Controparole

[Le pagine che seguono costituiscono l’apertura del saggio Controparole, Atelier, 2010. Chi voglia acquistare il libro può scrivere a: ladolfi_at_alice.it]

di Alessandro Baldacci

Speranza e frammenti

È ancora possibile cercare un’esperienza di verità nella scrittura? Continua a interrogare il presente, ad alimentare le potenzialità del futuro, la “domanda totale” dell’arte? La dominante ironica della letteratura contemporanea, con la sua prassi inerme e la sua incapacità di filtrare la grande lezione dell’ironia primo-novecentesca, il gioco che sempre più sfuma in ammicco, la deresponsabilizzazione del linguaggio, degli autori, dei critici di fronte alle ferite della realtà, la convinzione che la poesia possa accomodarsi docilmente nel suicidio in sordina delle logiche di potere che la governano, sono segni di un’amputazione del pensiero che pervade le più disparate esperienze del presente. Sono i sintomi di un mondo che ha smarrito le emozioni e le passioni del tragico, convinto che l’impossibilità del sublime possa essere ragione bastante per non lasciarsene ancora e nonostante tutto ustionare. Questo tipo di nichilismo, che non riconosce il negativo, che non soffre la negazione, governa la mentalità contemporanea, finge che tutto sia illusorio, fantasma, perché sa che la luce drammatica della realtà basta a denunciarne l’ipocrisia, l’interesse, il vantaggio o la complicità. Si proclama il trionfo del disincanto per sottrarre all’uomo la possibilità del sogno, del futuro, per rendere inerme il suo continuo bisogno di liberazione e di nuova speranza. Nell’ottica di una etica di radicale laicità è quanto mai fruttuoso partire smascherando l’equivoco del bello e del vero senza però rinunciare al problema della bellezza e della verità, rovesciare in altre parole la verità assoluta in interrogazione assoluta. Difendendo la vertigine di questa precarietà, di questo rischio, di questa incertezza diviene possibile mantenere vivo il dialogo fra etica e letteratura allo scopo di portare il proprio contributo di luce, la propria “ombra di speranza” per la realtà. Il  perturbante orizzonte di senso che spalanca la bellezza, come notava Musil, mantiene la sua portentosa attualità solo se ci si avvicina ad essa come ad «uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica»[1]. In questa ottica è ancora possibile legare, fra scatti paradossali, umoristici e tragici, i destini della letteratura all’orizzonte del bello.

Abbandonata dal proprio daimon utopico la letteratura (soprattutto quella europea) pare oggi ridursi sempre più ad uno spazio di imprigionamento e depotenziamento del pensiero: recinto, argine, fuga. Scrivere per coprire la realtà? Scrivere per evitare che essa filtri, erompa, devasti il pacificato rapporto fra l’autore e il proprio tempo? È finito l’esilio tragico in cui è stata sempre di casa la grande arte? O invece colma di merci, con le sue finestre e le sue porte sbarrate contro la realtà, la dimora pacificata della letteratura contemporanea finisce spesso per trasformarsi in uno spazio nichilistico, privo di vita, che volge le spalle ai destini del tempo, incapace di elaborare una propria, autonoma “fedeltà al mondo”? Eppure ancora oggi la Gegenwort (come la chiamava Celan), cioè la controparola della letteratura, quando trova la forza e il coraggio di pronunciarsi, alimenta un futuro che si spinge al di là di ogni futuro (per riprendere una intensa formulazione pasoliniana).

Il discorso che segue nasce frammentario, discontinuo, aperto agli smarrimenti e agli spiazzamenti cui ci conduce l’investigazione della realtà. Manca certo l’organicità di un percorso. Il suo unico centro è quello di una intramontabile fede nella letteratura. Le citazioni, gli spunti, le problematiche appena accennate in queste pagine sono frammenti di un discorso amoroso su etica e letteratura, in un tempo in cui etica e letteratura paiono sempre più relegate al margine, o implicate nella serena, vacua autorappresentazione della cultura contemporanea. Più che un saggio dunque, una serie di appunti, di frammenti aperti verso un saggismo impossibile eppure in progress. Quando la trama della realtà è composta dalla calca dei respinti, degli affamati, dei reietti, scrivere in dialogo con l’etica, significa porre il proprio discorso nello spazio utopico di una parola ultima che torna senza fine a comporsi in forma di prospettiva prima. Necessario è allora declinare al plurale l’utopia stessa, recuperare la categoria aristotelica di potenzialità, per riconoscervi il punto di partenza di un umanesimo critico che senza fine trascenda i limiti dell’esistente, a partire dai segni che, dal suo interno, indicano e testimoniano di un’esigenza di mutazione, di liberazione che è già in atto in ogni jetztzeit.

Potenzialità, speranze e utopie come meridiani di un discorso sulla realtà che rifiutando le declinazioni assolutistiche di totalità e sistema, non per questo rinunci a perseguire, fra cesure e approssimazioni infinite, l’orizzonte di una totalità drammatica: problematica, congetturale, aperta, plurima. Sulle sue spalle preme la condizione e la passione di una lingua sospesa fra estinzione e infanzia. Così, immersa nella tragedia della speranza, la letteratura può proseguire il suo «appello totale / tra i segni passeggeri della fine»[2].

Ora che siamo penetrati oltre la soglia del XXI secolo appare sempre più necessario mantenere memoria del nostro Novecento. La crisi fra lingua e realtà che ne battezza gli inizi non si risolse nella condanna della letteratura all’inautentico, nella identità fra parola e menzogna, ma impose la necessità di scavare vie torte, oblique, di percorrere vicoli ciechi con una energia tale che li trasformò in snodi di passaggio verso nuovi infiniti percorsi di conoscenza. Sprofondata nella parola in lutto del Novecento quella modernità problematica ci invitava a trasformare Sisifo in Münchhausen per liberarci «dall’ossessione della frode e […] ricreare la magia della verità»[3]. Di questa modernità penso sia quanto mai necessario tornare a sentire l’attualità della lezione, una lezione da lasciare in eredità, come direbbe Andrea Zanzotto, a occhi più futuri.


[1] Robert Musil, L’uomo senza qualità, Vol. I, Einaudi, Torino 1967, pag.  425.

[2] Milo De Angelis, Poesie, Mondadori, Milano 2008, pag.  232.

[3] Carlo Emilio Gadda, I viaggi la morte, Garzanti, Milano 1977, pag. 33.

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9 Commenti

  1. Così, immersa nella tragedia della speranza, la letteratura può proseguire il suo «appello totale / tra i segni passeggeri della fine»
    Parole sante. In un’epoca apocalittica come questa, e quindi rivelativa, mancano opere profetiche (ma in America qualcosa c’è o c’è stato, Wallace, Vollmann, Pynchon, DeLillo; e Wallace denunciò assai per tempo il nichilismo glamour oggi tanto di moda).
    Ciò indica uno scollamento fra tempi e immaginario, e quindi una certa debolezza spirituale. Le parole “a nord del futuro” di Celan, dove sono?

  2. a me questa ouverture, certo frammentaria e in progress (mai sia), mi dà di un seducente patchwork tra saviano – bellezza, letteratura, verità; e celan – controparola, meridiani. sarà anche questo, tra le righe, un modo possibile di ricercare un nuovo vocabolario della critica, condiviso e all’altezza dei tempi. cionondimeno, si ha la voglia di continuare a leggere gli sviluppi e i movimenti frammentari del discorso. magari, per una volta, senza incorrere nei logori e logoranti schemi binari e oppositivi, sapere di quali autori o autrici si occupa un saggio, da quello che si capisce, per frammenti, impegnato a mappare territori o confini tra etica e letteratura. di quali secoli? di quali latitudini? quali nomi? e, quindi, quale idea di etica, quale idea di letteratura, quale idea di critica?…

  3. Mi sembra che “un’etica di radicale laicità”, sia già di per sè un’indicazione di quale etica si persegue in questo saggio qui anticipato. Un’etica che tenga conto delle scelte autonome, e in questo del rapporto delicato che sussiste tra l’idea di singolo (l’essere umano in sè) e individuo (l’essere umano quale unità di un sistema sociale). Un rapporto dove gli equilibri sono sempre a rischio. Così come sul secolo: l’indicazione è precisa – il passato prossimo o l’infinito presente del Novecento da cui il Ventunesimo secolo ancora non sa svegliarsi, non sa tracciare una memoria che diventi pure sintomo di identità in divenire, futura. Personalmente sento del passaggio solo un futuro in perdita e l’aspettativa per qualcosa che non vedo. Forse è in quella verità che si rovescia in domande, nel concepire la bellezza non quale alto ideale scorporato, ma a volte per paradosso come il suo apparente opposto – la nudità di cui siamo fatti, di cui è fatta la lingua, con tutto il suo bagaglio fragile e la sua scarsa capacità di tradurci.

  4. Beh, speriamo, dopo l’irritata lettura di Un cerino nel buio di Brevini ho avuto la malinconica suggestione che discorsi come quello che inizia qui Baldacci, se vengono ancora fatti, corrano il rischio di assomigliare alle parole che avrebbe potuto dire sessant’anni fa un giapponese disperso in un’isola del Pacifico e ignaro che la guerra era già stata persa.

  5. Indice

    Speranza e frammenti
    Céline e Artaud: per cominciare
    La passione della realtà
    La mimesis dello choc
    Lucile e la poesia
    Razvan e Hurbineck
    Nel secolo dei genocidi
    Il dolore degli altri
    Dalla parte di Antigone
    Balbettare il vero
    Quel che resta di un uomo
    Utopie del presente
    Conclusioni (per non finire)

  6. Un discorso in forma di frammento: l’idea è e rimane positiva perché rende possibile l’edificazione di un cantiere in cui sia percepibile un “lavoro del senso” che non può mai dirsi definitivo, ma inserito in un arco ermeneutico interminabile, che tuttavia non ci impedisce di esprimere criticamente, attraverso la scrittura, ciò che oggi non va e deve essere corretto.
    L’importante è che i contributi che vengono dalla scrittura non si adagino sul gioco di parole, sul glamour pervasivo, sulla via facile al riconoscimento pubblicitario… Il problema è che spesso le istituzioni culturali (editori, produttori di cultura, assessorati politici) non sembrano volere vedere i propri errori: vendersi sempre di più a una serie di regolamentazioni che, silenziosamente, provano a escludere il dissenso.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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