La vita oscena, la lingua arsa

di Marco Rovelli
“Solo la prova asfissiante, impossibile dona all’autore il mezzo di spingere lontano la sua visione, di andare incontro all’attesa del lettore stanco dei limiti angusti imposti dalle convenzioni. Come si può perdere tempo su libri alla cui creazione l’autore non sia stato manifestamente costretto?”. Così Georges Bataille nel 1957. Ho pensato a questo, leggendo “La vita oscena” di Aldo Nove. Un libro estremo, nel senso pieno e forte del termine, dove è l’estremità del senso a compiersi, rovesciandosi nell’oscena oscurità dell’insensato. Aldo Nove espone in questo breve romanzo – e tanto più breve quanto più intenso – il “trascendentale” delle sue differenti scritture precedenti, la loro condizione di possibilità: ovvero il suo porsi all’altezza della morte. E’ un’autobiografia adolescenziale, che parte dal suo vissuto, e un romanzo di formazione: dalla morte dei genitori agli attraversamenti dei territori ossessivi-compulsivi del sesso e della droga, territori dove si cerca e si trova lo spossessamento da sé, e dove “io non è più di me”. E’ una storia dove il protagonista, per prendere congedo dai fantasmi dei suoi lutti, deve prendere congedo da sé, fino in fondo, fino all’abiezione, farsi cosa senza coscienza, un oggetto senziente e vibrante, reticolo di nervi e sensazioni, “un cubo di fuoco senza finestre”. Consegnarsi al mutismo dell’indifferenza. Dirsi addio. “Prima che non ci fosse che silenzio io compivo diciassette anni e il mio unico pensiero era quello di morire il più presto possibile”: l’impossibile serietà dei diciassette anni, come per Rimbaud. La cocaina, allora, un’overdose di cocaina come aveva fatto Trakl per morire (la natura imitativa di ogni desiderio, anche questo ricorre in questa storia). Ma la morte si prolunga in un’oscena via crucis per appartamenti dove si incontrano prostituti e prostitute, etero, gay, casalinghe, mistress sadomaso, trans. Una morte estenuata. E in quell’addio infinito messo in scena, al fondo del fondo, inattesa, l’immagine-limite, la Visione finale che libera: finalmente tutto è compiuto, è una nuova nascita, e l’inferno si rivela guarigione.
Ma ci sono molti altri snodi nel libro. Per esempio, il fatto che l’oscenità di cui racconta Aldo Nove è diventata l’oscenità della società intera, senza resti, installata al suo cuore, ovvero nel consumo di massa, nella mercificazione assoluta: e stavolta è una morte–in-vita, che si scambia per vita e invece è morte. La merce appare come surrogato di una verità insostenibile, basandosi anch’essa sulla produzione del desiderio e sul consumo che rende cosa: “noi stessi cose tra cose”. Memorabile segno di questo cortocircuito l’episodio in cui il narratore si commuove alla vista di una bevanda, imitazione da discount della coca cola.
Per raccontare tutto questo, occorre una lingua a quell’altezza. Una lingua che si fa scarna nei luoghi separati (sacro, separazione): la rarefazione dell’aria delle vette fa percepire l’essenzialità delle parole, fuori dalla chiacchiera del quotidiano, così come nell’oscurità delle caverne una parola risuona diversamente, nella sua pienezza e verità. In situazioni estreme occorre precisione, aderire al rischio mortale senza scarti, pena soccombervi. La potenza del libro allora è la sua lingua secca, che schiocca: una lingua, letteralmente, arsa. Salvo poi d’un tratto, da quel rigore, e dagli interstizi della pagina bianca che fanno da cornice sacra al testo, sprigionano cateratte di parole, come se in un solo istante – osceno, fuori del tempo, sacro – si dovessero addensare tutte le verità raccolte nel corso del tempo.
(pubblicato su l’Unità, 5/12/2010)
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17 Commenti

  1. Ma non sarà questa una retorica del superlativo? E’ il problema di queste critiche generiche, che, siano al positivo o al negativo, non affrontano concreti problemi stilistici, né culturali, di gestione e di macchinazione della lingua e del pensiero, ma si librano subito all’iperuranio. Il sacro, l’osceno. “All’altezza della morte”, bùm. Nessuna parola umana lo è.
    Costui ci dice che il libro di Nove è straordinario, ma non ci spiega perché. L’esperienza vitale di limite, in sé, non vale a garantire che la scrittura che vi si costruisce sopra, o dentro, tocchi dei limiti. Ci dice che è scabra ed essenziale perché nell’aria delle vette ecc. ecc. Ma figuriamoci. (E poi, questo Nove non è quello che recentemente ha dedicato una raccolta di carmi alla Vergine Maria, in toni finto-ingenui alla Alfonso de’ Languori?)

  2. Chissà, magari lei ha ragione. Ho pubblicato il pezzo su facebook, in ogni caso, dove scrittori con nome ma anche cognome, e cognomi ben noti per dire, hanno apprezzato la prossimità e la specularità della recensione alla qualità scritturale del testo. Al minimo, questo significa che sono possibili altre interpretazioni rispetto alla sua. E che forse lei non dovrebbe vietarsi di “figurarsi” qualcosa di più.
    All’altezza della morte, in ogni caso, era corsivato, in quanto una citazione di una ricorsiva e tipica espressione di Bataille. Ma anche lui vendeva fumo, del resto mica aveva studiato critica letteraria. Per fortuna.

  3. Certissimo che sono possibili, non se la prenda così (tanto più che lei è forte dell’assenso di scrittori nominati e cognominati). Ho detto la mia opinione, che non cambia nemmeno sulla da lei citata autorità batailliana. Cordiali saluti.

  4. Era semplicemente una constatazione, AMA, che mi è venuto spontaneo fare, dal momento che quanto avevo scritto veniva attaccato secondo modalità opinabili. Era un modo per mostrarne l’opinabilità. Vogliamo parlare piuttosto del libro di Aldo Nove, che mi pare più interessante?

  5. no raga vi prego continuate a parlare di quel argomento dei cognomi perchè il libro di novi enaudi dev’essere tremendo e non vorrei che fu fatto scrivere per permettere a novi di continuare con quei suoi vizi. anche se daria bignardi effettivamente ha detto che è stupendo

  6. raga cmq sono d’accordo con il mio collega rotowash e anche con il grande marco rovelli infatti i cognomi in italia sono importanti e se si vede funziona tutto così, cioè a livello cognomi importanti, e quindi fabrizio non si deve permettere di offendere gente (con tale cognomi). oltretutto se pensiamo anche il grande novi non è solo stile libero ma è stile libero big, quindi anche lui va rispettato considerando che ormai è big (cioè non più nuova proposta).

  7. stile libero big??? giuro che credevo si trattasse di uno scherzo

    e poi il pomicione su e giù, e lo scambio di ricette, e la maria che passa di mano in mano, e tutto senza accademicheggiare… mioddio cosa non mi sto perdendo

  8. niky lismo ha lasciato da qualche parte un invito oracolare vertiginoso

    vedo che prende sempre più corpo giorno dopo giorno, post dopo post, scrittore con cognome ben noto dopo scrittore con cognome ben noto…

    ad maiorem gloriam linguinarum cum tonnibusque cipollis

  9. no, mi spiace, quella è un’altra ricetta, e poi io vengo dalla scuola di rotowash, non so se spieco

    comunque è tutto veramente fantastico, sono contento di essere capitato in questo trèd. spero solo che rovelli non ci lasci a bocca asciutta negandoci il piacere di aspirare il fumo di un cannone come quello che ha lasciato in giro col suo primo commento

  10. Non ho ancora letto il libro, ma sono contento che Aldo Nove sia tornato su quel periodo. Spero che gli abbia fatto bene, e sono certo che ha parlato di quell’epoca e quell’eta’ crudeli (non solo per lui) con la potenza e la chiarezza di cui e’ capace.

  11. care immondizie riunite ovvero rotowash, nonché fm gibril, la questione del cognome è questa: uno ci mette la faccia in quel che scrive (e non solo nel mettere il pollice), e si assume la responsabilità, diversamente dai pecoroni da tastiera che si credono leoni.
    Visto che si siete divertiti a impastricciare il tutto con le vostre tracce escrementizie impedendo qualsiasi discussione sul libro, chiudo i commenti.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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