Piccoli orsi polari crescono

di Giuseppe Zucco

Sono io, ho venticinque anni, e la laurea cento dieci e lode in scienze della comunicazione con tanto di stretta di mano finale per la tesi sulla fenomenologia dei reality show non impedisce al ragazzo in maglietta sudata di continuare a scaricare davanti a me scatole e scatole di cartone sul pavimento di una casa di produzione televisiva milanese. Il ragazzo impila le scatole, le tira fuori dal furgoncino e viene ad accatastarle una sulle altre. Ed io guardo la geografia stropicciata della maglietta sudata del ragazzo, lo stato nazione della fatica che si espande sulle spalle, il tetris della muraglia di scatole allineate, ma ci ricavo niente, sebbene la tesi partisse da una citazione di Don DeLillo, un paio di righe sottolineate qualche mese prima sul romanzo Underworld: per capire il proprio tempo bisogna guardare i cartelloni pubblicitari e le scatole di fiammiferi, i marchi di fabbrica sui prodotti, i segni particolari sul corpo, il comportamento degli animali domestici. Le cose sotto il nostro naso.

Non dovrei, ma firmo la ricevuta di consegna, poi accompagno il ragazzo fuori dalla sede.

Il cielo di metà luglio è pulito, la testa rasata del ragazzo scintilla come una moneta. Alza una mano, restituisco il saluto. Sfrecciano le macchine con i finestrini chiusi, i palazzi tremano nell’aria bruciata, io sento nei polmoni la brace dell’aria di Milano, intrappolato qui per fare curriculum, uno stage con rimborso di otto euro al giorno pagato ogni due mesi.

Torno dentro, e Chiara ha la gonna cortissima, e nonostante i trentacinque gradi trattenuti fuori dalla spinta dei condizionatori, potrebbe essere maggio, un giorno di fine aprile, la dimostrazione che tutti i condizionatori non lavorano sulla temperatura ma sul tempo, introducono stagioni remote dentro il cuore infuocato di altre stagioni, e mentre le gambe lucide ormai abbronzate di Chiara infilano le scale e spariscono di sopra, potrebbe scoccare ancora il giorno della laurea, le promesse di un avvenire radioso contenute sotto la giacca elegante, la foto di gruppo con altri rappresentati di questa generazione che ancora non sanno nulla degli stage, del rimborso spese, delle gambe di Chiara, la luce dei loro occhi è quella delle grandi imprese, discutono la tesi con foga e una punta di commozione davanti al plotone annoiato dei professori in toga ed ermellino sulle spalle, non ci sarà un’altra volta per pronunciare con cognizione di causa il nome di Michel Foucault, Gilles Deleuze fuori da qui sarebbe un pilota di formula uno, Roland Barthes non è neppure contemplato, e il mondo sta arrivando, noi siamo il mondo, le gambe di Chiara è quello che rimane.

Serve una mano, chiede Andrea. Preferisco di no.

Andrea e gli altri stagisti sciamano lungo l’open space, tutta una fila di block notes, cellulari, jeans a vita bassa, magliette colorate di gruppi metal, capelli lunghi o corti, piercing sulla lingua per alcuni, i sopraccigli curati e lineari per tutti quanti, l’ombra del conformismo sotto l’aureola occidentale del Giovane Creativo, gli occhi rossi per le ore piccole fuori dal recinto dello stage.

Hai una cartina, mi chiede Rossella con i capelli sciolti. Mai fumato, dico io. Poi si accoda a tutti gli altri.

Sollevo la prima scatola, e li vedo chiudersi dentro la saletta tutta vetri dell’open space. Credo allora che Michel Foucault avrebbe versato lacrime amare sopra il maglioncino esistenzialista a collo alto, i suoi libri prevedevano già la forma pervasiva e totalitaria del controllo sociale, nell’open space tutti guardano tutti, ognuno è il piccolissimo arbitro del gioco altrui, una miriade di cartellini gialli e rossi alzati ogni momento, ma con la prima scatola tra le mani non ne faccio un dramma, nella saletta tutta vetri gli stagisti fanno brainstorming, una tempesta di cervelli che stenderà le linee guida per una nuova serie televisiva e/o per la più incontrollabile e virale delle campagne pubblicitarie, anche se da qui, muti e boccheggianti come pesci, sembrano tutti allegri e spericolatamente creativi, le idee più assurde coagulate sul block notes, la lista dei desideri immaginari.

Salgo le scale, porto la scatola da me. Poi torno ancora giù, e salgo infinite volte con altre scatole in mano, accatastando le scatole davanti alla mia postazione.

Prendo il taglierino, incido il ventre della prima scatola. Il parto cesareo funziona, e con delicatezza sollevo nell’aria condizionata il primo esemplare di una lunga serie di beta grigi e incellofanati. Sul beta, una specie di videocassetta dalle dimensioni maggiori, c’è scritto La vita degli orsi polari.

Il lavoro mi è stato affidato ieri. È arrivato il regista, e mi ha lasciato una copia della sceneggiatura. Dietro gli occhiali appannati per il sudore, dice Facilissimo, troppo facile. Sarà il documentario numero uno, il primo della mia vita.

Giorni fa, il regista, la troupe e un noto Personaggio Televisivo atterrano al Polo Nord. Truccano il Personaggio Televisivo e accendono la camera con il grandangolo, in modo da catturare la fortezza spaccata del ghiaccio, le infinite e impercettibili sfumature del ghiaccio incrinato.

Il Personaggio Televisivo parla degli orsi polari, indica gli orsi, puntualizza sugli orsi, sussurra Che teneri gli orsi!, si impressiona fino ai lucciconi davanti ai piccoli cuccioli bianchi appena partoriti da mamma orso, inorridisce per la ferocia predatoria degli orsi, si gira di schiena con le mani alle orecchie quando gli orsi macchiano di rosso il pelo bianco, ma di orsi non ce ne sono, non ci sono mai stati, quella non è terra per orsi polari.

In una mattina hanno girato solo lanci e raccordi. Poi spengono la camera, struccano il Personaggio Televisivo, prendono il volo di ritorno. Il regista arriva qui, e mi consegna la sceneggiatura.

Chiara passa davanti, e io capisco ogni cosa, le gambe di Chiara, le braccia di Chiara, le unghie laccate di Chiara, la fatalità che non c’erano soldi né tempo per girare con rigore scientifico la sequenza evolutiva degli orsi polari, così toccherà a me guardare più di cento documentari già esistenti sugli orsi, leggere la sceneggiatura e rovistare nei documentari, cercando le scene che il Personaggio Televisivo ha già commentato sulla crosta scricchiolante e ghiacciata del Polo Nord.

Infilo il primo beta nel lettore, metto le cuffie. Ruoto la manopola verso destra, e le immagini veloci e scomposte attraversano il televisore.

Nel primo giorno di visione faccio fuori La vita degli orsi polari, Orsi e licheni, I lemming hanno le ore contate, Dura la vita degli orsi, Qua la zampa, Piccoli orsi polari crescono, Dove osano gli orsi, Il signore dei ghiacci, Cosa fare con l’orso quando l’orso è passato a miglior vita, Corteggiamento e riproduzione al polo nord, L’orso polare e le donne eschimesi.

Tre giorni di visione forzata, e ho scovato, schedato, catalogato tutte le scene che il montatore dovrà poi legare ai lanci e raccordi del Personaggio Televisivo. Il regista sgrana un sorriso, mi chiede cosa manca ancora.

Sai la sequenza in cui l’orso polare esce dall’acqua e sale sul lastrone di ghiaccio fluttuate sul Mare glaciale artico, dico io. Quello.

Ci metto altri due giorni buoni. Guardo di nuovo i documentari archiviati, l’orso che sale sul ghiaccio è irreperibile. Scarto i beta uno a uno, e schiaccio play sul lettore.

Qualche giorno ancora e divento la leggenda dello stagista di ghiaccio fluttuante nelle chiacchiere da open space. Anche Chiara a un certo punto chiede che fine abbia fatto l’orso, e io rispondo come farebbe la sua rivista di riferimento, Non ho l’oroscopo favorevole.

Quando tutti se ne vanno, io rimango ancora lì, sebbene Chiara mi abbia mandato un messaggio, e il messaggio crepiti di una generosità illimitata.

Torno ai beta, e metto le cuffie. Dietro il televisore appaiono e mi guardano Michel Foucault, Gilles Deleuze, Roland Barthes, tutto il gruppo di giovani laureati con il completo elegante e la tesi stretta tra le mani. Infilo ancora un beta nel lettore e resto a guardare.

Per un attimo sembra sia passato qualcosa, il pelo bianco, gli occhi due bottoncini neri, tutta la forza scatenata e indolenzita dell’orso. Fermo il nastro, torno indietro, niente da fare.

Così, in una sera di metà luglio, seduto sull’iceberg incrinato dello stage, illuminato dal bagliore artificiale del televisore, trovo finalmente il coraggio per chiedermi dove sia finito l’orso, su quale lastrone di ghiaccio fluttui il giovane orso polare e la mia generazione, se l’orso polare e la mia generazione stiano ancora bene, quanto ne sa l’orso e la mia generazione della terra ferma, cosa intuisce l’orso polare e la mia generazione nello scricchiolio sinistro del lastrone di ghiaccio.

Vado avanti ancora, la serata finisce senza risultati. Il televisore mi restituisce innumerevoli distese ghiacciate, lastroni di ghiaccio spezzati sul Mare glaciale artico.

L’orso starà nuotando sott’acqua, i polmoni gonfi, il muso puntato chissà dove. Da qui non è possibile vedere oltre.

Questo racconto è stato pubblicato su “Il mese – supplemento mensile di Rassegna Sindacale” nel numero di maggio 2010

 

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19 Commenti

  1. Caro Giuseppe, è bellissimo. Torno, prometto, a commentare, per ora solo questo – il tuo racconto e la tua lingua mi colpiscono per più di un motivo personale, oltre che per quel travaglio che ne esce che ci riguarda tutti, noi chiusi nella lastra di ghiaccio del tempo che non scorre e non si sana.

  2. Ciao Giuseppe, gran bel racconto, davvero.
    Anche “Minerali” mi era piaciuto molto.
    Vorrei chiederti una cosa via mail.
    Potresti scrivermi la tua email qui o inviarla alla mia casella di posta? (marco.gigliotti@collacolla.com)

  3. Hai tutto il mio rispetto per la laurea 110 e lode con stretta di mano ma scrivi come un cane. Pesante, illeggibile, senz’arte.

  4. Una scrittura fotografica del lavoro,
    una banchisa alla deriva, senza attesa,
    un universo spietato, gelato
    a stento un filo di desiderio,
    Chiara passa all’orrizonte nell’estate
    artificiale della climatizzazione,
    un racconto bellissimo per dire come la nostra
    società è sregolata.

  5. grazie a tutti, compresi gli scontenti – non vedo perchè rinunciare a critiche così costruttive. ma soprattutto grazie ai tanti indiani, nel corpo e nello spirito, conosciuti nell’ormai mitico e lontanissimo castello.

    giuseppe

  6. Solo in un sito di intellettualoidi di cacca come questo avrebbero potuto pubblicare un racconto pseudo-intellettualoide di cacca come questo.

    Eviterò di propinarti le 60 righe di appunti che ho preso leggendo questa specie di insensatezza.

    Ti do un consiglio: De Lillo e J. Roth non valgono un cazzo, cercano di fare gli scrittori europei, sì come fece Bellow a suo tempo, senza esserlo.

    Cercano profondità ma non la hanno.

    E sai perché non la hanno?

    Perché non hanno un cazzo da dire.

    Però lo dicono con belle frasi e libri lunghi.

    Scrivono perché ci sono coglioncini che li pubblicano e coglioncini che li leggono.

    Scrivono a contratto, perché non sanno fare altro.

    Basta la meno riuscita delle pagine di Carver per sancire la differenza.

    Questo, se vuoi, è un consiglio.

    O una imposizione.

    Altrimenti fai come ti pare.

    Riusciremo a fare a meno di leggerti, come abbiamo sempre fatto.

    (A proposito: mica ho capito dov’è ambientato il racconto, di chi è la laurea iniziale – secondo me dello scaricatore – e perché i condizionatori non lavorano sulla temperatura… forse lavorano sulle uova al tegamino?)

    Ridicolo.

    E tutti quegli orsi ripetuti, cosa sono?

  7. Meglio che non pubblichino il commento che ho fatto al tuo racconto con il nick di Reverendo Jazz (che è sparito per miracolo).

    Così continuerai a scrivere tranquillamente.

    Vergogna.

  8. @Paolo Sciola, grazie per gli intellettualoidi. E per la cacca soprattutto. Solo chi ha sofferto a lungo di stitichezza può capirne il valore.

    Detto questo, piaciuto o meno il testo, la vergogna, mi sa che sta altrove, non certo nel pubblicare o l’aver scritto un racconto su una generazione alla deriva come gli orsi polari senza più terra, vista attraverso lo schermo di un televisore, a sottolineare l’impotenza. Forse ci dovrebbe essere più vergogna nell’acredine e nella frustrazione che spingono, non a commentare negativamente, ma a inveire contro uno scrittore e altre persone (i redattori) diventando offensivo. O forse anche questo è solo l’altra faccia dell’impotenza – quella peggiore, che si scatena sterilmente nello sputare addosso sentenze. Per inciso tutti quegli orsi ripetuti, sono orsi, per l’appunto. Quando diventeranno liocorni sarà nostra premura avvisarti.

  9. sottoscrivo una per una le parole di francesca matteoni.

    poi, carissimo paolo sciola, nonchè reverendo jazz, se per questo misero racconto hai preso sessanta righe di appunti, non oso immaginare cosa ti sia capitato leggendo delillo e roth e bellow, appunti su appunti, sono quasi preoccupato per la tua salute…

  10. “60 righe di appunti”, che meraviglia, il più bello dei complimenti per uno scrittore, sono quasi invidioso…

  11. Penso che cercare qualcosa sia un merito. Certo, magari si fallisce. Se poi qualcuno ti paga, nonostante ripetuti fallimenti (e non si può forse far altro che fallire), meglio per te.
    “E hai ottenuto quello che
    volevi da questa vita, nonostante tutto?
    Sì.
    E cos’è che volevi?
    Sentirmi chiamare amato, sentirmi
    amato sulla terra.”
    Nonostante tutto. Per me molto sta qui.
    (Sul racconto: piaciutomi, ma le ultime due frasi, il verbo “vedere”, non so, mi stona, in qualche modo. “lastrone di ghiaccio fluttuate”…”fluttuate” mi sa che manca di una “n”. Per dire, il verbo “vedere” non l’avrei trovato stonato se prima: “L’orso sta nuotando…”. Ma è questione di gusti, sì. In generale, forse la voce di chi scrive si sente poco. Non so, mi sembra nascosta. Sta cercando, forse. Impressioni. Ciao)

  12. A tutti, ma soprattutto a Giuseppe e Paolo. Sono responsabile di questo post, ma dato che non ero a casa non ho potuto gestire il thread dei commenti, cosa di cui mi scuso. Probabilmente avrei tenuto bloccato il commento di Reverendo Jazz, finito automaticamente in moderazione, visto che mi sono data la regola di non permettere commenti insultanti a terzi, in questo caso all’autore (mentre quelli diretti a me stessa li ho sempre fatti passare).
    Però ormai la frittata è fatta, Paolo ha avuto – involontariamente o meno – il coraggio di firmarsi nome e cognome e dunque è possibile parlargli.
    Quel che mi stupisce e francamente mi demoralizza, non è solo che ripetutamente ci becchiamo sempre più spesso apprezzamenti tipo “intellettualoidi” (“di cacca” o meno), “intellighenzia radical chic” e quant’altro. Mi deprime non solo perché è un riflesso linguistico pavloviano tipico di destra (di una destra per nulla “moderna”), ma soprattutto perché viene fuori una visione come se noi qui fossimo una piccola cricca chiusa nel suo castello e chi è fuori non può che lanciare oggetti sulle mura invalicabili. Visto che tutto funziona in questo modo, in Italia, dev’essere così anche per Nazione Indiana, il lit-blog più letto. Invece no.
    In primo luogo, qui ci sono i commenti sempre aperti che salvo insulti o trollaggine manifesta vengono pubblicati. In secondo luogo, abbiamo pubblicato e pubblichiamo contibuti di persone mai viste in faccia che ci hanno mandato testi via mail collettiva o via mail private. Alcuni post anche recenti, inoltre, sono nati dagli scambi creati nei commenti.
    Insomma, quella che sembra una fortezza inespungnabile, ha in realtà una porta aperta.
    Sarebbe stata aperta anche per Paolo, se non ci avesse apostrofato in un modo che esprime inequivocabilmente quanto NI gli fa schifo. Però non so se gli facciamo schifo veramente, o gli fa schifo quel che lui si immagina: ossia che qui pubblichiamo solo roba dei nostri amichetti.

  13. Mi scuso un po’ con tutti per la veemenza delle mie parole.

    E’ che ho di questi scazzi letterari e umani (chissà cosa direbbe un critico: idiosincrasie riconducibili a un vissuto in apparenza poco appagante…? Quien sabe?).

    E questi scazzi letterari sicuramente hanno a che fare con il mio privato (che giustamente non interessa a nessuno, figuriamomi a me).

    Rileggendo quanto ho scritto a caldo del racconto di Zucco, continuo stranamente a essere d’accordo con me.

    Di DeLillo ho provato a leggere anni fa Great Jones Street (o qualcosa del genere).

    L’ho lasciato a metà, senza rimpianto.

    C’era niente che succedesse per pagine e pagine.

    E soprattutto c’era la sensazione (quella che l’autore trasmetteva a me) che non avesse alcuna idea di dove andasse a parare.

    Non ho finito il libro, dunque non so se all’ultima riga dell’ultima pagina DeLillo abbia capito il motivo o la motivazione che l’abbiano portato o spinto a scrivere il libro.

    La cosa più fastidiosa era il senso di inautentico (la vita di una rockstar vista da uno che trasmette l’idea di sapere poco o niente di musica) e il tentativo di fare “arredamento interno” con una intelligenza forzata delle cose e delle minime situazioni anziché fare “architettura”, ovvero armare dei pilastri o dei muri portanti attraverso i quali sviluppare degnamente una storia.

    Questo DeLillo è di una sterilità micidiale e sovrumana, ho pensato leggendo quel romanzo.

    Il povero Hem si starà rivoltando nella tomba, e insieme a lui il povero Fante e Buk e O’Hara (John) e persino Carver e McCarthy

    L’unica cosa che invidio loro (insieme a tutte le altre, si capisce) è che da morti si risparmiano il dolore di leggere siffatti successori.

    L’altra domenica ho comprato per 3 euro in una bancarella di Piazza del Carmine “Rumore bianco” in una edizione ben curata e intonsa dei romanzi da non perdere che Repubblica aveva allegato settimanalmente, anni fa, al proprio quotidiano.

    Il traduttore ogni tanto si perde: a un certo punto trovi un ragazzo che attacca una cartina alla parete con “il nastro a due montanti”. Non conosco l’originale, ma non è che per caso si trattasse di nastro biadesivo…?

    Sono arrivato a pag. 150 e, come volevasi dimostrare, DeLillo riesce a non raccontarti niente facendo però sfoggio di barlumi o lampi sbruciacchiati, e ritriti, di presunta “intelligenza interna”.

    Adesso me lo sto sorbendo mentre si sta inventando un esodo di massa di famiglie chiuse in una fila di automobili in fuga da una poco credibile nube tossica.

    Credo che finirò il libro, poco poco piano piano, per vedere fino a che punto si spossa spingere l’ignoranza (direi il masochismo) di chi prende per buono ciò che viene da oltreoceano (gli americani sono perdonati: aspirano da sempre a tornare europei) senza avere gli strumenti (non è colpa loro) per separare il loglio dal grano.

    Il prossimo dovrebbe essere “Underworld” (un capolavoro, a quanto se ne dice in Italia, no?).

    Temo e tremo all’idea di ritrovarmici di fronte (pare siano parecchie centinaia di pagine).

    J. Roth è un pochino meglio (minchia però: parlano tutti di professori universitari – vedi La macchia umana – vuoi vedere che in America non esiste la povera gente o quella umile o quella di colore o quella latina etc.?).

    Cosa volevo dire?

    Esattamente quello che ho detto.

    Per ora.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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