Un uomo in rosso

di Linnio Accorroni

Un uomo in rosso (il critico Andrea Cortellessa) cammina perplesso e meditabondo dalle parti del gasometro a Roma; fuoricampo la sua voce scandisce il più paradossale e geniale dei risvolti di copertina mai scritti: «L’autore, stanco di sentirsi attribuire dai critici (o almeno dai più grossolani tra essi, e in ogni caso da chi poco lo conosce) la paternità o l’ispirazione degli scritti per consuetudine stampati in questa sede (i quali anzi lo trovano bene spesso dissenziente), ha pregato l’editore di sostituirli d’ora in avanti colla seguente dicitura: RISVOLTO BIANCO PER DESIDERIO DELL’AUTORE» (Tommaso Landolfi, Se non la realtà). Da qui comincia il viaggio, scandito in 5 tappe, di questo pseudo Candide dei nostri tempi che s’aggirerà, attingendo a dosi sempre crescenti di cupezza e disincanto, fra le plaghe quasi sempre sconfortanti e disamene dell’editoria italiana, incontrando vis à vis protagonisti e comprimari, dei e demoni, giganti, nani e ballerine del circuito librario. Un docufilm che si lascia apprezzare per il giusto equilibrio fra un montaggio ben organizzato e raffinato e per la qualità delle riflessioni ed interrogazioni di un Cortellessa, qui nelle fiammeggianti vesti inedite di viaggiatore non incantato, ma malinconico.

Da che cosa nasce l’idea del film? In esso, quanto appartiene a Cortellessa e quanto, invece, appartiene ad Archibugi?

Veramente va dato atto che la prima idea è stata del committente, ossia il Presidente di RaiCinema che è anche uno scrittore, Franco Scaglia. (Il che, non avendo lui battuto ciglio sul titolo, può già rispondere a quelle persone non sempre in buona fede che hanno voluto vedere in Senza scrittori un improbabile atto d’accusa nei confronti degli scrittori, appunto.) Io poi ho steso un canovaccio che per la verità in origine prevedeva anche altri episodi e interviste, che non è stato possibile realizzare; mentre di Luca Archibugi sono tutte le idee visive (tranne quella di vestirmi sempre di rosso, ad eccezione che nell’ultimo episodio; quella è stata un’idea mia). Poi c’è una componente di improvvisazione, mia e dei vari interlocutori, che credo sia fra le note più divertenti del film.

A distanza di un anno dal film, non ha la sensazione che le cose, se possibile, siano ulteriormente peggiorate?

L’esperienza che ho fatto è che questo tipo di “scrittura” “invecchia” più rapidamente di altre. Non solo il premio Strega che documentiamo appartiene già a un passato che ci pare remoto, ma per esempio uno degli interlocutori che personalmente ho trovato più interessante, Alberto Magnani di Demoskopea, nel frattempo è uscito dal mercato delle classifiche dei libri più venduti (ora dominato dagli allora concorrenti di Nielsen). Comunque sì, certo, il meccanismo della produzione in batteria degli esordienti di bell’aspetto – ai quali si pretende anche di appaltare in esclusiva lo Strega, dopo il successo di Giordano – rappresenta un upgrade eloquente della situazione descritta in Senza scrittori. Un esempio degno di riflessione: l’intervista ad Antonio Franchini, durata complessivamente circa due ore, ovviamente nel film è stata montata solo in minima parte; in una risposta che non vi figura, appunto, lui spiega che il meccanismo delle produzione seriale di autori non appartiene alle majors come Mondadori; sono i mediopiccoli, semmai, argomenta anche condivisibilmente Franchini, ad essere coatti all’imitazione dei successi dell’annata precedente; le majors, e in particolare Mondadori che è la più major di tutte, lavorano semmai a imporre il modello dell’annata successiva. Solo che poi, quando ancora stavamo montando il film, nella SIS da Franchini diretta è stato impunemente pubblicato un tale D’Avenia che unanimemente è stato considerato un clone di Giordano…

C’è chi ha scritto (mi sembra Gabriele Pedullà nel Domenicale del «Sole 24 ore») che lei in questo Senza scrittori ricorda, sia pur nella evidente differenziazione dei contesti e delle motivazioni creative e cinematografiche, una sorta di avatar di Michael Moore. A me, sinceramente, mi è parsa che nella sua “interpretazione” – se mi si passa il termine – ci sia una specie di omaggio, non so quanto consapevole, a tre grandi archetipi letterari: Candide, Lazzarillo da Tormes, Lucignolo. Quale delle due “letture” le sembra più convincente o le paiono entrambi peregrine (Cortellessa è Cortellessa è Cortellessa)?

Cortellessa è solo se stesso, purtroppo. Non c’è dubbio però che il modello di Michael Moore (il quale a sua volta si rifà a un po’ tutti gli archetipi da lei citati, certo) fosse stato inizialmente evocato da Scaglia. Ma lo stile registico di Archibugi è ai suoi antipodi, direi.

Lei sa se la Mazzantini, che per l’intera durata del film assomiglia ad una specie di bersaglio fisso su cui si affollano strali velenosi e pungenti, ha visto il docu-film? Reazioni?

No, non credo che Margaret Mazzantini abbia visto il film. Ma non vuole essere, né è, un «bersaglio fisso». Una delle logiche del film è che, non potendo essere un trattato esaustivo di sociologia della letteratura né un saggio di critica letteraria, come tutti gli apologhi funziona (se funziona) per esempi e per simboli. E quello incarnato da Mazzantini è appunto il simbolo di una produzione d’intrattenimento che negli ultimi anni si è impalcata a modello di letterarietà (un termine, questo, che nelle polemiche telematiche mi è stato rimproverato – ma che nel film viene impiegato soprattutto da Franchini: appunto per caratterizzare, ai miei occhi in modo del tutto inverosimile, la scrittura di Mazzantini), con esiti implacabilmente kitsch. Come tutti i documentari di questo genere, Senza scrittori procede anche per incontri casuali, non (solo) per teoremi interpretativi più o meno condivisibili; e davvero durante il festival di Mantova ci siamo imbattuti in questa incredibile lettura pubblica di Mazzantini invitata dai volontari del festival; e davvero, quella sera, sono stato preda di una crisi di sconforto. Di recente, nel bellissimo volume di scritti dispersi di Gilles Deleuze Due regimi di folli, ho trovato queste frasi – dall’intervento a una tavola rotonda dei «Cahiers du cinéma», nell’86 – che mi pare si attaglino perfettamente alla situazione in cui ci troviamo (miei i corsivi): «Oggi ci sono molte forze che si propongono di negare ogni distinzione tra il commerciale e il creativo. Più si nega questa distinzione e più si pensa di essere divertenti, comprensivi ed esperti. Di fatto si traduce soltanto un’esigenza del capitalismo, la rotazione rapida […]. Al contrario, l’arte produce necessariamente qualcosa di inatteso, di non riconosciuto, di non riconoscibile. Non esiste arte commerciale, è un non-senso. Ci sono arti popolari, certamente. Ci sono anche arti che necessitano di maggiori o minori investimenti finanziari, c’è un commercio delle arti, ma non arti commerciali […]. Si possono mettere in concorrenza i libri d’evasione con un grande romanzo, ma saranno inevitabilmente i libri d’evasione o i bestseller a vincere in un mercato unico a rotazione rapida o, peggio ancora, saranno loro che pretenderanno di avere le qualità dell’altro e lo prenderanno in ostaggio». Ecco: siamo da tempo nella fase in cui la letteratura con le sue istituzioni, belle e meno belle, è «presa in ostaggio» da macchine come Margaret Mazzantini. Per fare un esempio concreto di funzionamento della «macchina» in questione, ricorderò che una volta suo marito Sergio Castellitto, chiamato a presentare il concerto del Primo Maggio, non trovò di meglio che declamare in toni alati stralci da un libro della moglie. Perfetto esempio, questo, di usurpazione di un luogo «popolare» da parte di un meccanismo squisitamente «commerciale».

Non ha la sensazione che in questo Senza scrittori, peraltro assai riuscito anche dal punto di vista del montaggio e della “specificità filmica” (?), vi sia una manifesta separazione manicheistica fra le tesi dei “buoni” (Belpoliti, Gelli, i gestori della libreria Tombolini, Montroni, i curatori di Topolò…) e quelle dei “cattivi” (Scurati, Scarpa, Franchini, Mauri, il signor Demoskopea…).

Francamente no. Ci sono aspetti assurdi nella conservazione del ruolo da parte degli adorabili gestori della libreria Tombolini, come quando confessano che per soddisfare i loro prestigiosi e affezionatissimi clienti alle volte si vedono costretti a cercare certi libracci al megastore più vicino. Mentre molte delle cose che dicono quelli che lei recepisce come “cattivi” io le trovo pienamente condivisibili, come quello che dice Stefano Mauri sul compito dell’editore di garantire la libertà di espressione degli autori. L’incontro col «signor Demoskopea», persona molto intelligente oltre che com’è ovvio preparata, è stato per me straordinariamente istruttivo, e così quello con Franchini: di quello che dice lui non condivido praticamente nulla, è vero, ma non c’è dubbio che si esprima con acuta intelligenza ed estrema, come dire?, attenzione. Devo anzi dire che personalmente preferisco di gran lunga una posizione “cattiva”, per usare la sua categoria, quando argomentata con chiarezza, a certe posizioni magari in apparenza più “buone” ma che a ben vedere risultano un po’ (o molto) ipocrite. E dunque, pour cause, poco chiare.

Per usare una terminologia alla Antonio Franchini, si può senz’altro dire che lei si diverte, a dispetto della sua aria sorniona ed indifesa, ad assegnare dei sonori, terribili ganci (ma non si risparmia anche uppercut, jab, montanti…) ad una parte vasta e colpevole del mondo dell’editoria italiana. Il “suo” divertimento è davvero reale o un’esigenza di copione?

Non mi diverto affatto, in realtà. Il mio stato d’animo prevalente è acutamente malinconico. Luca Archibugi lo ha ben interpretato, mi pare, nella “cornice” del film.

Eppure c’è qualcosa che sfugge, alla fine: a dispetto della quantità di addetti ai lavori da lei intervistati, la letteratura appare un universo opaco ed impenetrabile, qualcosa da cui siamo irreparabilmente separati. Lo spettatore alla fine si ritrova estraniato e perplesso, un po’ come lei quando, al festival di Mantova, è diviso da un ultrametaforico, provvidenziale telo bianco che la divide dai fasti celebrati in onore della Mazzantini, incoronata dalla tribù degli adepti alla religione delle Lettere a loro Musa e Regina. Se quelli che amano davvero e sinceramente la letteratura, prescelgono divinità siffatte, se nelle librerie (lei che s’aggira esterrefatto alla Fnac) non ci sono più libri, che cosa resta da fare a chi ancora, a dispetto di tutto, “crede” in essa?

La malinconia di Mantova deriva dal fatto che sono i giovani volontari del festival, quelli che hanno preferito Mazzantini ai premi Nobel, i “nuovi credenti” della letteratura. Il futuro del libro appartiene a loro. E dunque fa tanto più tristezza che siano stati educati a riconoscere la letteratura in libri come quelli di Mazzantini. C’è una precisa responsabilità, in questo, non solo del mondo dell’editoria e dell’informazione (e dunque anche nostra) ma anche della scuola e dell’Università, che per lungo tempo hanno evitato – per disinformazione parruccona – la letteratura contemporanea per poi correre frettolosamente ai ripari, senza trovare niente di meglio che organizzare demagogici convegni sul noir all’italiana e il cinema poliziottesco. Ma questo non vuol dire che non si sia più nulla da fare. Se di un prodotto produttivamente microscopico come Senza scrittori si è parlato tanto prima ancora che circolasse, evidentemente i temi che propone sono assai avvertiti, e in molti avvertiamo la necessità di porre un freno al degrado, reagire in qualche modo. Una cosa molto giusta ha scritto Paolo Di Stefano nella sua rubrica sul «Corriere della Sera», e cioè che non si capisce tutto questo scandalo sollevato da un film che semmai dice cose stranote dagli addetti ai lavori. Ecco, il punto è che in questo campo (come in tanti altri) occorre uno sforzo di immaginazione per far arrivare queste «cose stranote» a un pubblico più ampio, che sono poi le migliaia di lettori “forti” che fanno il vero mercato, quello dei longseller, e che oltretutto fanno opinione (perché per esempio si trovano ad insegnare a scuola, appunto), ma che mai come in questo momento sono “deboli” cioè disorientati. Ci sono temi-chiave, come quello della legge sullo sconto in libreria del quale si parla in Senza scrittori con Stefano Salis del «Sole 24 ore», che a lungo sono stati considerati tabù dall’informazione in quanto eccessivamente “tecnici”. Ma l’informazione ha appunto il ruolo di spiegare cose complesse in modi comprensibili e, se possibile, non noiosi. Così che, come è successo nei mesi successivi al completamento del film – ecco un “peggioramento” tangibile della situazione! – un obbrobrio come la legge Levi non passi inosservato dalla pubblica opinione. Più in generale, quello che resta da fare spetta ai lettori, cioè a tutti noi. Una battuta demagogica spesso ripetuta è quella secondo la quale gli scrittori non scrivono per i critici, ma per i lettori. Ma quello che va incoraggiato è il “lettore critico”: occorre che tutti noi, in quanto lettori appunto, ci rimpossessiamo dello “spirito critico” e che così ci mettiamo in grado di demistificare gli inganni di un sistema pubblicitario che al contrario ci vorrebbe tutti appiattire su medie precostituite. In tanti altri ambiti del consumo, penso per esempio all’alimentazione, questo passo avanti è stato fatto da tantissime persone. Serve uno sforzo organizzativo, su base ahimè volontaria (visto che la sede pubblica preposta a questi compiti, il Centro del libro del Ministero dei beni culturali, è stato affidato a Gian Arturo Ferrari, ex patron della Mondadori: che è come mettere lo Slow Food in mano all’ad di McDonald’s…), per compattare le tante energie positive di questo mondo. Confederare gli editori indipendenti, censire e coordinare le librerie di qualità, esplorare forme di acquisto solidale del libro. L’esperimento delle Classifiche di qualità di Pordenonelegge, che con Alberto Casadei e Guido Mazzoni abbiamo lanciato ormai un anno e mezzo fa, ha incontrato per esempio il gradimento delle librerie Coop e del sito Internet Slow Book Farm: è un risultato concreto, che interviene effettivamente sul mercato – sia pure per il momento in misura minima – e che nessuno di noi aveva messo affatto in preventivo. C’è ancora spazio per reagire, molto più di quanto non si creda, ma tocca rimboccarsi le maniche – e farlo subito.

O davvero l’ultima uscita possibile, l’ultima Thule che ci rimane è quella specie di Shangri La in miniatura che è il festival Stazione di Topolò? Non le pare un po’ poco?

Credo di aver già risposto, su quanto sia urgente fare sul piano pratico. Anche Topolò, come i libri della Mazzantini, è ovviamente un simbolo. O forse piuttosto, come dicono i maestri, una “funzione”. Penso cioè che un bagno minimamente lustrale, nello spirito di Topolò appunto, non farebbe male a nessuno di noi. Intendo dire: ripartire dalla specificità dei testi, dagli autori, da una loro interazione “reale”, non narcisistica, con i lettori. Da quella che dovrebbe essere cioè la “materia prima” dell’industria culturale, ma della quale l’industria sembra sempre più voler prescindere (di qui il titolo Senza scrittori, appunto, che – oltre all’Arbasino di Un paese senza da una cui citazione prendiamo le mosse – deve soprattutto a Editoria senza editori di André Schiffrin, il libro che su questa questione mi ha aperto gli occhi). Ci ha fatto notare un filosofo amico di Archibugi come la storia raccontata dal nostro film in fondo non faccia che illustrare un’inversione di funzioni che pertiene all’intero universo della “tecnica” e alla quale abbiamo assistito, negli ultimi decenni, colpevolmente senza reagire: l’editoria, e in generale la “filiera del libro”, dovrebbe essere in teoria un mezzo funzionale alla migliore circolazione della letteratura; ma da qualche tempo a questa parte anziché un mezzo è essa stessa chiaramente il fine, e i testi che vengono prodotti il suo mezzo. Come tale secondario e perfettamente fungibile. Il mondo della poesia – beninteso tutt’altro che un paradiso, per chi lo conosce – è un mondo che almeno in questo senso può essere preso a modello: proprio perché non funzionale, e anzi anti-funzionale, rispetto alle logiche di mercato. Di recente mi ha colpito molto l’appello dei cosiddetti “autori Einaudi” contro la legge sulle intercettazioni minacciata dal governo Berlusconi; al di là del merito di quella battaglia, mi colpiva constatare come fra gli “autori” firmatari non fosse contemplato neppure un poeta: e sì che proprio Einaudi pubblica una delle collane di poesia più amate e prestigiose! Si conosce l’etimo del termine “autore”, dal latino augeo: autore è “colui che aumenta”, che arricchisce cioè il nostro patrimonio spirituale. Ecco, un segno dei tempi piuttosto eloquente, ai miei occhi, è che oggi “autore” venga considerato sempre chi “aumenta”, sì, ma solo il fatturato del suo editore. Continuiamo così, facciamoci del male.

Una versione più breve di questa intervista è stata pubblicata sul numero di settembre del mensile «Stilos».

Dopo l’anteprima nazionale di Senza scrittori allo storico cinema d’essai di Roma Azzurro Scipioni il 28 giugno, e la sua partecipazione al Molisefilmfestival di Casacalenda (CB) l’8 agosto, sono previste ulteriori proiezioni pubbliche con l’intervento di Andrea Cortellessa: giovedì 16 settembre alle 18 al Milano Film Festival nello spazio Frigoriferi milanesi di Via Piranesi 10 (con la partecipazione di Marco Belpoliti); venerdì 17 alle 21 al Centro Marino Marini di Pistoia (Palazzo del Tau, Corso Silvano Fedi 30) con l’organizzazione dell’Associazione Palomar (partecipa Francesca Matteoni); sabato 18 alle 20.30 a Pordenone durante Pordenonelegge (Palazzo Montereale Mantica, con interventi di Luca Archibugi, Francesco Cataluccio e Stefano Salis); lunedì 27 alle 21 a Torino, Cinema Massimo sala Due (Museo nazionale del Cinema), Via Verdi 18 (partecipano Davide Ferrario e Gianluigi Ricuperati); mercoledì 29 alle 20 a Palermo, Cinema Rouge et Noir, Piazza Verdi 8 (con Giancarlo Alfano, Matteo Di Gesù e Domenico Scarpa). L’Azzurro Scipioni di Roma (Via degli Scipioni 82), inoltre, ha inserito Senza scrittori nella sua programmazione regolare (si fa per dire): il primo venerdì di ogni mese, da agosto a dicembre, alle 21.

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13 Commenti

  1. La cosa migliore del documentario, in quanto film, è il Cortellessa malinconico, anche se non lo definirei disincantato, il disincanto è una forma di resa, non mi pare il suo genere.

    Ho trovato interessanti soprattutto le interviste ai “cattivi”, in un paio di casi un vero invito alla fisiognomica, in particolare nel caso di Cataluccio, esiste una fisicità del manager, indipendentemente dal campo in cui agisce. Quella di Cataluccio non è molto lontana da quella di Profumo, fatte salve le dimensioni aziendiali.

  2. «Oggi ci sono molte forze che si propongono di negare ogni distinzione tra il commerciale e il creativo. Più si nega questa distinzione e più si pensa di essere divertenti, comprensivi ed esperti. Di fatto si traduce soltanto un’esigenza del capitalismo, la rotazione rapida […]. Al contrario, l’arte produce necessariamente qualcosa di inatteso, di non riconosciuto, di non riconoscibile. Non esiste arte commerciale, è un non-senso. Ci sono arti popolari, certamente. Ci sono anche arti che necessitano di maggiori o minori investimenti finanziari, c’è un commercio delle arti, ma non arti commerciali […]. Si possono mettere in concorrenza i libri d’evasione con un grande romanzo, ma saranno inevitabilmente i libri d’evasione o i bestseller a vincere in un mercato unico a rotazione rapida o, peggio ancora, saranno loro che pretenderanno di avere le qualità dell’altro e lo prenderanno in ostaggio».

    Lo vado dicendo da mesi e mi si tratta da mentecatto… Vabbè… Forse perché uso invece che l’immagine Mazzantini l’altrettanto problematica immagine (non lo faccio il nome, se no arriva subito la francese con il manganello… alla quale, nonostante tutto, preferisco il Cortellessa con il Manganelli)

  3. @ Alcor
    Premesso che, come ho risposto a Linnio Accorroni, mi pare un po’ troppo tagliata con l’accetta la divisione in “buoni” e “cattivi”, a me pare che Cataluccio (persona alla quale personalmente devo moltissimo!) sia il classico esempio di “cattivo” (a parole) a fin di “bene” (la battuta sull’editoria cinica in una società cinica è improntata semplicemente a realismo, ahinoi). A prescindere dagli autori di cui si occupa come saggista e traduttore, tutt’altro che usoformi al sistema editoriale descritto in Senza scrittori (da Gombrowicz a Schulz da Lem a Herling), Francesco è un “cattivo” molto sui generis se, con l’esperienza che ha, l’editoria di oggi (l’editoria cinica, appunto) lo tiene in panchina ormai almeno da un anno.

  4. Difficile discutere di un documentario senza averlo visto. E’ prevista una proiezione a Bologna Cortellessa?

  5. Infatti ho scritto “cattivi”, tra parentesi, Profumo tra l’altro è un banchiere “buono”.

    Resta la mia fascinazione per le fisionomie, il “realismo” in qualche modo le plasma, cambia la gestualità, la consapevolezza, lo sguardo, anche la vitalità, la vitalità che emana Cataluccio, anche se è in panchina, è ben diversa da quella dei librai della Tombolini.

    In un film, io guardo, guardo anche i corpi.

  6. da questo punto di vista anche la fisicità della Mazzantini è interessante, lei dice al suo pubblico: io sono “emotiva”
    è una specie di brand, mi chiedo quanto contribuisca al suo successo

  7. Mazzantini si specchia nel suo pubblico con lo stesso gesto col quale gli porge uno specchio. È questo che fa il grande comunicatore odierno, a partire da chi ci governa.

  8. @ Alessandro Ansuini
    Sono d’accordo con te, anche se quest’estate non s’è fatto altro (vedi la discussione su Lipperatura, per fare solo uno dei molti esempi possibili). Spero di riuscire a organizzare una cosa a Bologna in ottobre.

  9. Siamo così sicuri che la scuola influenzi direttamente il gusto dei lettori? Voglio dire, io durante le superiori mi divoravo Stephen king, ma a scuola mica me lo facevano leggere, e neanche mi educavano a riconoscere nel genere horror la letteratura… per la mia prof era già un miracolo se leggevamo, e parlo di 20 anni fa! Insomma, il rischio, mi sembra, è di fare la stessa equazione “guardi i film violenti allora diventi violento”… Inoltre sarebbe interessante capire che età hanno i membri della giuria giovane…

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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