carta st[r]ampa[la]ta n.35

di Fabrizio Tonello

Elezioni del Congresso negli Stati Uniti: trionfa il partito del tè. Netta sconfitta del partito del caffè, mentre alcuni risultati interessanti hanno ottenuto il partito della camomilla e quello della tisana al finocchio. Il partito della verbena e quella della rosa canina non hanno raccolto consensi fra gli elettori.

Martedì 2 e mercoledì 3 novembre sono state giornate faticose nelle redazioni, costrette a produrre pagine su pagine su un argomento –l’America- che confonde le idee anche ai più diligenti. Più o meno tutti i giornali si riferiscono alla galassia di gruppi sotto l’etichetta “Tea Party” come al “partito del tè”. Naturalmente, “party” significa anche “partito” ma, nel caso specifico, ha invece lo stesso significato che nello spot televisivo con George Clooney: “No Martini, no party”. Il riferimento è proprio a una festa, un party, come fu ironicamente battezzata l’incursione dei coloni americani nel porto di Boston il 16 dicembre 1773, quando i rivoluzionari gettarono in mare un carico di tè per protestare contro le tasse imposte dal parlamento inglese. I gruppi nati l’anno scorso per protestare contro gli aumenti delle tasse e l’aumento del deficit che attribuiscono ad Obama hanno scelto questo riferimento alla prima rivolta antifiscale della storia americana, un party che diede il via alla lotta per l’indipendenza.

A dare il via è Repubblica (2 novembre, p. 17) che proclama d’autorità Ron Paul “senatore” facendo della famiglia Paul l’unica nella storia della repubblica a mandare al Senato contemporaneamente padre e figlio (quest’ultimo, Rand, è infatti stato eletto in Kentucky). Saranno mica nepotisti al Senato americano? In realtà Ron Paul è deputato. Così come il futuro speaker della Camera John Boehner, che viene ribattezzato Bonheur, “felicità” in francese. Lo svarione ritorna anche il 4 novembre, a p. 6: ah, quelle bonheur questi giornali!

Guardiamo al solitamente accurato Avvenire, dove non riescono ad azzeccare lo spelling del nome di un senatore americano neppure per sbaglio: il senatore del Nevada faticosamente rieletto si chiama Reid, e non Raid, quello del Tennessee Alexander e non Alexandre. Ma i refusi sarebbero perdonabili se il redattore non scrivesse che i democratici avanzano “in alcuni Stati chiave come la California, il Connecticut e il Delaware”. A parte che difficilmente il Delaware (popolazione 865.000 abitanti) può essere definito la chiave di alcunché, sarà bene ricordare che i democratici si sono limitati a mantenere un seggio che era nelle loro mani dal lontano 1973, quando fu eletto per la prima volta come senatore l’attuale vicepresidente Joe Biden.

Giovedi 4 perfino il diligentissimo Fatto Quotidiano si fa cogliere in fallo (p. 13), attribuendo a John Dingell, il deputato del Michigan rieletto, “altri 4 anni alla Camera”. Peccato che negli Stati Uniti si voti per la Camera ogni due anni e non ogni 4. La notizia continua così: “si candida a diventare il più longevo deputato della storia degli Usa. Per ora è terzo ma i primi due (Carl Hayden e Robert Byrd) sono arrivati a quota 56 e 57 anni”. Byrd, in realtà, era un senatore dal 1958 (è stato anche deputato ma solo per 6 anni, dal 1952 al 1958). Quanto a Hayden, anche lui era diventato senatore dopo essere stato deputato.

Anche al Foglio, dove sono tutti gasati per i Tea Party, fanno le cose più semplici di quanto non siano: “Si dice che sia stata [Sarah] Palin a selezionare molti candidati” (che fonti, che precisione, che incisività!) “e che oggi 48 dei 77 dei suoi prescelti siano stati eletti –percentuale trionfale” (4 novembre, p. 3). Beh, ammesso che i numeri siano giusti, i posti in palio in questa tornata elettorale erano 510: 435 deputati, 37 senatori e 38 governatori. Se davvero Sarah ha appoggiato 48 candidati che hanno vinto, la sua percentuale di successo è il 9,4%, non esattamente “trionfale”. Al Foglio omettono poi di precisare che quattro candidati fortemente sostenuti dalla Palin, Sharron Angle in Nevada, Ken Buck in Colorado, Christine O’Donnell in Delaware e Joe Miller in Alaska (lo stato di cui la Palin era governatore) sono stati sconfitti, privando i repubblicani di una possibile riconquista del Senato che avrebbe avuto un impatto politico enorme. Qualche altro trionfo come questi…

Torniamo a Repubblica, dove l’infografica che accompagna gli articoli è sempre fonte di curiosità, un po’ meno di notizie esatte. Il 4 novembre (p. 3) si dice che un Congresso diviso, con la Camera in mano a un partito e il Senato a un altro “ha pochissimi precedenti. L’ultima volta fu nel 1930”. Infatti, basta risalire al 2001 per trovare un Senato democratico e una Camera a maggioranza repubblicana. Poi si potrebbe citare il caso del 1981-87, sei anni in cui i repubblicani, trascinati dall’elezione di Ronald Reagan, furono maggioranza al Senato mentre i democratici controllavano la Camera. Per quanto riguarda Marco Rubio, il repubblicano della Florida frettolosamente etichettato “l’Obama dell’ultradestra” sarà forse una speranza del suo partito ma certamente non è il “neogovernatore della Florida” (p. 6) perché è stato eletto senatore.

Una tesi originale sui motivi della sconfitta dei democratici la offre Fiamma Nirenstein sul Giornale del 5 novembre. Per l’autrice, il presidente paga l’insicurezza in politica estera: “chi può dimenticarsi il profondo inchino di Obama a re Abdullah d’Arabia, o il discorso all’Università del Cairo, un misto di sensi di colpa e di improbabili mani tese verso l’Islam?” Ecco, l’americano medio che è rimasto disoccupato, magari ha perso la casa, non sa come arriverà a Natale poteva dimenticarsi il profondo inchino di Obama a re Abdullah? No di certo: chi di inchino ferisce, di inchino perisce.

[l’immagine in apice viene da qui]

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