L’antirealtà

di Tommaso Pincio

Stando a un vecchio mito circolante tra gli scrittori, ci sarebbero romanzi che reclamano d’essere scritti. Vale a dire, romanzi in cerca d’autore. Questo genere di romanzi, il cui grado di diffusione non è dato conoscere, risparmierebbe agli scrittori l’incombenza per nulla secondaria di trovare un buon argomento intorno al quale imbastire una storia. In pratica funzionerebbe così: lo scrittore se ne sta tranquillo per i fatti propri senza spremersi troppo le meningi, finché un bel giorno il romanzo bussa alla porta della scatola cranica esigendo d’essere scritto; a questo punto lo scrittore non ha che da mettersi all’opera, eseguendo le indicazioni impartite. Illusoria o veridica che sia, è una visita che qualunque scrittore almeno una volta nella vita ha ricevuto. Naturalmente sarebbe più giusto chiamarla sensazione. Volendo, si potrebbe arricchirla, questa sensazione, di un attributo, come ha fatto Javier Cercas, che ha giustappunto definito «sensazione presuntuosa» la visita da lui ricevuta il 23 febbraio 2006.
Quel giorno ricorreva un anniversario importante per il suo paese: esattamente un quarto di secolo prima, il 23 febbraio 1981, il colonnello Tejero, irruppe nell’emiciclo del Congresso ed esplose alcuni colpi in aria umiliando i deputati spagnoli in seduta plenaria, rifugiatisi all’istante sotto gli scranni. In questo trionfo di pavidità, il primo ministro Adolfo Suárez rimase immobile, come pietrificato, al suo posto. È un’immagine che da allora ogni spagnolo ha rivisto decine e decine di volte in televisione. Un’immagine pertanto ipnotica, il simbolo di una neonata e ancora incerta democrazia, capace però di resistere alla minaccia di un golpe, quantunque pagliaccesco. Ma chi era davvero Suárez, un eroe per caso, «un politico mediocre, il cui merito principale consisteva nell’essersi trovato nel posto giusto al momento giusto» o piuttosto un genuino difensore della libertà, un eroe per scelta? Memore di una convinzione di Borges in base alla quale «qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è», Javier Cercas cominciò a domandarsi se quel giorno di fine febbraio, nei concitati secondi in cui le pallottole fischiavano sul Congresso, il primo ministro Suárez, abbarbicato al suo scranno, avesse anch’egli vissuto il momento fatidico in cui un uomo sa per sempre chi è. Fu allora che un romanzo reclamò di essere scritto. O perlomeno così sembrò a Cercas, che, messosi prontamente al lavoro, portò a termine «con inusuale fuidità, quasi una marcia trionfale», una prima stesura di circa quattrocento pagine. In verità, qualche dubbio gli si era affacciato alla mente, ma lo scrittore aveva tirato dritto, convinto che «il libro fosse ancora allo stato embrionale e che addentrandomi gradualmente nel meccanismo narrativo ogni incertezza sarebbe svanita». Non fu così. Il guaio è che aveva organizzato la storia alla maniera di un romanziere, ovvero disponendo ogni tassello ad arte, affinché tutto tornasse e la realtà acquistasse un senso omogeneo. Ma il golpe del 23 febbraio non era affatto realtà omogenea, bensì un caotico e accidentale concatenarsi di forze non di rado divergenti. E com’era possibile conciliare questo universo caotico con la dimensione fatalmente paranoica cui il mancato golpe assurse successivamente nell’immaginario della nazione? Per fare un banalissimo esempio, la stragrande maggioranza dei cittadini spagnoli crede fermamente che il golpe fu trasmesso in diretta televisiva, malgrado sia stata la radio a riferire in tempo reale gli avvenimenti. Le immagini televisive furono infatti diffuse solo a golpe fallito, il giorno seguente, dopo la liberazione dei parlamentari sequestrati. Una simile discrasia della memoria è probabilmente frutto di nevrosi collettiva, una reazione più che comprensibile, trattandosi di un evento di cruciale importanza nel quale è difficile distinguere il reale dal fittizio. Il colpo di grazia arrivò quando Cercas venne a sapere che un quarto degli inglesi d’oggi sarebbe convinto che Winston Churchill sia un personaggio di finzione. Si trattava di un numero emerso da un sondaggio, e i sondaggi, si sa, sono uno straordinario strumento di aberrazione. Tuttavia Cercas non poté fare a meno di chiedersi se la finzione non avesse finito per schiacciare definitivamente la Storia, ovvero se la discrasia non riguardasse solo determinati aspetti quali l’immaginaria diretta televisiva, ma anche il golpe nel suo complesso. Prese allora sempre più corpo, in lui, il dubbio: un romanzo che voglia far luce sulla realtà tramite la finzione letteraria non dovrebbe partire dalla realtà anziché da una finzione? Lo risolse gettando alle ortiche la prima stesura del suo romanzo e scrivendo un libro d’altro tenore, Anatomia di un istante (Guanda, trad. Pino Cacucci, pp. 462, euro 18,50), con la seguente motivazione: «incapace di inventare quello che so sul 23 febbraio, rischiarando con la finzione letteraria la realtà dei fatti, mi sono rassegnato a raccontarlo». L’autore lo definisce «innanzitutto un fallimento», cosa che in effetti non è. Ma ciò che merita una riflessione è altro: fino a che punto è giusto che la vocazione al romanzo debba soccombere in nome della cosiddetta realtà? Questione annosa e per nulla originale. Nondimeno nel modo in cui viene affrontata emergono caratteri nazionali ben precisi.

In Italia, per esempio, l’amore per il vero ha quasi sempre prevalso. La letteratura di lingua spagnola, invece, non ha mai rinunciato, talvolta in maniera donchisciottesca, all’idea che la narrativa è prima di tutto finzione. Alla resa di Cercas, che tutto sommato rappresenta un’eccezione, si potrebbe opporre per esempio uno dei romanzi più ambiziosi della letteratura latino americana, La vita breve di Juan Carlos Onetti.
Il suo protagonista detesta la realtà più di qualunque altra cosa. Le ragioni non gli mancano, visto che è sul punto d’essere licenziato e la moglie ha appena subito un’importante mutilazione. Pensa dunque di dare una svolta alla sua vita scrivendo una sceneggiatura da proporre a un suo amico. L’idea gli sembra buona. La storia dovrebbe essere ambientata a Santa María, una città immaginaria, con personaggi ispirati a se stesso e ai suoi conoscenti. Il guaio è che non scriverà mai questa storia. Ma diversamente da Cercas, non sarà la diffidenza verso la finzione a bloccarlo, bensì l’opposto. Brausen, questo il suo nome, s’immergerà a tal punto nel suo mondo di fantasia da eleggerlo a realtà sovrana. Il romanzo finisce così per intrecciare tre livelli; in teoria perfettamente distinti, nella pratica inestricabili. C’è un primo livello, quello oggettivo della realtà in cui vive o dovrebbe vivere Brausen, che il lettore viene a conoscere dalla voce narrante, vale a dire lo stesso Brausen. Troviamo poi una sorta di mezzo, l’appartamento della dirimpettaia, una prostituta chiamata Queca, oggetto delle fantasie di Brausen. E abbiamo infine la dimensione completamente immaginaria di Santa María. Con molta acutezza (nello scritto che accompagna la nuova edizione appena pubblicata da Einaudi, trad. Enrico Cicogna, pp. 361, euro 22), Mario Vargas Llosa rileva che il mondo proposto da Onetti non può essere considerato vera finzione, pura irrealtà. È piuttosto un’antirealtà, un luogo alternativo: «anche se Santa María è concepita come un puro prodotto dell’immaginazione, la sua gente, la sua storia domestica, i suoi intrighi e consuetudini, il paesaggio, costituiscono una realtà che simula la realtà più oggettiva e riconoscibile». In altri termini, Vargas Llosa ipotizza che la letteratura possa essere pensata come un luogo a sé nel quale si sceglie di abitare né più né meno come si abita nella realtà, con la differenza che la letteratura è per l’appunto una scelta, mentre la realtà è una costrizione.

Tra i maggiori cantori odierni di questa opzione, spicca Enrique Vila-Matas. Nel suo incantevole e raffinatissimo Dublinesque (Feltrinelli, trad. Elena Liverani, pp. 246, euro 18) il ruolo del protagonista non è riservato, come di solito accade, a uno scrittore, bensì a un editore. Un vero editore, cioè. Di quelli che, a forza di aspettare il giorno in cui i best-seller perderanno il loro fascino presso il grande pubblico lasciando spazio alla ricomparsa dello scrittore di talento, finiscono per chiudere baracca e burattini, perché al giorno d’oggi una casa editrice colta e letteraria non può che procedere con «sorprendente ostinazione verso il fallimento». Romanzo a suo modo apocalittico, dove pare non faccia altro che piovere, e dove la disfatta finale consiste nell’estinzione della carta stampata, Dublinesque racconta la ricerca dello scrittore perfetto, quello che avrebbe potuto cambiare i destini dell’editore. È naturalmente una ricerca velleitaria. E non soltanto perché l’era di Gutenberg è ormai tramontata, tant’è che lo stesso editore medita di celebrarne il funerale, ma anche perché lo scrittore perfetto non può che non esistere, in quanto non c’è scrittore che prima o poi non deluda un lettore. Ma non solo, ancora più tragico, comico e inevitabile è il destino contrario ovvero che «i lettori deludono gli scrittori quando in loro cercano solo la conferma del fatto che il mondo è come lo vedono.»

Un presupposto analogo è al centro di Finalmusik di Justo Navarro (Voland, trad. Francesca Lazzarato, pp. 213, euro 14) dove si immagina una Roma oppressa dalla canicola agostana e presidiata dalle forze dell’ordine perché sedicenti brigate islamiche hanno minacciato di metterla a ferro e fuoco. Vi soggiorna temporaneamente un giovane spagnolo, diviso tra il suo lavoro di traduttore e la relazione amorosa con una certa Francesca, che si troverà a identificare accidentalmente il criminale più ricercato d’Italia. Tutto è molto realistico o perlomeno verosimile, tranne, forse, il libro che il giovane traduce, il thriller di uno scrittore bolognese definito «un Kafka del romanzo giallo». Nondimeno, proprio perché Finalmusik è pervaso di letteratura fino al midollo, sembra sempre sul punto di deragliare verso il visionario, offrendo uno ritratto comunque straordinariamente fedele dell’Urbe, colta nei suoi aspetti più vari. Si va dalla Roma ministeriale a quella misteriosa e morbosa dei monsignori vaticani, fino ad arrivare a cassiere di bar che sfruttano la loro dimestichezza col sesso orale per carpire informazioni da passare alla polizia.
Justo Navarro è uno scrittore dalla pagina sapiente, perfettamente cadenzata. Eppure, come avviene nella Vita breve di Onetti, la seduzione corriva della letteratura da intrattenimento – «l’incantesimo del best-seller», per usare un’espressione alla Vila-Matas – è sempre palpabile; inebria e stordisce alla maniera del caldo torrido dell’estate romana, ed è una seduzione che appartiene tanto al romanzo che il protagonista sta traducendo quanto alla realtà che questi vive; la sua amante Francesca, per esempio, si troverà a identificare accidentalmente il criminale più ricercato d’Italia.
Non si tratta tuttavia della commistione di due sfere opposte, letteratura alta e d’intrattenimento, realtà e finzione. Bensì del frutto della loro unione, quella che Vargas Llosa chiama antirealtà. Qualcosa che, forse, potrebbe chiamarsi col nome di letteratura, semplicemente.

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6 Commenti

  1. Credo che il perno del ragionamento di Pincio sia l’accenno al Don Chisciotte: gli spagnoli ce l’hanno, noi no, e questo ha un suo gran peso. Il problema non è, naturalmente, prendere spunto dalla realtà – fatto inevitabile; è farsene stritolare per mancanza di slancio creativo – fatto evitabile. A me pare che oggi in Italia la cosiddetta realtà, specie sotto forma di cronaca, stia strabattendo l’immaginazione. Un fenomeno che non depone a favore dello stato di salute del nostro spirito.

  2. Concordo con Macioci che non depone a favore del nostro spirito… L’ho scritto in NI tante volte, negli ultimi mesi, subendo attacchi di tutti i tipi, che una letteratura sottomessa alla ” cosiddetta ” realtà non è degna di in paese civile. Ora questo bell’articolo, che ridicolezza le tesi engagiste. Mi aspetto delle retromarce clamorose. Oppure…

    PS: da quando ha preso il Nobel, è la prima volta che compare qui il nome di Vargas Llosa, il quale non è uno scrittore così disprezzabile…

  3. A ben considerare, la letteratura è negazione di una dicotomia ingannevole: “realtà/finzione” è artificio ad uso di chi seguita (per superficialità o convenienza) a separare la vita dalle lettere. Onetti, che è il più grande romanziere latino-americano (alla “Vita breve” vanno aggiunti per lo meno “Il cantiere”, “Raccattacadaveri” e “Per questa notte”), attesta proprio questo attraverso una scala di equivalenze: Onetti è Brausen che è Arce che è Diaz Grey, lo sviluppo da realtà ad irrealtà (o il suo contrario) è implacabile quanto superfluo, vanifica la volontà persino all’interno della creazione fantastica. In questo senso, è inesatto asseserire che Brausen “pensa di dare una svolta alla sua vita scrivendo una sceneggiatura da proporre a un amico. L’idea gli sembra buona”, perché Brausen non lotta col destino né gli sembra buono alcunché: egli è semplicemente sul fondo di un moto casuale ed immobile, che è parimenti realtà come irrealtà o antirealtà.

  4. ciao a tutti,

    credo anch’io che in letteratura non esista la dicotomia finzione/realtà, ma solo un reciprico scambio, come se le particelle dell’illusione potessero completare l’atomo della realtà, e viceversa.

    eviterei di scomodare nietzsche: ma nella “genealogia della morale” si trova l’ormai famosissimo e malinterpretato “non esistono fatti, ma solo interpretazione di fatti”, e questo non significa che la verità non esista, o che i fatti non siano lancinanti e dolorosi nel loro accadere – la caduta nel revisionismo dei fatti storici e/o nel nichilismo sarebbe inevitabile – ma che i fatti per essere raccontati, tramandati, comunicati hanno l’esigenza di essere messi in forma, di essere ricostruiti secondo una linea narrativa, di essere riordinati seguendo un filo logico rigorosissimo.

    in questi giorni, guardando i telegiornali, l’infinita sepoltura tra le battute ansa e i pixel di sarah scazzi, mi è ritornato in mente un campione di scrittura “realista”, il truman capote di “a sangue freddo” – non solo perchè mi è parsa subito insopportabile questa onda emotiva che solca i media intorno all’omicidio di una ragazzina mostrata continuamente nei filmini familiari mentre si pettina o mangia un panino al mc donald, ma soprattutto perchè questa emotività diffusa tutto permette tranne la comprensione dei fatti o la pietà e il distacco verso tutti i suoi personaggi.

    truman capote esplorò con il fiuto dello scrittore un fatto simile, raccolse tutti i documenti possibili, comprese le interviste ad ogni singola comparsa sulla scena allargata del delitto, e poi ci mise sei anni per riordinare tutto e dispiegare dentro i confini di un libro non un fatto, ma la complessità, la razionalità, la disperazione sentimentale, il mondo intero che quel fatto illuminò nel suo avverarsi. ed è proprio l’esattezza e la precisione del libro che ci permette di “sentire” i personaggi e le loro diverse ambizioni – sia pure l’ambizione di vivere, come si capisce leggendo degli attimi che precedettero la fine degli assassinati.

    eppure in un libro in tutto e per tutto realista, dove in teoria sono i fatti a piegare la letteratura e non il contrario, c’è una scena che mi è sempre tornata in mente quando si oppone la realtà alla finzione, ed è esattamente la scena dell’arrivo degli assassini nel tribunale, anche se il loro arrivo non è raccontato dal punto di vista del narratore o di un personaggio qualsiasi, bensì dal punto di vista di un gatto, anzi una coppia di gatti, se non ricordo male. questo toglie verosimiglianza ai fatti, alla verità dei fatti narrati? neanche per idea: secondo me amplifica e distende la portata veritativa della narrazione dei fatti, come se il mondo intero, compresi gli animali, continuassero ad essere testimoni, e quindi parte oggettiva e soggettiva, dei fatti accaduti.

    al contrario, prendiamo “2666” di roberto bolano: per intenzioni, visionarietà, uso folgorante dei cliché narrativi, fluvialità della scrittura, è un libro da collocare al polo opposto di “a sangue freddo”. eppure nella quarta parte del libro, “la parte dei delitti”, in mezzo alla trama di un romanzo dove in teoria i fatti sono piegati alla letteratura e alla finzione e non il contrario, emergono in tutta la loro tragicità i referti spietati delle morti di migliaia di donne dentro e nei dintorni di ciudad juarez. quegli omicidi sono in tutto e per tutto reali – da tempo avvengono ai confini del messico senza che si riescano a trovare le mani assassine. ma quelle pagine, oltre a dare conoscenza al lettore di un fatto così vero e così mostruoso, messe lì, nel cuore di un romanzo di finzione, finiscono per amplificare la portata dolorosa degli eventi, facendo coincidere la morte violenta di quelle donne con il male tout court, il cuore oscuro del male, che ha tanto a che vedere con la violenza, la sopraffazione, l’inganno, il capitalismo avanzato, la politica deviata dalla propria missione, la giustizia compromessa nei suoi funzionari e nei suoi fini.

    così mi viene da pensare che l’antirealtà di cui parla pincio nel suo post, non sia tanto un mondo a parte che di libro in libro decidiamo di abitare. penso piuttosto che siccome il mondo in larga parte può essere ricondotto a un fatto linguistico – cioè una serie di fatti messi in ordine, compresi e raccontati dentro la logica e le regole di un linguaggio, sia questo la lingua parlata, o quello della scrittura, del cinema, della pittura, della scultura, della televisione, dei new media – allora l’antirealtà siano tutti quei fatti linguistici in cui decidiamo di entrare (un romanzo, un film, un quadro, un blog) in cui il linguaggio è così lavorato da permetterti la comprensione del mondo, o anche la percezione sensoriale del mondo e della realtà, o la condivisione della condizione umana, o tutte queste cose insieme. l’antirealtà, se così la vogliamo chiamare, è il rintocco di una lingua plurale e diramata dentro l’ossessività martellante e globale della lingua del potere.

    a presto

    giuseppe

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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