Una piccola notizia diversa dalle altre

di Leonardo Palmisano

La notizia è che una collaboratrice del Corriere della Sera, Paola Caruso, è in sciopero della fame da due giorni per ragioni che riguardano il suo rapporto di lavoro con la direzione del quotidiano.
A me pare che questa notizia sia un po’ diversa dalle altre e mi sforzerò di dimostrare perché.
Il Corriere della Sera è uno dei principali quotidiani italiani. Sulle sue colonne trovano posto articoli nei quali si discute di politica, di economia, di spettacolo e talvolta di etica del lavoro. Si parla, naturalmente, anche di precariato, evidenziando le ripercussioni sociali presenti e future di questo fenomeno contemporaneo.
Ora, uno dei collaboratori precari (assunti con contratti co.co.co) del Corriere della Sera, in seguito a quella che – a torto o a ragione – reputa un’ingiustizia subita, decide di attuare lo sciopero della fame.
La prima domanda che mi viene in mente è «Come darebbe questa notizia il Corriere della Sera?»
Il precario di cui il giornale dovrebbe raccontare la storia in questo caso lavora per il giornale stesso. Non c’è, quindi, una sorta di cortocircuito tra la posizione che il Corriere assume di solito nei confronti di determinate questioni, prendendo posizione, e i comportamenti che lo stesso quotidiano attua al proprio interno, nei riguardi dei propri collaboratori?
Per chiarire meglio questo punto, ricorro a un esempio.
Se un operaio della Fiat facesse lo sciopero della fame per protesta contro la propria azienda, questo non implicherebbe un cambiamento di giudizio sulla qualità delle automobili: la Croma manterrebbe le proprie caratteristiche, e così la Multipla. Ma “il prodotto” di un giornale sono gli articoli, le idee, la serietà e la coerenza con la propria linea editoriale. Quale autorevolezza può avere un giornalista del Corriere della Sera nel discutere di precariato e di mercato del lavoro, con i toni che assume di solito in queste circostanze, quando uno dei suoi colleghi è in sciopero della fame per questioni relative al suo rapporto col giornale?
So bene che questa domanda può avere tante e diverse risposte, tutte legittime, a seconda che si voglia guardare questa vicenda con gli occhi di chi non può che accettare le regole del mercato o di chi si prefigge di cambiarle e di renderle più eque (e in questa categoria mi pare rientrino anche gli intellettuali che scrivono per il Corriere). Quello che a me interessa, come ho premesso, è il fatto che questo – non un qualsiasi altro – sciopero della fame possa introdurre questo interrogativo.
C’è però un altro aspetto “originale” in questa storia, ed è quello che riguarda la sua rappresentatività.
Paola Caruso – di nuovo, a prescindere dai suoi torti e dalle sue ragioni – è oggi il volto di una generazione di professionisti delle lettere e della cultura che, in questo Paese, vive in una condizione vicina allo schiavismo, soggetta alle regole di una meritocrazia debole sovrastata da una legge della casualità del tutto imperscrutabile, e che si sente vittima – perché lo è – di un’ingiustizia sociale che pare invincibile.
Certo, a me piacerebbe che a portare in primo piano questo problema fossero migliaia di persone consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri e pronte ad assediare palazzo Chigi, palazzo Grazioli, Montecitorio o palazzo Madama, invece che una giornalista precaria del Corriere della Sera – così come immagino sarebbe piaciuto a Martin Luther King che decine di migliaia di cittadini americani rivendicassero davanti alla Casa Bianca i diritti delle persone di colore senza che Rosa Parks fosse costretta a farsi arrestare.
Ma così non è.
In questi anni si sono scritti e si scrivono centinaia di articoli per analizzare e sezionare la condizione dei lavoratori precari nel nostro Paese. Nessuno che proponga un’azione, un’iniziativa collettiva, come potrebbe essere, ad esempio, uno sciopero permanente dei precari (che, in pratica, tenuto conto degli stipendi da fame che prendono, si tradurrebbe in qualche piatto di spaghetti aglio e olio al posto di un paio di pizze, e nella richiesta di un aiuto aggiuntivo a genitori che continuano a ripetere “Ma perché non fate niente? Che vi abbiamo mandati a fare all’università?” e che probabilmente preferirebbero mantenere i propri figli per un altro mese piuttosto che integrare le loro buste paga per non si sa quanti altri anni).
Fermarsi tutti, contarsi e provare a contare, potrebbe forse servire a qualcosa. Quanto meno renderebbe non più necessario uno sciopero della fame che finora ha suscitato le solite forme (spesso scomposte ed esibite) di solidarietà e di dissenso – che non mi pare aiutino a pagare l’affitto o difendere la propria dignità.
Invece di stare tutti a chiederci dove sia la ragione e il torto in questa vicenda specifica, invece di improvvisarci economisti psicologi rivoluzionari e uomini di mondo, troveremmo il tempo per leggere l’articolo 36 della nostra Costituzione, per interrogarci sul suo senso, e magari per accorgerci, qualora dovessimo trovarlo ancora attuale, che, se restiamo ai fatti, i conti non tornano.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

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13 Commenti

  1. I giornali non parlano di se stessi. Al massimo, in periodi di forte conflittualità fra singoli editori, delle vicende interne di un giornale parla un giornale concorrente e antagonista.

    Ma se questo è vero – e se il problema è il reclutamento della forza lavoro, che origina forme di lavoro dipendente «attenuate» se non addirittura mascherate – come possiamo non domandarci che legame ci sia fra i rapporti di forza interni ai giornali, le relazioni sindacali e la qualità della nostra informazione?
    Sono sicura che esaminando la situazione dei diritti dei lavoratori all’interno dei giornali – e lo dico senza alcun riferimento al caso di Paola, sul quale mantengo alcune perplessità – ci sarebbero più chiare molte dinamiche.

    Sono sicura che capiremmo che la pluralità delle testate non ha a che vedere con ciò che chiamiamo pluralismo.

    Sono sicura che invece di stigmatizzare gli scioperi dei giornalisti come strumenti obsoleti e vetusti nei confronti dei quali un trentenne-tipo, ovvero un precario, esprime volentieri il suo disprezzo da sfruttato anti-garantiti proponendo una rivoluzionaria lotta di tipo 2.0 («diffondete più giornali, invece di privare per un giorno la gente dell’informazione»), potremmo comprendere che – altroché – l’articolo 36, il lavoro, i diritti, l’uguaglianza di opportunità non sono temi generici.

  2. «Nessuno che proponga un’azione, un’iniziativa collettiva, come potrebbe essere, ad esempio, uno sciopero permanente dei precari», scrive Leonardo Palmisano.
    Vero.
    Sacrosanto.
    Le uniche iniziative apparentemente collettive (ma, in termini di incisività politica, secondo me tragicamente solipsistiche) sono le petizioni, gli appelli, le raccolte di firme, i bannerini tematici su Facebook.

    Viralizziamo, e andiamo a letto serebi.
    Anche per oggi ho partecipato.
    Oh, che bella democrazia.

  3. condivido pienamente Palmisano: trovare forme di lotta “collettive” è l’unica via per uscire da questa palude che sta affondando tutta una, e forse più di una, generazione

  4. Le considerazioni di Palmisano sono purtroppo fondatissime. Aggiungerei una cosa che mi colpisce in questo caso, come in altri recenti, ed è la forma di lotta. Se ci si pensa, lo sciopero della fame ( come del resto l’arrampicarsi in cima a una gru) non appartiene alle forme di lotta tipicamente sindacali, ma proviene, prima che i radicali lo inflazionassero un po’ negli anni passati, da quelle realtà concentrazionarie e autoritarie, nelle quali all’individuo o anche al collettivo è lasciata solo la possibilità dell’autolesionismo per rappresentarsi socialmente. Mi sembra un sintomo inquietante per lo stato della nostra democrazia, perlomeno di quella sindacale.

  5. Bari, 15 novembre
    Voglio dare tutta la mia solidarietà alla collega del Corriere. Io ho lasciato il mio giornale perché non volevo trasferirmi in una città dove non avevo nessuna intenzione di andare. Ero un articolo uno, il massimo per i giornalisti, ma non c’è stato verso di ottenere né un 2 o un 36, niente, la proprietà (caltagironesca) non ha sentito ragioni. Ero una redattrice ordinaria, avevo un buono stipendio, ho avuto una liquidazione che ho speso tutta in contributi e in sei anni e mezzo, da quando mi sono dimessa, ho avuto solo due mesi, diconsi due, di sostituzione estiva e qualche altra inezia…avrei guadagnato di più con l’elemosina. E il sindacato, e l’ordine? Il primo mi ha detto che non era un ufficio di collocamento il secondo che cambiassi mestiere. In sostanza, avendo oltre 50 anni, sono a casa di mia madre (purtroppo papà non c’è più da aprile) e basta, sto a casa. E poi tutti pensano che non voglia lavorare…assurdo no? Naturalmente alle varie domande non ottengo risposta e non scrivo da un piccolo centro…

  6. @Federica:
    la butto là. Ma se i precari scioperassero, chi scenderebbe poi in piazza a difenderli? Chi li assicurerebbe di non essere mandati a casa il giorno dopo. Esiste per caso un sindacato, o qualcosa di simile che li tuteli? Il precariato è una condizione trasversale a molti ambiti, non è come dire sciopero dei metalmeccanici. Ci sono tanti precari quante sono le categorie. Forse, prima di tutto ci vorrebbe la solidarietà di chi un lavoro fisso ce l’ha. Ci vorrebbe che queste persone iniziassero a solidarizzare con loro. Il problema dei precari è che spesso sono soli, per questo devono ricorrere a forme di protesta individuali.

  7. Simone,
    hai ragione, ci vorrebbe la solidarietà di chi ha un lavoro fisso e magari anche quella di qualcuno che ha visibilità e seguito.
    Ma COMUNQUE ci vorrebbe prima di tutto un’azione da parte nostra, altrimenti non ci sarebbe nulla con cui essere solidali.
    Secondo me il vero problema è che siamo tutti troppo “concettosi” e “distinguosi”. Calcoliamo, immaginiamo, ci facciamo le pulci e finiamo sempre, fatalmente, col convincerci di non poter fare nulla. Il nostro primo problema non è la mancanza di leggi ma sono le varie forme di rassegnazione alle quali siamo giunti, più o meno consapevolmente.
    Forse dovremmo imparare dagli immigrati clandestini:
    http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2010/09/30/news/la_rivolta_delle_braccia_clandestine-7575594/
    La cosa che mi ha più impressionato (piacevolmente) quando ho visto i servizi in televisione riguardanti il loro sciopero è l’allegria che avevano. Per loro quello era un giorno di festa, a prescindere dai risultati. Sapevano che l’indomani sarebbero tornati a lavorare per 20 euro, ma almeno per un giorno erano riusciti a esistere come gruppo, dimostrando di poter fermare tutto.
    Io non so che cosa accadrebbe se TUTTI i precari della cultura scioperassero per due settimane (o per un mese!). Ma immagino 1) che gli effetti si vedrebbero eccome; 2) che gli intellettuali e i politici che da anni si fanno belli parlando dei precari si troverebbero a dover scegliere davvero e finalmente da che parte stare. E poi, prendi il lato positivo dell’essere precario: se non hai un vero lavoro non puoi perderlo.
    Magari mi sbaglio. Ma quest’idea è l’unica cosa che ho. Perché le domande, infine, sono sempre le stesse: che altro potremmo fare? e se non ci scuote lo sciopero della fame di uno di noi, o il suicidio di un ricercatore universitario (http://groups.google.com/group/uniper/browse_thread/thread/d6243a22610f4019?pli=1) che cosa mai ci scuoterà?
    Io mi sono rotto le scatole di leggere analisi puntigliose e invettive contro lo Stato! La cosa che davvero mi sembra innaturale è che la generazione più colta della storia d’Italia accetti il ripristino di costumi e regole schiaviste. E, ripeto, non cerco altre spiegazioni a questo fatto (perché c’è già una enciclopedia di articoli!). Chiedo solo di smetterla, per un giorno, di pensare a che cosa accadrebbe se facessimo questa o quest’altra cosa, per decidere di fare qualcosa. Tutti insieme. E poi vediamo.

  8. @Leonardo:
    certo che le azioni ci vogliono, e che probabilmente ci sarebbero dei settori che veramente verrebbero bloccati, ma per quanto? Il problema di certi settori è la sovrapproduzione di lavoratori, per questo auspicavo una solidarietà allargata. Faccio un esempio: se una serie di precari oggi scioperano e bloccano una redazione, domani probabilmente si vedranno sostituiti da un numero uguale di persone pronte ad accettare quelle condizioni pur di cominciare da qualche parte. Con questo non voglio dire che quello sciopero sia inutile, ma che è proprio un modello che va cambiato, e che per farlo c’è bisogno di una solidarietà allargata.

  9. @Simone
    Controesempio, pratico.
    Io e altre sei persone lavoriamo in un museo come mediatori culturali con contratti a termine di sei mesi in sei mesi, da quattro anni. Decidiamo di scioperare, insieme a tutti i precari d’Italia, per due settimane. Il mio datore di lavoro ha due possibilità: 1) cerca altre persone (che però deve istruire in mezza giornata e lanciare in sala senza sapere come lavorino); 2) offrirci seduta stante un contratto a tempo indeterminato.
    È a quel punto che, secondo me, si decide tutto. Perché se io e i miei sei colleghi accettiamo quella proposta non abbiamo risolto nulla. Se invece rispondiamo con una terza possibilità, allora forse c’è speranza: 3) noi riduciamo lo sciopero a una settimana, durante la quale avrai il tempo di sollecitare le istituzioni competenti, insieme a centinaia di altri datori di lavoro, affinché mettano a punto una legge che favorisca le assunzioni a tempo indeterminato e penalizzi chi ricorre ai contratti a termine. Se questa cosa non va in porto, tra un mese avrai un altro sciopero come questo. Ti conviene?
    Fai questo discorso su scala nazionale, e forse qualcosa si muove. Non lo fai, e stai certo che se oggi ti danno un euro a cartella come correttore di bozze e tu accetti. Domani te ne offriranno settanta, e tu accetterai. Dopodomani cinquanta, e accetterai. Tra una settimana quaranta, e accetterai ancora. Perché sarai solo, e saprai che c’è sempre qualcuno pronto ad accettare quello che tu rifiuti. (E so bene di che cosa sto parlando. Non sto dando i numeri.)

  10. Ok Leo, però questo funziona nei settori dove c’è un’alta specializzazione, come il tuo. Ricordiamoci che il precariato è esteso ovunque, per questo mi pare improbabile uno sciopero generalizzato. Certo che già cominciare per categorie sarebbe un primo passo, e infatti nel mondo della scuola sta già avvenendo.

  11. Eh, Simone, il mio settore è quello delle bozze, non quello dei musei. E hai ragione sulla questione “alta specializzazione”. Ma credo che il punto sia fare qualcosa in maniera seria e senza pensare solo al proprio interesse immediato. Poi, un esempio virtuoso (come quello che ho immaginato) potrebbe servire da apripista per altre iniziative simili. Ripeto: è solo un’idea. Ma almeno stiamo discutendo di che cosa fare. Non sarebbe bello riuscire a organizzare qualcosa entro le vacanze di Natale? In uno dei pochi periodi in cui la cultura incassa e finisce persino nei telegiornali? Se riuscissimo a fermare musei, librerie e case editrici saremmo già a un buon punto. Certo, non avremmo i soldi per fare i regali di Natale… A qualcosa dobbiamo pur rinunciare.

  12. @Leo:
    io nel mondo della cultura non ci sono nemmeno da precario, il mio precariato investe altri settori, che poco hanno a che vedere coi miei studi (e non sono certo l’unico). Sicuramente sarei solidale con la protesta, ed è vero che da qualche parte si dovrà pur cominciare.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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