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Sistema Repubblica?


di Marco Mantello

C’è qualcosa di  grottesco nelle ultime rivelazioni giornalistiche targate Bunga Bunga ed è il “come”. Se cadrà qualcuno, sarà l’Icona, non certo il sistema di potere che c’è dietro all’Icona, il Vaticano, la Brianza e il Nord Est interiori, le mafie e i reality show. Mi disturbano, non poco, le modalità della caduta, l’idea che l’importante è farlo cadere, perché penso al ‘dopo’.

Certo poi l’icona si logora più facilmente per il Bunga Bunga, e non per le politiche di precarizzazione del lavoro (il libro bianco di Biagi, tanto comodo alle redazioni dei giornali generalisti), non per la partecipazione italiana a una guerra collegata ai soliti interessi economici che ruotano intorno al petrolio e alle nostre ‘macchine’ (del resto su Repubblica, nei primi anni ’90, si leggeva: che c’è di sbagliato?), non certo le politiche sull’immigrazione a punti. Lo scandalo del Bunga Bunga, cioè la pratica collettiva e al contempo concorrenziale del ficcarlo nel culo, regge sul presunto trattamento di favore riservato a una minorenne africana dalle forze dell’ordine e su modelli di famiglia del tutto cristiani. Perfino le proteste di piazza sulle ultime sparate dell’Icona vengono fotografate, oggi, su Repubblica online, da cartelli del tipo: ‘meglio omosessuale che pedofilo’, con firma sotto: ‘padre di famiglia’. Come se l’uomo comune di turno, la parte migliore del paese, appendendosi l’indignazione al collo per il mancato rispetto della gerarchia delle ‘colpe’, dovesse chiarire a se stessa e al mondo che indignati sì ma froci no.

Due settori della Confindustria, negli anni ottanta, si contendono a suon di ‘lodi’, più che di ‘insulti’, il sistema informativo italico, tv e carta stampata. La cosa produce un effetto sul modo di fare politica,  consolidando in élite un piccolo sottobosco di gente che si conosce da una vita. Dagli anni ottanta a oggi, la stampa di sinistra ha prodotto sempre più ‘comici’ ed  ‘eroi’. Quella di destra sempre più ‘avvocati’ e ‘ballerine’.  Il tutto sorretto da efficientissimi uffici stampa. Sono loro, i moderni nipoti di padre Bresciani di cui parlava Antonio Gramsci. Sono gli italiani descritti ieri da Eugenio Scalfari, dando loro del ‘noi’, un ammasso di luoghi comuni generato in parte da questo sistema, e in parte da esso riflesso. Un ammasso di immutabili pregi e altrettanto immutabili vizi, identificati a priori nella faccia insanguinata dell’icona, dopo che un ‘pazzo’ gli ha tirato addosso Milano:

“laboriosi, pazienti, adattabili, ospitali. Ma anche furbi, vittimisti, millantatori, anarcoidi, insofferenti di regole, commedianti. Egoismo e generosità si fronteggiano e così pure trasformismo e coerenza, disprezzo delle istituzioni e sentimenti di patriottismo”

In un film dell’anno scorso, Videocracy, il regista di un noto reality show azzarda un paragone fra la scatola televisiva, i suoi culi, le sue tette, i suoi colori, la sua ‘voglia di vivere’, i suoi Robin Hood,  e l’inconscio dell’icona, proiettato sulla penisola.

Gli italiani sanno. Gli italiani non stanno zitti, quantomeno in privato, e se non rischiano querele. Ma sopratutto una cosa va chiarita: che gli italiani sono.

La domanda allora è: che succederà dopo l’auspicabile crollo dell’icona più ridicolizzata, sputtanata e tristemente spontanea dell’ultimo mezzo secolo? Crolleranno anche i vizi e le virtù della penisola, associata a una sorta di immutabile individuo collettivo, che in questo periodo storico si è fatto un po’ più stronzo del solito ma che in fondo non è cattivo? Sarà ancora possibile uscire dal giochetto delle identità, delle tasse, dell’apparire? Sarà possibile trasvalutare il nichilismo, il potere per il potere, oramai valori della tradizione accanto alla Fica , alla Telecamera e alle strade bene asfaltate, in una serie articolata di individui senza importanza collettiva? Persone che smettano di indignarsi quando vedono sui giornali il video col barbone sdraiato a terra e la gente che passa e se ne frega, e al contempo sono quella gente, che passa e se ne frega, persone che pretendono spazi pubblici, nei loro quartieri, nelle loro città, società politica e società civile, finalmente senza ossimori di sorta, uomini  e donne che leggono, magari non ‘letteratura italiana’ degli ultimi quindici anni. Sarà possibile accettare l’idea di ‘andarci in perdita’, edificare  una sinistra alternativa ai salotti proustiani con tanto di casa Fiat e riprendere a parlare di ‘contenuti’, ‘programmi’, ‘stato sociale’, al di fuori degli innumerevoli dibattiti sul ruolo degli intellettuali, di questo perenne scimmiottare il linguaggio della destra e al contempo subirne l’egemonia, sarà possibile accettare l’idea che dietro il dominio delle parole c’è la dura materia degli interessi, economici in primis, che cambiando il modo di usare le prime, non si corrodono affatto i secondi, al massimo si parodizzano? O forse, più semplicemente, torneranno al governo le privatizzazioni, le liberalizzazioni, il precariato soft, le guerre umanitarie e un’idea astratta di ‘legalità’, che non ti fa capire se stai leggendo Repubblica, o un dispaccio di Fare Futuro? Vorrei che la sinistra italiana che non si riconosce nel pd, nei forcaioli e nei garantisti a oltranza, fosse unita almeno su questo: capire che abbiamo un bisogno disperato di ‘contenuti’, di ‘competenze tecniche’, di ‘conoscenza’. Altrimenti è determinismo, un sistema di puttanieri contro un sistema di ‘bravi borghesi’, che si fanno la guerra in pubblico, e talora cenano insieme, sulle rovine di terremoti, discariche e soldati morti. Nel migliore dei casi, vincerà il meno peggio. Ecco è questo, a mio avviso, l’eterno ritorno dell’uguale, che da mezzo secolo ti attanaglia alle radici, o ti fa espatriare. La sensazione di non essere mai usciti da questo paese.

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5 Commenti

  1. Grazie, un momento di lucidità e pulizia mentale nel colloso marasma che è la semiosfera ‘di questi tempi’, di sano pessimismo civile e critico a analitico, davvero gramsciano. Lo ritengo, oltre che presupposto indispensabile per mettere su un minimo di decenza personale, anche la precondizione necessaria per metter mano agli auspici della ‘cabaletta’, o esortazione, finale. Necessaria ma non sufficiente. Ci vuole in più (vedi l’articolo di Bifo Berardi su FB, qualche post fa) anche molta creatività, come già esortava ai suoi tempi Deleuze.

  2. infatti, uscire da un paese è una faccenda lunga e complicata, tra le altre contraddizioni che vedi metterei quella del tempo, costruire l’idea del tempo lungo in un tempo che corre all’impazzata e ci toglie il terreno sotto i piedi, un buon modo sarebbe vedersi, uscendo ogni tanto dalla rapidità della digitazione di un commento, guardandoci in faccia

  3. “Vorrei che la sinistra italiana che non si riconosce nel pd, nei forcaioli e nei garantisti a oltranza, fosse unita almeno su questo: capire che abbiamo un bisogno disperato di ‘contenuti’, di ‘competenze tecniche’, di ‘conoscenza’.”

    Condivido. Ma vorrei che si andasse oltre, a dettagliare posizioni politiche e soluzioni ai problemi, nell’economia e nel lavoro, nella redistribuzione della ricchezza, nella giustizia, sui diritti civili, sull’immigrazione, sulla politica internazionale, sulla povertà dilagante dentro e oltre i confini, sulle risposte etiche da dare allo sfascio e all’inerzia attuale, decidendo una volta per tutte il tipo antropologico che vorremmo che ci rappresentasse in futuro, stabilendone lo status, le caratteristiche e le condizioni del mandato, l’eventuale immediata revoca. Un grande progetto che attiri e coinvolga cuori e teste, le migliori, della nostra società. Le “competenze tecniche, le “competenze”, certo, purché non siano quelle prezzolabili e piegabili al servizio del potere, questo e quelli precedenti. C’erano sedici anni (almeno per pensare a) farlo: con quali aspettative torneremo al voto?
    Giovanni Nuscis

  4. @ nuscis

    ” Le “competenze tecniche, le “competenze”, certo, purché non siano quelle prezzolabili e piegabili al servizio del potere, questo e quelli precedenti. ”

    TOMBOLA…

  5. trovo che questa esortazione per una “sinistra diversa” abbia a suo modo un fondo di ottimismo.

    le persone “diverse” ci sono, pensano e fanno cose diverse, magari con le loro contraddizioni, ma con una sensibilita’ diversa da quella dilagante. provengono quasi sempre dallo stesso ambiente sociale e si sentono, magari con un certo orgoglio, di essere idealmente parte di una “sinistra diversa”.

    ma cosa puo’ questa parte di popolazione, di fronte alla maggioranza schiacchiante di tutti gli altri? quelli che vogliono diventare divi del grande fratello o veline, la commessa di San Vendemiano (TV) che ha paura “dei esra-comunitari”, la famigliola che va a fare turismo dell’orrore ad Avetrana? se l’Italia, come e’ adesso, dovesse avere dei nuovi rappresentanti, essi non sarebbero affatto diversi da quelli che ha: in un gioco di specchi, in cui non si sa se e’ venuta prima l’Icona a modellare il paese reale, o se e’ stato il paese reale a esprimere l’Icona.

    per questo la paura del ‘dopo’, perche’ quella sinistra “altra” pare invisibile, dietro a piccole case editrici e circoli arci, gente che parte con medici senza frontiere o semplicemente espatria, sentendosi soffocare dall’atmosfera italiana.

    e forse invece dovrebbe uscire fuori, entrare in contatto con la gente che guarda il grande fratello e ha paura degli extra-comunitari, parlarci come diceva Pasolini, pure con i fascisti. come potrebbe cambiare qualcosa se no?

    e poi si’ certo, contenuti, competenze tecniche, conoscenza… ma le competenze tecniche non valgono in se’, senza le idee che ci sono dietro, e senza un’altra, diversissima sensibilita’.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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