l’adolescenza si addice ad Eleusi

di Chiara Valerio

Diceva infatti che non sarebbe più ritornata all’Olimpo odoroso/ E non avrebbe consentito che crescessero i frutti sulla terra,/ prima Di aver veduto coi suoi occhi la figlia dal bel volto. (Homeri Hymnis in Cererem 331-333). Desideriamo ciò che abbiamo davanti agli occhi. Perciò l’abbrivo del mito e del mistero di Kore, la fanciulla rapita da Ade e in parte restituita a Demetra, è il desiderio. Tutto comincia con un rapimento che, subito, cambia natura, sfuma, diventa un mercanteggiamento, poi una transizione, poi ancora, qualcosa che tiene in sé una doppia natura, un ciclo, una stagione, un’indicibilità e, in questo senso, un mistero. La “ragazza indicibile” poteva essere nominata ma non detta. Nel mistero non vi era, cioè, spazio per il logos apophantikos, ma soltanto per l’onoma. E, nel nome, aveva luogo qualcosa come un “toccare” e un “vedere”. La ragazza indicibile (Electa, 2010) è un libro composito di un testo, luminoso e breve, di Giorgio Agamben e di trentanove riproduzioni dei pastelli di Monica Ferrando. Sono immagini di nature morte, nature vive, nature interrotte da un sogno, nature umane. La ragazza indicibile è un saggio, in parole e figure, sull’iniziazione, sul limine, sul connubio tra filosofia e pittura a partire dal punto – dal momento – in cui il contenuto e la forma diventano indecidibili. La “ragazza indicibile” è questa soglia. Così come confonde e in determina la cesura tra la donna e la bambina, la vergine e la madre, così anche tra l’animale e l’umano e fra questo e il divino. Tutto dunque comincia da un rapimento e dagli occhi, che guardando, si appropriano del mondo, lo tratteggiano, lo nominano.

La tesi dialettica del testo di Agamben è, fuor di tautologia, che la vita deve essere vissuta come un’iniziazione non a un mistero ma alla vita stessa, perché l’uomo è un vivente che ha da essere iniziato alla sua stessa vita. Che si tratti di Lucio ne L’asino d’oro o di Isabel Archer in Ritratto di signora di James, il romanzo ci mette davanti a un mysterion, di cui la vita stessa è, nello stesso tempo, l’iniziatrice e il solo contenuto. Per dimostrare questa assenza di mistero, per frenare l’acribia interpretativa di eventuali e vari contenuti nascosti, Agamben parte dagli estremi di contenuto e forma, di donna e di vergine, di animale e divino e procede con una costruzione di singole entità la cui giustapposizione non si risolve in elenco, e che non dà né un dipolo né un dittico ma crea piuttosto una coppia di antipodi nel mezzo dei quali sta il mondo. (…) tra la figlia e la madre, tra la vergine e la donna, la “ragazza indicibile” lascia apparire una terza figura, che mette in questione tutto quello che attraverso di esse credono di sapere della fertilità e più in generale dell’uomo e della donna. Agamben si interessa di Kore, perché Kore è una figura di soglia, di frontiera, di connessione, prima di tutto tra l’infanzia e la riproduzione dell’infanzia – la vita è un’iniziazione alla vita stessa. E perché la sacertà di Kore rimane ambivalente tra sacralità e sanzione, separazione. Irrisolta, narrativa, adolescente e, in tal senso, potente. Può essere tutto quello che sembra e sembrare tutto quello che gli occhi vedono. Nominata ma non detta.

Ciò che gli iniziati facevano nella notte eleusina è sempre espresso col verbo “vedere” e “visione” è il termine che designa lo stadio supremo dell’iniziazione. I pastelli di Monica Ferrando, e le fonti antiche su Kore, che la stessa Ferrando ha curato, condividono la natura liminale del punto dimostrativo di Agamben. Se, in qualche misura, la filosofia ha accesso alla divinità e la pittura all’animalità, la loro commistione dà accesso a un umano separato e auto reggente, soglia, confine e dunque meraviglia di sé stesso. Simone Weil ha annotato nei suoi Quaderni, Il fondamento della mitologia è che l’universo è metafora di verità divine. La declinazione nelle parole di Agamben e nelle figure dai tratti indecidibili ma dai gesti imperiosi di Monica Ferrando, è che il fondamento della mitologia è che l’umano è metafora di verità divine, che l’umano è metafisica – la vita è un’iniziazione alla vita stessa. Metafora rappresentata e nominata. Né interpretata né detta. Kore, quando viene rapita nell’Ade, sta “giocando con le ragazzine di Oceano”. Che una ragazzina che gioca diventi la cifra perfetta dell’iniziazione suprema e della compiuta filosofia – sia, anzi, essa stessa iniziazione e pensiero e sia per questo indicibile – questo è il “mistero”.

G. Agamben e M. Ferrando, La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore [con riproduzioni dei pastelli di Monica Ferrando], Electa (2010), pp. 96, 22,00 eu.

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4 Commenti

  1. bella questa recensione, Chiara, nella quale ogni tanto diventi Agamben quasi insensibilmente. Agamben non l’ho mai trovato di chiarezza cristallina, ma sempre di grande fascino. Difficile comunque parlare del mistero, per definizione direi, tanto che l’étimo della parola sembra sia collegato a una radice indoeuropea “mu” col senso di chiudere, tipicamente le labbra, per non rivelare, non dire, appunto.

  2. La ragazza, madre, poeta, scrittrice diventa l’emblema della poesia e della storia. Questo articolo è molto bello, molto originale ovviamente trae dal libro; che è la sintesi della verità attuale. Bravi, si va sempre più in fondo.

    Scusate avevo corretto

  3. Il mito di Persafone, quando l’ho scoperto nell’infanzia, l’ho sempre trovato magnifico, misterioso, inquietante. Ormai racconto questa leggenda magnifica con la stessa emozione ai miei alunni.
    Tutto è bello in questo mito: il vincolo d’amore, di possessione tra la figlia e la madre, l’immagine del rapitore: è un simbolo tremendo della virginità strappata. Persefone nel prato ameno è trascinata nel regno di Hades.
    La virginità è iniziazione alla morte.
    Ora che sono donna, mi trovo nella pelle della madre. Risento il suo dolore, la sua corsa impazzita per trovare la figlia nel paesaggio magnifico della Sicilia.
    Il sorgente e il vulcano, geografia del mondo reale e mitico, fiamma e acqua, poesia dell’amore materno.
    La madre grida il suo dolore e il paesaggio bruccia o piange, risposta all’immensa perdita.
    La lettura di questo mito rivisitato da i pastelli di Monica Ferrando e del saggio di Agamben come la recensione di Chiara Valerio dà il sentimento di ritrovare una chiave per capire le stagioni della vità femminile.
    Incantamento.

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