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La divisione della gioia

di Italo Testa

I. UN LUOGO QUALUNQUE

o sulle poltrone in prima fila,
davanti a un sipario grigio
segui in allerta la scena vuota,
come una macchia nera in un quadro
lo spazio deserto ti incornicia:

è stato sulle scale, il gradino
lucidato dai passi anonimi,
l’ombra obliqua che taglia lo stipite:

oppure è quando senza preavviso
il chiavistello con uno scatto
scuote l’uomo che dietro la porta
a torso nudo liscia il lenzuolo,

quando la sedia accostata al muro
ha mosso un’ombra dentro la stanza
e i panni inerti sul ripiano
hanno mandato un lampo nel buio:

o è stato mentre risalivi
fino al nostro primo appartamento,
la mano appoggiata al corrimano,

appena il vento ha mosso le tende
contro le assi del pavimento
e hai visto le crepe nella brocca,
ti sei voltata contro il bianco
squarcio del lino sulla parete:

o è stata la mia sete a disfarti,
lo sguardo osceno che getto al mondo
sulle braccia sode di una donna
in vestaglia, di primo mattino,
con la brama del volto coperto,
del taglio aperto lungo le natiche,

e ogni volta che le spalle forti,
ossute, come un quadrante bianco
tornavano a imprigionarmi
nel tempo del corpo sconosciuto,
in un interno spoglio e taciuto:

o è stato in una casa a due piani
sopra la croce di Sant’Andrea,
mentre anch’io nella marea
del desiderio cadevo vinto,
ansimando per la prima volta
preso tra i rami del suo ailanto,

o quando da dentro chiudevamo
le tende, a telefono spento
per sentire sul binario il treno,
senza più un gesto o un pensiero vero,
se da allora il passaggio è precluso
e non posso tornare a ciò che ero:

ma forse anch’io un giorno ho pensato
presto le macchine partiranno,
la casa sarà per noi sbarrata
e io sotto un lampione astioso
sfoglierò altre pagine, altri libri,

o camminerò lungo un parco
e nemmeno la notte potrà
nascondermi, se guarderai sotto
le tue finestre sulla panchina,

o se appoggiata a uno schienale,
nuda, alle undici di mattina
ti toccherai furtiva, e senza
più ben sapere chi siamo stati,
quando la lampada ci cadeva
a lato, e il letto si spostava
dal muro, e l’acqua non bastava:

così, se tutte le cose restano
su se stesse, come le colonne
contente di sopportare il peso,
di opporsi alla gravità che incombe
dalle architravi, dai porticati,

o i ciottoli sparsi sulle piazze,
i coppi scuri, incatramati
tra i lucernai aperti ai venti,
i fori da cui la luce piove,

e poi le griglie sui marciapiedi
impassibili a prender nota
della curvatura delle gambe,
del lino che corre tra le cosce,

come tutta stia nel suo contegno,
e accolga indifferente la luce
nella presa rapace dell’ombra
che cade sulle facciate calme,
sull’intonaco che irride i nostri
sforzi di camminare eretti,
restare fermi a un davanzale,

o i tentativi di imitare
la fissità del cielo, di statue
mute che si tengono i gomiti
nell’aria domenicale, oppure
sotto due fila di luci in fuga
posano gli occhi su una tazza
con i polsi, le labbra serrate,
le dita richiuse con fermezza:

anche così si annega l’ansia
nello specchio marmoreo di un tavolo,
anche quando la vita si piega
tra le imposte, sull’impiantito
verde, o dietro la ghigliottina
che separa il tempo dalla stanza:

nemmeno così sarà redento
questo agitarsi, questo andare
esposti a ogni buffo di vento,

o nella luce artificiale
di un neon credere che la notte
non sia notte, il verde non scintilli
immune da ogni nostro sguardo,
le merci esposte nel silenzio
di una vetrina siano lo sfondo
del nostro tranquillo sovrastare,
del dominio saldo della specie:

e quando nelle insegne luminose
che ritmano i grani dell’asfalto
hai visto il segno certo, il richiamo
ribattuto da ogni nostro passo,

o in una vetrina, controluce
hai scorto sul ripiano le pose,
le ossa spigolose del suo corpo
segnarti senza più un riparo,

come il giorno che stesa sul letto
ti sei girata, tranquilla, e hai visto
le grate che spartivano il vetro,
e alzandoti di scatto hai detto
che non sarebbe successo niente,
che tutto era ancora intatto
e mentre ti guardavo in silenzio
sei sparita nell’angolo cieco:

allora ho visto che nulla torna,
che la fragilità ci insidia
dall’interno, dentro le giunture,
s’insinua nelle vene, riveste
la piega opaca dei discorsi,

allora, chiamandoti in disparte
a fianco del letto avrei atteso,
la pelle a toccare il marmo freddo,
che tutto fosse tornato a posto,
il braccio nascosto tra le gambe,
la luce sulle mie cosce nude,
la mano a coprirti il pube:

*
Su Absoluteville altre poesie

*

da: La divisione della gioia, Transeuropa, Massa, 2010

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21 Commenti

  1. senza mai urlare, senza mai cedere all’esasperazione dei toni questo libro narra una storia d’amore, di due solitudini che si incontrano senza mai potersi contenere completamente l’un l’altra. E i luoghi (ho linkato al nome di Italo un suo pezzo splendido sui luoghi, non a caso), tanto più anonimi o desolati – una stanza scarna, o intravista in rari oggetti – la citazione di Hopper nella quarta di copertina è illuminante – una strada statale dove si procede monadici e quasi attutiti dal paesaggio immemore come dalla coltre dei nostri pensieri, il luogo stesso desiderato, corruttibile e tuttavia anche ancora misterioso, del corpo di chi si ama, sono protagonisti insieme ad un sentimento che racchiude tutto e che sta sempre un po’ più in là – forse oltre quei due punti, segno sintattico che chiude alcuni componimenti. Allora La divisione della gioia, oltre che il rimando all’esperienza fortissima e tragica di Ian Curtis e dei Joy Division (sui quali se Italo ci dicesse qualcosa sarei molto felice), è proprio ciò che per essere ha bisogno di scindersi: sapere che non ti sarò mai del tutto accanto; sapere che in te è riposta l’altra parte del mio coraggio.

  2. Lieto del buon andamento dei commenti, felice di aver visto giusto… bravo Italo e grazie a Francesca. franco

  3. Ho apprezzato molto questa raccolta. Un libro che rimane, in un anno ricco di cose importanti, per la poesia. Bella anche la copertina del libro.

  4. Comunque se I Joy division scelsero quel nome (dopo Warsaw, se non sbaglio) è perché si rifecero a qualcosa di ancora precedente (cui nel primo commento non ho fatto riferimento, in effetti, che la prima cosa sono loro. chiamarli cosa, poi. va beh).

  5. caro italo
    ti confermo qui
    l’apprezzamento che ti avevo fatto via mail.
    in italia si scrivono tante cose interessanti. peccato che i libri siano considerati ormai solo un affare privato di chi li scrive.

  6. grazie a tutti per l’attenzione,
    @francesca: touching from a distance! di due, noi, ian, tu, debbie, annik, voi, Ka-Tzetnik 135633

  7. “così, se tutte le cose restano
    su se stesse, come le colonne”

    trovo notevole questo discorso sulla dialettica tra fusione e singolarità (detto fuor di critichese: è uno di quegli affondi della vita che m’hanno sempre spezzato), in una lingua in cui passa la luce chiara di una emozione diffusa ma non esposta, non smagata da enfasi egotica, ‘rispettosa’ d’essere stata condivisa e fragilissima

    lo penso da un po’ di tempo ormai, questo sta diventando un poeta inevitabile

    sono molto contenta

    un saluto caro,
    r

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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