nella normalità; la normalità italiana. Col suo pasticcio di grammatica l’ex ministro ha involontariamente espresso la ragione per cui ormai non ci indigniamo più, il motivo per cui diamo per scontato il degrado. Ed è la voglia di assoluzione, il motivo.

Quando noialtri sapientoni del ceto pensante ci scagliamo sui guasti prodotti dalle cosiddette armi di distrazione di massa denunciamo certamente uno stato di cose. Facciamo però anche altro. Sebbene non sia questo il fine cui tendiamo e sebbene sentiamo di non averne bisogno, facciamo in sostanza quel che ha cercato di fare il nostro: rivendichiamo il diritto di assolverci. Perché quando diamo del bordello o del tugurio all’Italia di fatto marchiamo un confine tra noi e il paese in cui viviamo. Al di qua ci siamo noi, che non siamo come voialtri. Al di là ci siete voialtri, che (purtroppo per noi) siete come siete. Non che manchi un fondo di verità. Se mancasse, una simile semplificazione non avrebbe potuto affermarsi tanto agevolmente. Il guaio è che nell’affidarci a spiegazioni di questa natura ci scordiamo di soppesare l’importanza dei simboli. Stigmatizzare un andazzo riprovevole, ricorrendo a metafore forti come quella di bordello, in sé non sarebbe un problema, anzi. Devastante è il modo in cui tendiamo a esprimerci, il riferirci al nostro paese in terza persona. È il dire, o meglio il premettere «Italia», il problema. L’Italia è un bordello, l’Italia è un tugurio, l’Italia se la prende con me.

«L’Italia è un’espressione geografica» diceva Metternich. Anche qui sussiste un fondo di verità, ma può andare bene per lo straniero che vede l’Italia come un luogo fisico, colmo di bellezze naturali e siti monumentali, degno di interesse a dispetto dei suoi abitanti. Noi che ci viviamo siamo costretti a una prospettiva diversa. Pur accettando e alimentando l’idea del Belpaese, dobbiamo fare i conti con ciò che che non va. E a forza di fare i conti, ci siamo abituati a pensare l’Italia come un luogo retorico, una metafora per mezzo della quale, a torto o a ragione, dare voce a ciò che, di volta in volta, avvilisce, indispone, indigna. La facilità con cui ci abbandoniamo all’invettiva scaturisce proprio dalla nefasta abitudine di usare l’Italia come un contenitore di immagini di ogni sorta. Ma un vaso che contiene di tutto può diventare tutto fuorché un simbolo. E infatti l’Italia non è simbolo di nulla o quasi. Quando la si nomina è sempre necessario precisare quale Italia: se l’Italia in quanto Stato, se l’Italia in quanto malcostume, se l’Italia in quanto nazionale di calcio e così via. Sottinteso e pleonastico resta però un punto: l’Italia non siamo noi.

Avete presente il modo in cui i protagonisti di Lost parlano dell’isola in cui hanno avuto la sventura di precipitare? Non ne parlano come di un semplice luogo in cui sono finiti, non la vedono come un pezzo di terra conficcato nel nulla dell’oceano. La chiamano l’Isola e si rivolgono a lei in terza persona. L’isola è questo, l’Isola fa quello. E quello che l’Isola è e fa è invariabilmente di natura malevola o comunque ambigua, sfuggente, anche quando sembra fare del bene ai suoi ospiti. L’isola è aliena agli isolani per caso. Ebbene, la maniera in cui noi ci rivolgiamo al nostro paese non è tanto diversa. Similmente ai naufraghi di Lost che si affannano alla ricerca di un sistema per andarsene, la Penisola è un luogo solo in apparenza abitabile e ubertoso, tant’è che abbiamo eletto a dimensione quasi eroica una categoria molto particolare di persone, quella dei navigatori, dei migranti, dei cervelli in fuga, di coloro che cercano il proprio destino altrove. Discorso a parte meriterebbe poi la figura dell’exul immeritus che da Dante a Craxi (mi si perdoni l’ennesimo accostamento urticante) è un altro filo rosso della nostra Storia e incarna il perenne conflitto tra l’ individuo e le istituzioni avverse, ingiuste, inquisitorie.

Esiste una minoranza, peraltro esigua, poco propensa ad accettare di buon grado che nei luoghi in cui si svolgono attività fondamentali per la comunità, quali la trasmissione del sapere o l’amministrazione della giustizia, campeggi inamovibile qualcosa che con uno Stato di diritto ha poco da spartire: il crocefisso. Dubito fortemente però che abbiamo il diritto di dolerci se la nostra identità nazionale è rappresentata da un simbolo religioso. Le nostre sono lacrime di coccodrillo. Il parlare in senso figurato, così connaturato alla nostra lingua, al nostro pensare, ci ha reso certamente arguti e machiavellici. Ci ha però anche predisposti allo scetticismo, privandoci di simboli credibili, di luoghi in cui riconoscersi. Può forse Dante identificarsi in un bordello o Pasolini in un tugurio o un ministro in un paese che se la prende con lui?

Capita che il malessere per lo stato in cui versa la nostra parola emerga in quella frangia del ceto pensante che più è sensibile al problema, gli scrittori. In un molto discusso memorandum di qualche tempo fa, Wu Ming 1 affermava la necessità di rigettare il «perdurante abuso» dell’ironia, tipico di un certo tipo di letteratura. Ancor prima, in occasione del convegno Scrivere sul fronte occidentale, Tiziano Scarpa prendeva le distanze da atteggiamenti ironici e autoironici. In entrambi i casi (e non sono gli unici), il ripudio dell’ironia scaturiva da una contingenza precisa, l’esautoramento della cosiddetta metafiction di stampo postmodernista. In senso più ampio, ed è questo l’aspetto più interessante, ripudiando l’ironia si reclamava un parlare più vivo e partecipe, meno anaffettivo. Empatico, per dirla con una parola che, malgrado mi risulti indigesta, rende bene l’idea. L’esigenza era e resta motivata. Ma il bersaglio non è del tutto centrato. Contingenze a parte, l’ironia non è mai stata un piatto forte della nostra cultura. Dal Pasticciaccio di Gadda a Niccolò Ammaniti, che comunque lo si voglia considerare è tra gli autori più rappresentativi di questo tempo, il vero tratto dominante è il grottesco, al massimo velato di sarcasmo. Una nota di colore che ritroviamo a profusione pure nel cinema, in quel genere specificamente nostrano, nonché l’unico vero sopravvissuto alla moria del grande schermo, noto come commedia all’italiana. L’ironia è cosa diversa. Scarseggia ed è poco tollerata.

Dietro la grande diffusione del grottesco, che è poi l’altra faccia dell’invettiva contro l’Italia, è per l’appunto acquattato il male che ci ammorba, la morale cattolica. E qui poco c’entrano Chiesa e fede religiosa, giacché, ripeto, è solo all’etica che mi riferisco, alla morale che ha intriso tanto credenti che laici e di cui entrambi hanno imparato a servirsi per uso personale, in spregio all’interesse comune. E in soldoni, la morale è questa: il libero arbitrio assoluto non esiste. Ci è concesso soltanto un arbitrio di tipo condizionato perché per natura (oserei dire, per costituzione) siamo peccatori. Il riscatto passa perlopiù per la strada dell’Ego me absolvo: ammetto alcune colpe (quelle che io considero tali), ma ammettendole le faccio anche mie, ovvero le spiego e le giustifico, elevandole di fatto al di sopra del comune peccare, al peccare dell’Italia che non sono io e che nonostante le mie colpe seguito a biasimare.

Ma se davvero sono un peccatore, quanto può valere la mia condanna del male? E quanto il mio pentimento? In pochissimi paiono porsi il problema, ma la nostra stupefacente abilità nell’inventare figure retoriche deriva proprio dal fatto che siamo noi stessi i primi a dubitare della nostra parola. È questo scetticismo che ci rende allergici all’ironia e al contempo malati di grottesco. Finché seguiteremo a parlare della Penisola come i naufraghi di Lost, il destino è segnato. Ed è un destino poco rassicurante: ha il volto rabbioso di un novello crociato che urla all’Italia, raccolta nel proprio tugurio davanti al televisore. «Possono morire, possono morire, possono morire, il crocifisso resterà nelle aule delle nostre scuole» strepita il crociato dimenticandosi dei tribunali, anch’essi addobbati col crocefisso. O forse no. Magari lui e i suoi amici hanno in programma di chiuderli. In fondo, in un paese di peccatori disposti ad assolversi sono uno spreco di denaro pubblico. E lo dico senza ironia.

pubblicato su “Il Manifesto”, 1 settembre 2010.

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16 Commenti

  1. i paesi a sovranità limitata producono cives e anthropoi a dignità limitata. i popoli che nel corso della loro storia riununciano perennemente ad autodeterminarsi producono individui buoni solo da dare in ostaggio. ma non m’interessa parlare di questo. m’interessa invece dire che non c’è da meravigliarsi se scarpa e wu ming se la prendono con l’atteggiamento ironico e la produzione del grottesco. scarpa e wu ming sono perfettamente integrati, sono parte del sistema produttivo, del compromesso italia. sanno perfettamente che il grottesco li riguarda, che loro stessi sarebbero bersagli perfetti di un sarcasmo autentico.

  2. Anch’io comincio a stufarmi dell’ironia, anche se in Italia ne abbiamo un esempio sommo, che è Savinio: è un tutto-ironico, e l’ironia raggiunge in lui stadi ultravioletti, o come si diceva una volta, stranianti. Sul grottesco non sarei così categorico, anche se condivido in gran parte le considerazioni dell’autore. Rimango sempre un fan dello Humor, ma quello freddo, politico, oggettuale e divertente ma non di-vertente; purtroppo bisogna andare fuori d’Italia, bisogna rivolgersi a Kafka.

  3. Fabrizio
    Di Kafka purtroppo ce n’è uno. La sua ironia raggelante riuscirebbe a piallare persino le italiche sporcizie – e senza neppure parlarne direttamente. Però il grottesco è più alla portata, e come tu giustamente affermi può avere la sua efficacia, il suo urto estetico. Penso a Twain, Irving o Foster Wallace (che pure attaccò un certo tipo d’ironia eternamente dissacrante e cinica).
    ps: per me Ammaniti non è davvero grottesco, non merita l’appellativo.

  4. il tuo articolo m iricorda i tempi in cui usavo viaggiare spesso in treno, i tempi in cui governava la democrazia cristiana.
    A quei tempi era frequente che tra i viaggiatori si stabilisse una sortà di complictà nell’elencare tutti i difetti, le ingiustizie e gli abusi dell’Italia. Tutti si lamentavano di “questo paese corrotto e di ladri e della corruzione e del malfunzionamento bla bla”. Quando scendevi dal treno ti chiedevi: ma allora chi vota DC?

    noi siamo un paese profondamente cattolico, dico noi tutti, anche gl iatei e non praticanti e i bestemmiatori, e abbiamo bisogno di autoassolverci per poter continuare a peccare.

    Questa rappresentazione retorica dell’ITALIA, in fondo serve a riaffermare due intime convinzioni di cui gl iitaliani sono estremi difensori:
    1) i mali vengono dagli altri non da me; sono gli altri i colpevoli
    2) sono tutti uguali. Se l’Italia è così perchè i odovrei essere diverso ?
    se gli altri non hanno senso del bene comune e pesnono solo ai loro interessi perche’ io non dovrei fare altrettanto. tanto sono tutti uguali sono tutti ladri

    la differenza tra il tempo della DC e il tempo attuale dell’innominato è che prima gli italiani queste cose le pensavano le praticavano e si vergognavano di renderle pubbliche.

    ora invece il nostro monarca ha dato cittadinanza e legittimità al basso ventre.
    Ora regna incontrastata l’arroganza dei sudditi

    finisco: rai tre presa diretta paese del milanese, l’inviato intervista un signore di 55 anni
    – lei è calabrese?
    – si e me en vanto
    – Da dove viene ?
    – da (non mi ricordo) il paese piu’ bell odel mondo
    – ma conosce il signore che è stato accusato di escursione e di appartenere alla ndrangheta ?
    Si, per me è una bravissima persona, quello che fa agli altri non m iinteressa

    ai tempi della DC, le persone intervistate si chiudevano in un silenzio, triste, omertoso rassegnato, ma avevano la dignità di non mostrare per l’appunto l’arroganza dei sudditi, che in cambi odella fedeltà si sentono liberi di compiere qualsiasi nefandezza e di tollerare che vengano commesse.

  5. Carmelo, grazie per il tuo commento: hai espresso con più chiarezza di me quanto ho cercato di raccontare nell’articolo.

    Quanto all’innominato: “Sono stato cattivo? Vorrà dire che mi confesserò” parole sue pronunciate lo scorso febbraio nel corso della campagna elettorale per le consultazioni regionali del Lazio.

    I riferimenti più specificamente letterari possono essere discussi, ci mancherebbe. Perché è verissimo, Savino era un maestro d’ironia. Ma è anche vero che nacque in Grecia, si formò a Monaco e maturò a Parigi. In Italia visse una buona parte della sua esistenza e finì per morirvi, ma non certo all’apice di chissà quale fama. Nonostante i lodevoli tentativi di riesumarlo seguita a essere autore poco o pochissimo letto. Lo stesso fratello, non meno incline all’ironia e pur di gran lunga più noto e celebrato, è in fondo rimasto un oggetto estraneo se non scomodo.

    A ogni modo, non era tanto il singolo caso, l’eccezione, che mi premeva evidenziare, quanto un carattere nazionale nel quale mi pare prevalente la tendenza a ridere delle cose deformandole, esagerandole, portandole al parossismo ovvero rappresentandole in termini caricaturali.

  6. Questo e’ un tema molto affascinante. Che ha a che fare con lo status di comunita’ dell’Italia (che comunita’ e’? che tipo di nazione e’?), che ovviamente viene definito in confronto delle altre comunita’ nazionali europee (gli “inglesi”, i “francesi”, i “tedeschi”, come nelle barzallette).
    Che la storia dell’Italia come nazione e’ recente. Che gli italiani non hanno avuto eserciti che si sono massacrati per centinaia di secoli e’ noto (i nostri “vicini” francesi, inglesi e tedeschi) hanno una lunga storia, interrotta nel 1945, di organizzazione di elite dirigenti (ufficiali) e plebaglia (truppa) da mandare al massacro sotto l’idea della nazione); e questo c’entra, perche’ per comandare uomini al massacro e per andarci bisogna essere tremendamente seri, non c’e’ spazio per l’ironia, bisogna uccidere e punire.
    Vabbeh scusate la divagazione, ho idee sul tema ma molto confuse…
    Aggiungo.
    Il tentativo di resuscitare (da dove poi?) un senso di orgoglio nazionale di Ciampi quando fu presidente e’ stato in questo senso abbastanza puerile.
    E, e’ noto, che l’unico senso nazionale che esista in Italia e’ appunto quello della nazionale di calcio.

  7. la visione d’insieme a distanza ravvicinata è essenzialmente questa, da un punto di vista limitatamente e romanticamente umano è incontrovertibile; da un punto di vista superiore, più pulito, straniero o storico vuoi che sia, forse è leggermente diverso: la potenza socioeconomicopolitica di una realtà come la chiesa è destabilizzante anche per economie diverse e più importanti della nostra, il fatto di essere usciti monchi e zoppi da duecento e rotti anni di conflitti, basti pensare all’ultimo che ci ha lasciato come ultima beffarda scia una costellazione di valigette di dollari a corrompere l’ambiente politico dati da agenti CIA epigoni del piano marshall (eh, il grande sogno americano) che hanno dato forza alla DC per implementare una solida e imperitura politica basata sulla corruzione (per trovare il passo che porta ai giorni nostri si deve citare de lampedusa:se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.), ci hanno davvero eticamente e culturalmente penalizzato, per non parlare di opposizioni che si son sempre e solo vendute ai giochi finanziari internazionali (tra l’altro visto che qua si bazzica, la butto li: cos’è la sinistra se non una destra vestita in modo galante?) e quindi? questi effetti a cui ormai il popolo è assuefatto non rispondono alle cause? sarà ora di seminare nuove cause?

  8. ciao a tutti,

    ieri notte stavo giusto leggendo “l’arcobaleno della gravità”, e perdendo il respiro per la bellezza dell’intero capitolo, mi sono imbattuto in un trafiletto che riguardava proprio gli italiani, il carattere nazionale e l’ironia.

    ecco cosa dice il buon vecchio caro thomas pynchon a p. 177:

    “I prigionieri di guerra italiani avanzano imprecando sotto il carico di sacchi postali rigonfi […]. Questi Terroni ogni tanto si mettono a cantare, non cantano certamente Giovinezza ma piuttosto qualche aria del Rigoletto o della Bohème […]. La loro allegria, la loro voglia di cantare non è del tutto sincera – mentre i giorni si susseguono, mentre questa orgia di auguri di Natale cresce ogni giorno a dismisura, sempre più malsana, senza nessun miglioramento in vista di Santo Stefano, costoro per il momento hanno deciso di comportarsi da italiani in modo più professionale, facendo l’occhiolino alle sfollate, trovando il sistema di tenere il sacco della posta in equilibrio con una mano, mentre con l’altra fanno la mano morta – cioè parzialmente viva – là dove la presenza femminile è più intensa, più erratica… insomma, più promettente. La Vita deve pur andare avanti, no? i prigionieri di entrambi le parti sono pronti a riconoscerlo, ma per gli inglesi appena tornati dal CBI non esiste mano morta, non esiste il passaggio improvviso dalla morte alla vita grazie al contatto fortuito con una natica o una coscia – buon Dio, con la vita e con la morte non si scherza!”

  9. Siamo tutti abitati da nostro paese. L’ombra del nostro paese ammanta il volto, il corpo, la lingua. A ogni momento possiamo leggere i segni del nostro paese con occhio critico, conosciamo la lingua del nostro paese, i codici del territorio.
    Nel corpo del nostro paese, sentiamo un peso e i defetti, le le mancanze, il tissuto degli strappi . Portiamo la storia del nostro paese e non riusciamo a disfarci del dolore.
    All’estero portiamo il dolore del nostro paese nella forma del rimpianto. Il rimpianto dell’amore irragiungibile.
    L’Italia la sento da fuori, pelle amante, corpo sconociuto. Saro sempre sull’orlo della sponda. E’ la ragione per laquale l’Italia è l’ilustrazzione di un miraggio, l’avventura fittizia, un desiderio e un un enigma che non risolvero mai. Mai. Strazia tra un sentimento di felicità e di crudeltà.
    Non ho la chiave per capire l’enigma di Napoli ed i tutto un paese, ma il solo paese a rispondere al mio imaginario, a rispondere al più oscuro in me.
    Mi colpisce il senso della bellezza, quasi viva e lo stato di follia, di crimine segnando il corpo del paese. L’ago oscilla tra l’esperenza e la disperazione, la bellezza e l’orrore. Un ‘impressione barroca, forse grostesca. Mi colpisce che in un paese democratico, i coraggiosi siano sotto scorta, che uno scittore sia minacciato di morte. L’Italia dà un idea del paradiso e del inferno.
    Posso parlare in libertà, perché non porto in me il peso della storia italiana, ma il peso della storia francese.

  10. @véronique vergé
    molto belle le tue considerazioni. Siamo “abitati” dal nostro paese, ma dobbiamo imparare e distanciarci da esso, a cercare un altrove, come dice Rizzante, ed esliarci dallo stato e dalla nazione, perchè solo ai margini, solo abitando la soglia, il confine, la terra di nessuno, possiamo ricostruire un rapporto nuovo con il nostro paese, recuperare la capacita di sentire e di vedere, trovare la chiave per risolvere l’enigma, l’enigma di un lento inesorabile e triste declino culturale e degrado civile. Dobbiamo mettere in gioco le nostre certezze, la nostra retorica, le nostre convinzioni, i nostri comportamenti, dobbiamo buttare via la mappa e la bussola e perderci sperando di trovare il senso di cio’ che siamo.
    Come fanno ogni giorno tanti uomini e donne costretti loro malgrado a fare gli eroi, in silenzio, senza clamore, senza retorica, rischiando ogni giorno la loro vita.
    Chi di noi conosceva Angelo Vassallo?

  11. @Pincio
    Ammettiamo che la morale cattolica, o meglio la sua caricatura democristiana (siamo tutti peccatori o, il che è lo stesso, la santità non esiste, quindi mi assolvo col mea culpa e faccio come prima, ma rimango estraneo al malcostume altrui, che è a-problematico e beota) sia l’origine di tutta questa monnezza sociale.
    Non le pare che la sua declinazione de sinistra (siamo nel regno della merce, la rivoluzione è impossibile, quindi si vive come gli altri ma si è meglio degli altri perchè si è consapevoli, gli altri invece nella merce ci sguazzano) sia l’esatta fotocopia?
    E comunque le conclusioni mi sembrano carenti: è vero che la descrizione del fenomeno esige una sorta di presa di distanza, di esilio momentaneo che sarebbe meglio chiamare epochè, ma questo è un atto preliminare al giudizio, cioè non esaurisce un processo di conoscenza autentica. Per arrivare a questo occorre distinguere ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è buono e ciò che è cattivo, anche senza prova matematica, rischiando l’errore. Da cui consegue un’incarnazione anche politica e non solo morale, un’accettazione della comunità e della storia per cui si rischia di continuarla la storia sporcandosi le mani, anzichè mantenersi in quel limbo gnostico che consente di disprezzare tutto senza impegnarsi in nulla.
    Io credo seriamente che questa forma di gnosi sia la principale responsabile dell’impotenza del ceto intellettuale di origine illuministica, il cui carattere originariamente progressivo si è rovesciato in un’attesa dell’apocalisse che è sempre più accademica. Nel frattempo le risorse storiche e l’agire reale sono monopolizzate da chi con il reale traffica spudoratamente. Un esempio: rispetto a un leghista che straparla di padania posso dire che la padania non esiste perchè io sono ITALIANO, non perchè mi proclamo cittadino del mondo (che non è un’entità politica ma questa sì un’espressione geografica e la cifra di un’utopia).
    Perchè vede, qui il problema non è solo che gli intellettuali non riescono più a riconoscersi nella loro comunità di appartenenza, ma che la comunità di appartenenza ha perso ogni rispetto per loro, dal momento che parlano una lingua che non è quella delle cose, cioè dei corpi e dei bisogni, ma nemmeno dei progetti per domani mattina (l’Apocalisse non è una data!)
    Così, in mancanza d’altro, vanno su RaiUno a farsi spiegare la storia e la politica da Scodinzolini.

  12. Carmelo – il tuo commento è bello nella capacità di tradurre il paese, di leggere, lottare, vedere dal punto fuori, di afferrare la significazione perduta.

  13. L’idea di grottesco che emerge mi sembra un po’ confusa e distorta e mi permetto di segnalarlo perché è materia di cui mi sono occupato… se veramente in questo paese dominasse il registro grottesco, non saremmo messi così male… in Italia il grottesco non è più possibile ( se non a livello liminale) da almeno 20 anni, semplicemente perché si fa tutto fuor di maschera, e qui mi pare stia l’errore di fondo dell’articolo, visto che la commedia all’italiana non la si fa più dagli anni ’70, almeno che non si consideri tale le varie derive prese dai comici nostrani dagli anni ’80 in poi, ma allora torniamo a bomba, a una diversa idea di grottesco, che non ha alcuna valenza politica…

  14. Apprendo ciò che so da sempre, cioè che alcuni intellettuali e artisti sono contrari alla comicità, soprattutto quella praticata ed espressa nelle sue forme più libere. E’ da non credere, ma ci sta. Primariamente perché far ridere è un’arte difficile, che si pratica con il corpo, che è il vero bersaglio della polemica contro il comico. Farebbero meglio, gli intellettuali, a prendersela con l’umorismo mediano, militarizzato, embedded, mentale, quello di striscia la notizia, per esempio, ma in genere tutto l’umorismo televisivo, compreso quello definito satira politica, scaduto a livelli impensabili per un paese nel quale già negli anni ’60 si potevano gustare esperimenti di enorme qualità artistica, da Tognazzi-Vianello, a Panelli ai Gufi. E farebbero meglio, gli intellettuali e gli scrittori, a cercare di capire perché in questo paese è vacante il ruolo di tragicomico, l’unica espressione del comico veramente decisiva. L’ultimo è stato Massimo Troisi, che secondo me, come narratore e critico della attuale degenerazione dei costumi, manca quanto e più di Pasolini.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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