il passato non è una terra straniera


di Sabina de Gregori

Il passato non è una terra straniera. Il passato riscalda, conforta, consola, è un pavimento di gomma su cui è più facile e più morbido cadere.

Come amava ricordare Goethe, non esiste futuro senza passato e le cose importanti che nascono nel presente non possono permettersi di tralasciare ciò che hanno ricevuto in eredità. Il mondo, la vita, le creazioni, persino le intuizioni geniali e innovative hanno bisogno di essere alimentate, anche inconsapevolmente, da quelle precedenti.

La Gioconda, o Madame Lisa come la chiamava Napoleone, ne è un esempio.

A partire dai pittori francesi come Jean-Baptiste Camille Corot – di cui Donna con una perla ne è un chiaro esempio – a scrittori come Jules Verne – che nel 1874 le dedica una commedia – la Monna Lisa ha assunto sempre più un ruolo di primo piano, divenendo tra artisti e letterati, uno dei soggetti più interpretati e riutilizzati.

Il primo a farlo chiaramente nel 1883 è stato Eugène Bataille durante l’Exposition des Arts Incohérents, dove rappresenta la Monna Lisa che fuma la pipa.

Da questo momento in poi gli artisti utilizzano il passato come un’arma a doppio taglio. Da un lato dimostrano l’“attaccamento” alle loro radici e alla loro formazione, dall’altro stravolgono i soggetti – divenuti ormai modelli – cercando nuove vie per oltrepassarli e distaccarsene. Kasimir Malevich nel 1913 incolla sulla tela un pezzo di giornale rappresentante la Gioconda con il petto e il volto segnati da una croce, e la scritta “eclissi parziale”.

Nel 1919 il dadaista Marcel Duchamp crea il famoso ritratto della Gioconda con i baffi, a cui aggiunge la sigla L.H.O.O.Q. (Elle a chaud a cul – Lei è eccitata).

Salvador Dalì nel 1954 si confronta con il ritratto di Leonardo e, sulle tracce di Duchamp, la rende simile a lui dipingendole i suoi tipici baffi all’insù e gli occhi sgranati.

Con Fernand Leger, la Gioconda diviene un volto come un altro, una piccola icona confusa tra oggetti di uso quotidiano come chiavi e temperini, accanto a figure geometriche.

Il 1958 è l’anno della Mona Lisa di Robert Rauschenberg che inserisce per sovrapposizione piccole immagini in bianco e nero della dama in un disegno composto, tra le altre cose, da fogli di giornale.

Con l’avvento della Pop Art sia Roy Lichtenstein nel 1962 che Andy Warhol nel 1963 si servono dell’immagine di Leonardo.

Il primo lo fa costruendo l’immagine con il suo personalissimo stile fumettistico, sostituendo il paesaggio sullo sfondo con un notturno su cui si stagliano silhouette di grattacieli; il secondo si serve dell’”icona” della gentildonna per ben due volte: il primo lavoro è composto da due primi piani della dama identici e accostati (da qui il nome Double Mona Lisa) in bianco e nero, l’effetto è quello del dagherrotipo, l’immagine sembra usurata dal tempo e i toni, eccessivamente scuri, non permettono la distinzione dei particolari. Il secondo è intitolato “Thirty are better than one”, su una tela di un metro per settanta vengono applicate in orizzontale, diagonale e capovolte, tinte di rosso, blu, giallo e nero molteplici immagini della Gioconda a formare un collage. Nella parte superiore, Warhol dichiara – “Se dipingo così è perché voglio essere una macchina e voglio farlo per ogni cosa”.

Gli anni della Popoular Art e l’utilizzo sempre più massiccio della tecnica della serigrafia, rendono l’arte infinitamente riproducibile e contribuiscono a creare una nuova idea di “opera”; il “pezzo unico” smette di avere il valore e il prestigio che l’aveva da sempre caratterizzato. In questo nuovo clima di mercato, le immagini più note e rappresentative della storia dell’arte vengono usate e stravolte, assumendo il ruolo di nuovi modelli.

Ogni artista nel corso della propria carriera, sente la necessità di confrontarsi e di intraprendere un dialogo con il passato. Anche Fernando Botero nel 1977 lavora sulla sua personale versione della Monna Lisa, creando – com’è prevedibile – un’opera in tutto e per tutto riconducibile al suo stile: la bella cortigiana appare ora con qualche chilo di troppo, la testa sproporzionata rispetto al corpo e le piccole mani serrate in grembo.

Nel 1983 c’è ancora un altro artista che nella ricerca stilistica e iconografica del proprio carattere si serve di Madame Lisa, è Jean Michel Basquiat. La posa della dama rimane quella tradizionale, ma il volto e l’intero quadro sono stravolti da tratti violenti e colori sgargianti.

Gli artisti moderni e contemporanei che hanno sentito il “richiamo” della tradizione sono numerosi, da Bacon a Picasso fino ad arrivare a Robin Gunningham, meglio conosciuto come Banksy. Lo street artist inglese ha lasciato sui muri delle città di tutto il mondo diverse varianti dell’immagine leonardiana, raffigurata mentre imbraccia un bazooka, con un mitra in mano e il mirino sulla fronte, che si alza la veste mostrando le natiche e, in ultimo, con il volto sostituito da quello di uno smile.

L’ultima ed emblematica versione che fa Banksy della Monna Lisa nel 2008, è uno stencil abbozzato e grezzo, in cui la vernice nera – che cola nella parte inferiore del busto – le dà un tono decadente e triste. Gli occhi della donna sono coperti da una fascia orizzontale su cui è scritto: STOP USING MY IMAGE.

Banksy è uno dei primi street artist che ha mostrato la volontà di misurarsi con l’arte e con i modelli classici, in più di un’occasione sono emerse le sue indubbie capacità tecniche e pittoriche, dimostrando che il suo percorso può in qualche modo essere accostato a quello dei veri artisti definendo – e interrogandosi – sul complesso rapporto tra arte contemporanea e istituzione museale. Il suo ruolo è per certi versi all’avanguardia, perché anticipa e risolve il problema di come l’artista si deve porre nei confronti del museo e dei filtri che l’istituzione pone nei confronti dell’arte fino a farla “svanire” nell’inutile attesa di una consacrazione ufficiale.
Travestito con soprabito, cappello e barba finta, entra nel museo e tira fuori dallo zaino il suo quadro per poi appenderlo alla parete: un gesto rivoluzionario che potenzia ancora di più la carica espressiva delle sue opere. Seguirà questa procedura anche con la Monna Lisa, celebre rimane l’incursione fatta al Louvre nel 2004 in cui, travestito da pensionato e ripreso dalle telecamere di sorveglianza, si è intrufolato e ha appeso la sua versione della Gioconda con lo smile al posto del volto accanto ai grandi capolavori di tutti i tempi.

L’arte di Banksy entra così nell’istituzione museale, per offrire alcune varianti ai percorsi più prevedibili.

Analizzando gli ultimi due secoli di storia dell’arte e tenendo in considerazione le diverse correnti artistiche che si sono susseguite, appare chiaro come ogni artista abbia sentito la necessità di fare i conti con il passato e con la tradizione.

Bataille, Picasso, Magritte, Dalì, Duchamp e gli altri si sono comportati come chi ha avuto una madre ingombrante, presente, affettuosa e severa. Nell’arte, come nella vita, c’è un preciso momento in cui si cresce e si varca la soglia dell’età adulta e per farlo occorre comprendere a pieno il proprio passato, riviverlo con una diversa maturità, attraversarlo facendosi coraggio e finalmente liberarsene, portando con sé ciò che ha fatto la differenza. Non c’è via di fuga, non esistono scorciatoie.

Per rompere la tradizione – come la maggior parte di questi artisti ha poi fatto – è stato necessario che ognuno di loro la riformulasse con i propri mezzi, servendosi sì del proprio talento, coniugandolo però con gli strumenti che quella stessa tradizione gli aveva insegnato.

Le trasformazioni che ha subito la Monna Lisa sono state di volta in volta uno specchio della società contemporanea, che offriva indizi per comprendere la direzione verso la quale si stava muovendo il mondo e in alcuni casi intuirne la sorte.

Difficile è rendersi conto del cambiamento nel momento stesso in cui lo si vive. Banksy quando rappresenta la Monna Lisa con il bazooka, è cronologicamente l’ultimo interprete dell’icona cinquecentesca. I simboli e i significati originali vengono ancora una volta stravolti, l’immagine della femminilità, dell’eleganza e del mistero diventa la rappresentazione della violenza. L’immaginario collettivo a cui eravamo abituati perde di senso per assumerne uno nuovo. Dopo o contemporaneamente a Banksy ci saranno altri artisti, altri letterati, altri intellettuali che sovvertiranno le regole del passato per mostrarci nuovi mondi che forse non siamo ancora in grado di vedere e per ricordarci che il passato non è una terra straniera, per nessuno.

S. de Gregori, Bansky. Il terrorista dell’arte, Castelvecchi (2010), pp. 192, 25 eu.

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4 Commenti

  1. ciao a tutti,

    molto divertente questa carrellata di gioconde.

    e sicuramente dovrò consultare questo libro, anche perchè il “caso bansky” rimette in scena l’eterno conflitto tra artisti e istituzioni dedicate al mondo dell’arte. mi sembra cruciale, oggi, in uno scenario che tende più all’inclusione che all’esclusione, dove lo scenario è completamente saturo di oggetti e ancora più romanticamente di opere da osservare attentamente, capire chi o che cosa decide cosa è arte e cosa non lo è, e soprattutto quanto sia gradatamente sfumato il territorio che separa l’artista da l’istituzione artistica (dal museo in giù), e anzi proprio bansky ci fa notare come artisti e istituzioni per leggittimarsi lavorino di pari passo, non può esistere l’uno senza che esista anche l’altra – anche se i graffiti da cui proviene bansky erano appunto questo: il tentativo di sganciarsi una volta per tutte dal museo e dalle gallerie, una visione primitiva e anche qui romantica dell’arte tracciata sui muri delle stazioni e delle periferie più degradate.

    leggendo questo post, però, mi salgono in testa una serie di domande.

    davvero “il passato riscalda, conforta, consola, è un pavimento di gomma su cui è più facile e più morbido cadere”?

    voglio dire, questa interpretazione pacifica e pacificata del passato, direi in alcuni tratti eccessivamente gioiosa e illuminata, ci serve per capire da dove veniamo? non sarebbe più corretto metterla giù come andrè gide quando afferma che “il presente sarebbe pieno di futuri, se il passato non vi proiettasse già una storia”? cioè almeno leggere nei processi storici che ci precedono una torsione temporale e valoriale che ci allontana dal migliore dei mondi possibili?

    e anche: chi nobilitata questo gioco sulla tradizione: l’artista, l’istituzione artistica, lo spettatore?

    e poi: tutto questo gioco linguistico dell’arte sui simboli – in particolare qui su un simbolo della storia dell’arte – siamo così sicuri che porti a qualcosa? tutto questo accanirsi sul simbolo della gioconda non finirà per rafforzare e ingigantire la gioconda medesima? aveva ragione roland barthes quando affermava che “la migliore sovversione consiste forse nel distorcere i codici, anzichè nel distruggerli”? voglio dire, non è questa una delle spiegazioni per cui l’arte è nello stato in cui versa? perchè l’arte contemporanea (anche se è un problema che esula dall’arte e tocca tutti i campi dell’espressione umana, dalla letteratura in giù) non ci tocca più come avveniva in passato rischiando di diventare un linguaggio marginale? la spiegazione sta forse nel fatto che piuttosto che proporre una nuova visione delle cose per troppo tempo si è mimetizzata in codici altrui cercando di distruggerli dall’interno?

    e non vi sembra, detta in termini generali, che la questione dell’ironia postmoderna, su cui finalmente la letteratura ha cominciato a fare i conti, fortunatamente anche qui in italia, non abbia ancora per nulla intaccato il mondo dell’arte?

    quanto tempo dovremo ancora aspettare prima che un artista qualsiasi oltre a giocare – nel senso più alto del termine – con i simboli del passato, ci consegni una nuova “guernica”, un nuovo “orologi molli”, un nuovo “angelus novus”, un nuovo “pali blu”? (anche se, detto tra noi, dei capolavori farei volentieri a meno, sono le “visioni” ciò che mi interessano).

    giuseppe zucco

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