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MARIO MONICELLI “… con levità.” [ post in progress – comments off ]

Vicino al Colosseo… c’è Monti [ 2008 ] Mario Monicelli


 
Di cosa si tratta?
Mario Monicelli: E’ una cosa molto piccola, semplice. Accenni al volo di un rione di Roma. Il più antico, credo. Ho voluto prendere degli appunti, ma senza enfasi 1. Anzi, dandogli il tono che ha il rione, molto quotidiano, fatto di artigiani, botteghe, parecchie che non si conoscono però molto curiose, vie solitarie percorse da passanti modesti, barbieri, e poi tintori. Insomma, dando soprattutto un’immagine senza forte sottolineatura. L’importante è che si capisca che è un ritrattino fatto per accenni, senza approfondimenti.
[…]
Cosa ti piace del rione?
Mario Monicelli: Beh, questa realtà nascosta, piccola, dove ci sono delle verità veramente quotidane, le ottobrate che si fanno quando viene l’autunno, i banchetti all’aperto, le feste di paese, la processione. Quelle cose che si erano dimenticate, che appartenevano a un’Italia prima della guerra, direi. E’ rimasto, qui, qualcosa di sopravvissuto. E poi ci sono degli angoli nascosti, come alcuni giardini dietro le mura, in piccole vie tranquille, che sembrano orientali, con palme, bambù. Una cosa insolita, veramente strana. Ecco, ho cercato di dare qualche notizia di questi luoghi appartati. Molto a volo d’uccello, senza approfondire niente.

da “Vicino al Colosseo… c’è Monti”

 

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Mario Monicelli
Il mestiere del cinema
Donzelli 2009 [pag. 54]


 
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Mario Monicelli
L’arte della commedia
[ pag. 46 ]
Ed Dedalo 1986

 
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L’armata Brancaleone nacque da due cose: da tre paginette che Scarpelli buttò giù, un dialogo tra due contadini medievali che parlavano di donne; e da un film fallito, Donne e soldati (1955) di Lugi Malerba e Antonio Marchi, di cui vidi soltanto 150 metri che mi colpirono molto (fra l’altro c’era di mezzo anche Ferreri in quel film). L’ispirazione venne così: facciamo un film su un medioevo cialtrone, fatto di poveri, di ignoranti, di ferocia, di miseria, di fango, di freddo; insomma tutto l’opposto di quello che ci insegnano a scuola, Le Roman de la Rose, Re Artù, e altre leziosità.
Il titolo, L’armata Brancaleone, venne fuori prima del film: era un gruppo di sciagurati che attraversano un’Italia di orsi e di foreste, in un’impresa come la ricerca del Graal, però tutto a un livello miserabile; nacque come idea di immagini più che di un racconto, pensando soprattutto al personaggio di Gassman: uno sniffone stupido e coraggioso, generoso quanto incapace. Inventammo per lui delle avventure picaresche e un linguaggio tutto particolare, ripescato da Jacopone da Todi, dai dialetti attuali come il marchigiano, e con parole inventate. Un grande aiuto visuale lo diede Gherardi; tutto il film fu girato nelle campagne del viterbese, che sono rimaste straordinariamente immuni dal turismo. Venne fuori un film che ritengo non abbia dei modelli precedenti nella storia del cinema, perché non esistevano punti di riferimento: le fonti come Gregorio VII o Fra’ Salimbene, erano scarsissime, non si sapeva come nell’anno mille andassero vestiti, come salutassero, come mangiassero, nessuno ne sa niente. Fu tutto inventato.
Il produttore non ebbe nessuna fiducia; al punto che Cecchi Gori mi costrinse a partecipare economicamente all’esito del film e fu forse l’unica volta che lo feci. Quando lui lesse la sceneggiatura e vide i personaggi che parlavano in quella maniera, disse “E’ impossibile! Se non parlano italiano, fateli parlare in romanesco, che cos’è questo linguaggio? Siete dei pazzi! Il film poi costa troppo!” Insomma decisi di entrare nel film con una percentuale sugli incassi; e mi portai via il triplo di quello che era fissato nel mio primo contratto: fu un successo strepitoso. Il ritornello famoso, “Branca, Branca, Branca, Leòn, Leòn, Leòn” lo sento ancora ogni tanto cantato dai ragazzi. E’ forse il film a cui sono più affezionato, perché trovo che sia il mio più originale.
Da L’armata Brancaleone, secondo me, è venuta fuori tutta l’ondata dei film medievali, compresi quelli peggiori e quelli pornografici; e penso che anche il Decameron Pasolini non l’avrebbe fatto se non ci fosse stato Brancaleone, con quell’aria di prendere la storia così com’era. Noi girammo la corte bizantina in una basilica diroccata ad esempio. Anche nel linguaggio, in quel napoletano riscritto sul Boccaccio, c’era qualcosa che Pasolini aveva ripreso da Brancaleone, Cecchi Gori e gli altri produttori volevano che facessi subito un seguito del film, ma io rifiutai perché sono contrario a fare i seguiti ( de I soliti ignoti non lo volli fare e fu Loy a dirigerlo). Meglio del prototipo non riescono mai. Infatti Brancaleone alle crociate che poi girammo vari anni dopo, piacque alle gente, la divertì, però tutti dicevano: “certo non è come L’armata Brancaleone!” Ed era vero, mancava ormai la sorpresa.

Mario Monicelli
L’arte della commedia
[ pag. 80 ]
Ed Dedalo 1986

 

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Intervista a Pupi Avati
di Arianna Finos
La Repubblica, Mercoledì 1 dicembre 2010

Il più grande dolore professionale?
Quando scoprì che a Cannes Boccaccio 70, film a episodi girato con De Sica, Fellini e Visconti, sarebbe stato proiettato mutilato del suo episodio. Andò al Festival deciso a entrare nella cabina a ostacolare la proiezione. Un gesto clamoroso che non gli assomigliava, non era un uomo scomposto. Fu il più grande dei suoi dolori essere escluso perché regista di commedia. Il tempo gli ha restituito il suo posto tra i grandi del nostro cinema.

 


Mario Monicelli
L’arte della commedia
[ pag. 73, 74 ]
Ed Dedalo 1986

 
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Datosiché gli artisti sono nelle opere e almanaccando e supponendo delle biografie loro si finisce sempre a volar in tondo come corvi, ho voluto ricordare Monicelli con un personaggio di un suo film: Zeffirino Abacuc, che era quel Capannelle [Carlo Pisacane] che si consola con pasta e ceci del colpo fallito de I soliti ignoti, e, nel finale smembrarsi mesto di questa altra armata Brancaleone di sconfitti, fugge dal cantiere, dove Gassmann si rassegna a farsi assumere, gridandogli:
 

Capannelle: Ma guarda dove son capitato!… fra i lavoratori… Beppe mo dove vai? Dove Vai?… Beppe… ma ti fanno lavorare sai?!?

 


 
Abacuc, quest’ometto vecchissimo e arguto, avido e furbo:
 

Abacuc: Cristianucci, cristianucci! Facemo modo di giugnere presto alla rocca! Vecchio sono e tutto acciaccato [coff! coff!] e bisognoso, di buono dormire, buono mangiare, buono bevere e niente facere.

 
Si tira dietro il suo baule a rotelle che gli fa da casa come il guscio di una lumaca e chiuso in esso, diventato baule volante, forse arriverà in un Paradiso di pagnocche di pane e latte e vino e cacio, che fa leccare le labbra all’Ostrogoto al solo a nominarli, ed è il più piccolo dei piccoli personaggi, dei poco interessanti, degli insignificanti, che vivono nelle storie piccole dei film di Monicelli.

 

UOMINI, Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

Non ci sono uomini poco interessanti.
Sono i loro destini storie di pianeti.
Tutto, nel singolo destino, è singolare
e non c’è un altro pianeta che gli somigli.
Ma se qualcuno è vissuto inosservato
– e di questo si è fatto un amico –
tra gli uomini è stato interessante
anche col suo passare inosservato.
Ognuno
ha un mondo misterioso
tutto suo.
E in esso c’è l’attimo più bello
e l’ora più angosciosa,
solo che noi non ne sappiamo niente.
Se muore un uomo,
con lui muore
la sua prima neve, il primo bacio,
la sua prima battaglia…
E tutto egli porta via con sé.
Restano, è vero, libri e ponti.
Macchine e quadri. E’ destino
che molto rimanga, eppure
qualcosa se ne va lo stesso.
E’ la legge di un gioco spietato:
non muoiono uomini,
ma interi mondi.
Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori.
Ma, in sostanza, che ne sapevamo di loro?
Che ne sappiamo di fratelli e amici?
Che ne sappiamo del nostro unico amore?
E anche di nostro padre, sapendo tutto,
noi non sappiamo niente.
Gli uomini passano…
Ed è impossibile richiamarli in vita.
Impossibile risuscitare i loro mondi misteriosi.
Ma ogni volta desidero ancora
gridare
per questa irrevocabilità.

 

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NOTE
  1. Da scolpire sulle scogliere.

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,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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