Progressismo e sottocultura

di Luca Lenzini

“Dove sono stati per tutto questo tempo i progressisti?” La domanda posta da Massimiliano Panarari a p.122 di L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip (Einaudi) riguarda l’ultimo trentennio di storia patria, e merita attenzione.

Secondo l’autore, docente di “analisi del linguaggio politico” all’università, quel periodo ha visto il trionfale instaurarsi nel corpo sociale della sottocultura dell’intrattenimento e del gossip, funzionale all’“episteme della contemporaneità postmoderna” (p.9): diffusa in modo molecolare attraverso i media e coerente con il progetto reazionario del “pensiero unico neoliberale” ovvero del “fondamentalismo di mercato” (p.5), per Panarari essa ha saputo conquistare quegli ampi strati della popolazione che la sinistra non è stata più capace di coinvolgere, a partire dagli anni ottanta, e che perciò dell’ideologia neoliberista – con il suo corredo di individualismo, darwinismo sociale e primato assoluto dell’economia – hanno subito l’incontrastata egemonia.

Nel nostro paese, in questa prospettiva la data di svolta non è il 1989, bensì il più prosaico 1983: l’anno in cui, sulla rete privata Italia 1, andò in onda la trasmissione Drive In, a cui il libro dedica diverse pagine. Ora, si dirà che identificare in un programma televisivo il momento di una rottura epocale equivale a scambiare gli effetti con le cause (e per di più in chiave localistica); ma il libro di Panarari non è un saggio di storia contemporanea, quanto un pamphlet – lo dimostra con evidenza il linguaggio, fin troppo mimetico rispetto al gergo mediatico-modaiolo il cui background ideologico è sottoposto a critica – e, come tale, si muove per schemi polemici finalizzati a promuovere un dibattito, a provocare la riflessione su un tema che non è affatto di solo costume, ma tocca l’oggi e il futuro stesso della sinistra (non a caso nell’Epilogo è chiamata in causa direttamente l’attuale leadership del Partito democratico). Gli si possono concedere, quindi, alcune ruvide semplificazioni o approssimazioni, come il troppo rapido consuntivo delle vicende del Partito comunista italiano (e della cultura della sinistra italiana in genere); mentre assai più efficaci (e condivisibili) sono le parti dedicate all’analisi dei singoli programmi, da Striscia la notizia ad Amici e via dicendo, che costituiscono i bracci armati della vincente sottocultura. Del resto, non mancano i contributi in grado di confermare il quadro delineato da Panarari sul ruolo centrale giocato dai media nella storia recente del nostro paese (anzi forse ce ne sono fin troppi).
In base all’interpretazione proposta da L’egemonia sottoculturale, che mette in primo piano, come recita il risvolto editoriale, la “costruzione del nostro immaginario contemporaneo”, Drive In è la spia o il sintomo locale di un progetto globale, che fuori d’Italia prendeva piede negli anni di Reagan e Thatcher, ma che poi si distingue, da noi, per alcuni fenomeni specifici e porta infine a rovesciare il senso della egemonia gramsciana. Se quest’ultima, in quanto progetto politico, vedeva negli intellettuali i portatori di “un’ideologia liberatoria e di emancipazione che potesse innescare la rivoluzione, una visione con ambizioni altissime, universali, in grado di sgombrare le teste degli individui dalle ‘idee spontanee’, corrispondenti in realtà al software che vi era stato introdotto lungo i secoli e i decenni, e vi si era sedimentato e stratificato al punto da dare la sensazione che così andassero, da sempre, le cose” (p.16), ecco che con l’avvento della dilagante sottocultura la funzione degli intellettuali è “scaltramente recuperata e reinventata” (p.129) per fare di essi gli agenti di una “distrazione di massa” che veicola la visione essenzialmente cinica della società propria del Pensiero Unico, società in cui la disuguaglianza è appunto una di quelle cose che vanno così “da sempre” (e in realtà si amplifica a dismisura, a livello planetario). Non più emancipazione, ma adesione ai palinsesti del potere dominante, in una versione aggiornata (o “ironica”) del “panem et circenses” (p.68): la libertà è ormai solo quella del Mercato e del Consumo e l’emancipazione, semmai, consiste nel poter fruire dello spettacolo serale delle procaci “ragazze-fast food”, aspirare a un quarto d’ora da divo o più semplicemente poter irridere senza complessi coloro che hanno avuto una sorte peggiore della propria.
L’occhio di Panarari è rivolto agli intellettuali e agli operatori culturali che in questo rovesciamento hanno svolto un ruolo di primo piano, inaugurando una Modernità il cui luccichio fin dall’inizio è sotto il segno del trash. Finalmente distanti sia dai modelli tradizionali proposti dall’establishment conservatore (cattolico e pre-catodico), sia da quelli di una sinistra in cronico ritardo, ancorata alla cultura crocio-gramsciana e capace sì di amministrare città e regioni, ma non di padroneggiare in senso innovativo gli strumenti dei media, a cui la nuova stagione delle tv private apriva (in Italia) territori inesplorati, i prodotti della sottocultura che spiazza e rimpiazza la seriosa, noiosa e statalizzata cultura della società vetero-televisiva vengono confezionati da una “pattuglia” di “inventori (e pensatori) italiani di Tv” (p.59) la cui genealogia culturale è fatta risalire al Situazionismo (che ufficialmente nasce nel ’58, in quel d’Imperia, per poi svilupparsi soprattutto in Francia, ma non solo, intorno al Maggio). E qui il discorso – chiaramente esplicitato sin dalla Premessa eroicomica (pp.4-5) – si fa interessante e paradossale, perché se tali sono le origini dei nuovi “pensatori di Tv”, ci troviamo di fronte a un ambito politico e di pensiero dichiaratamente di sinistra e consapevolmente sovversivo (di colorazione anarchica), erede delle Avanguardie storiche, che diventa lo strumento di una restaurazione in piena regola.
Il legante di ordine teorico e concettuale tra i Situazionisti veri e propri e le loro propaggini post-moderne e peninsulari di fine secolo non è tuttavia l’oggetto di L’egemonia sottoculturale, che si concentra sull’operazione psicosociale dispiegatasi a partire dagli anni ottanta (a p.123 si parla di “guerra psichica”) e giunta a piena fioritura con le due cooperanti Fini, delle Ideologie e della Storia, motivi ipnotici il cui stretto rapporto con la manipolazione dei media è giustamente sottolineato da Panarari (p.127). Nel libro viene comunque evidenziato come il capitale di conoscenza critica sulla “società dello spettacolo” fornito dai padri ribelli sia messo a frutto dai brillanti successori nostrani per confezionare spettacoli “carnevaleschi” (p. 68) e parodie (p. 69) capaci di sedurre e vellicare i gusti del pubblico televisivo, usando spregiudicatamente la “bassa cultura” in ordigni mediatici che presuppongono lo sguardo disincantato del lucido manipolatore. In proposito è lecito avanzare qualche riserva: non tanto sulla frequentazione, da parte della “pattuglia”, dei testi dei Situazionisti storici, e nemmeno sulla spregiudicatezza dell’operazione, quanto sul fondamento storico-culturale dell’approccio “parodico” e “carnevalesco”, che appartiene a una tradizione di lunga durata, e quindi a una zona ben più ampia e collaudata della Modernità. E più in generale, è davvero così imprescindibile l’apporto dei Situazionisti per ribaltare il progetto di emancipazione che fu di Gramsci (e prima di lui, di numerosi altri), o appunto di ciò i professionisti della distrazione si sono da sempre occupati? Ma accettiamo senza ulteriori cautele il discorso di Panarari: chi sono, allora, gli scaltri e tralignanti eredi di Debord e Vaneigem?
Tralasciando soubrettes, divetti e entertainers di vario ordine e grado, i “pifferai magici al servizio dell’egemonia sottoculturale” (p.9) sono indicati da Panarari in alcune figure esemplari: Antonio Ricci, Carlo Freccero, Alfonso Signorini, tutti ideatori e promotori di trasmissioni e pubblicazioni di largo successo (naturalmente al servizio del “Cavaliere”: di chi altro?). Pare, per inciso, che qualcuno degli interessati si sia risentito, a leggere il libro: ma non si capisce perché, a ben vedere, essendo loro complessivamente accordato, nelle pagine dell’Egemonia sottoculturale, un’importanza e uno spessore culturale persino eccessivi, per chi ha lavorato esclusivamente di seconda o terza mano e sfruttato elaborazioni critiche di almeno trent’anni prima. Nondimeno, essi restano senz’altro personaggi assai significativi del mutamento e del crinale storico di cui si occupa il libro, e un ampio numero di esponenti della stessa generazione (ognuno ne conosce qualche dozzina, famosi o meno, assessori o meno) ha condiviso i redditizi sviluppi dell’“episteme della contemporaneità postmoderna”: non conta quindi il cocktail di disinvolte banalità e aggiornati luoghi comuni che i Freccero e i Ricci, nelle interviste o negli interventi in qualità di esperti della “comunicazione”, hanno dispensato e continuano a dispensare; contano, invece, l’operazione culturale e l’armamentario ideologico che ne costituisce (non senza dosi omeopatiche di Foucault, Deleuze o Baudrillard) il lievito fondante e pervasivo, capace di attrarre soprattutto i giovani (l’ampliamento costante del target in tal senso è strutturale nella società di massa, e gioca un ruolo decisivo). Conta il bilancio finale, per cui l’elemento “liberatorio” e il dominio, la finta trasgressione e la corruzione vanno a braccetto.
È a questo punto che si può tornare alla domanda citata all’inizio: “Dove sono stati per tutto questo tempo i progressisti?” Panarari risponde che la Sinistra non c’era e se c’era, dormiva (“ma non il sonno dei giusti”), oppure “condivideva responsabilità poco commendevoli” (p.123). Non molti anni fa, a chi avesse discusso di Sinistra e di Progressismo in termini così generici, senza distinguo e precise pezze d’appoggio, non sarebbero mancati aspri rimproveri: i tomi con le diatribe storiche e ideologiche sui due ambiti occupano, in effetti, intere biblioteche. Quelle biblioteche, però, sono state sommerse dai detriti del Crollo del Muro, e se un libro che sin dal titolo si richiama a Gramsci può identificare tout court Sinistra e Progressismo e allo stesso tempo sperare, a buon diritto, in un rinnovamento della cultura che renda ognuno “protagonista della propria esistenza secondo un sistema di valori che non si fondi sull’individualismo selvaggio e la dittatura del consumo” (p.130), è perché la rimozione è stata così vasta da seppellire qualsiasi alternativa, e da far sì che il presente rimodelli il passato a sua immagine e somiglianza. Proprio questo, anzi, rappresenta il vero successo di quel che Panarari chiama la “congiura” dei “conservatori” (pp.122-123), necessario risvolto dell’affermazione capillare del Pensiero Unico e della visione aziendalistica del mondo. Di nuovo, però, restiamo al tema, e mettiamo meglio a fuoco l’osservazione secondo cui la Sinistra Progressista (ovvero, “di governo” e “riformista”) ha condiviso con i propri avversari “responsabilità poco commendevoli”.
Il discorso, qui, sarebbe lungo e il catalogo assai ricco di titoli (vedi “liberalizzazioni”, “privatizzazioni”, “scuola e università”, “guerra umanitaria”…), e lo stesso Panarari non nasconde di essersi espresso in termini eufemistici. Non ha invece il rilievo che merita, nel libro, l’annotazione secondo cui si è data in Italia una “Bicamerale dell’immaginario televisivo” (p.93): una verità per nulla scontata né di ordine incidentale. Come non è certamente casuale né secondario che della pattuglia le cui gesta hanno allietato i nostri uggiosissimi anni (tra Balcani, Golfo, Cecenia, Twin Towers, Afghanistan, Gaza e tanti altri reality di consumo globale) non facessero parte i soli Freccero e Ricci, ma anche, come ricorda l’autore (p.59), Enrico Ghezzi e Marco Giusti, i numi tutelari della programmazione colta di Rai 3, “la rete più sperimentale” (ibidem) del bistrattato “servizio pubblico” (in quanto tale, almeno in Italia, rigorosamente lottizzato). Si noti bene: nel capitolo La controrivoluzione televisiva Panarari cita Il processo del lunedì (1980) di Aldo Biscardi come il programma che, appunto su quella rete, “allo scoccare del fatidico decennio (…) legittimava in maniera solenne (…) gli animal spirits del tifo calcistico” (pp.24-25). Vale qui ricordare che precisamente dal calcio ebbe inizio l’irresistibile pubblica ascesa di Silvio Berlusconi? Il passaggio è esemplare, in quanto fa da apripista a tutta una serie di analoghe operazioni, fondate sul principio così descritto da Panarari: “Stop a sensi di colpa superflui e fuori luogo, il Super-Ego è mio e me lo gestisco io, e quindi via libera alla visione di qualsiasi prodotto televisivo mi aggradi” (p.25). Il gergo è intenzionalmente “sessantottesco”, e infatti una delle tesi del libro è che “il neocapitalismo ha trasformato in pulsione irrefrenabile al consumo e in bisogno di affermazione (più o meno vitalistica) a ogni costo” per l’appunto “il nostro desiderio illimitato, sdoganato e celebrato dal Sessantotto” (p.126): dove, per inciso, l’interpretazione della cesura rappresentata da quel momento storico coincide con la versione (interessatamente parziale, ma non senza legittimazioni da sinistra) che ne viene data dal qualunquismo conservatore; ma il punto, in chiave mediatica, è che nella nuova edizione del Nazional-Popolare lo sdoganamento dell’“Arcitaliano” – nel senso precisato nel libro: del ragionier Fantozzi di Paolo Villaggio (p.25), indiscusso alfiere del trash –, poteva sfruttare la scia dei programmi di larghissima audience del monopolio televisivo per aggiungervi (decisivamente) il format processuale, sbracato-pluralista, destinato a straordinarie fortune negli anni successivi.
Questo è tuttavia soltanto un lato della medaglia, in quanto la sperimentazione della Sinistra Televisiva non si è mossa su un solo terreno: mentre con Biscardi si puntava al bersaglio grosso, inseguendo miti e passioni di larghissimo consumo, l’altro filone che caratterizza la produzione di Rai 3 è quello colto-ironico che, oltre a patrocinare la “satira”, ha la sua espressione più efficace e giustamente famosa in Blob (1989): programma che, scrive Panarari, “si avvale direttamente della tecnica debordiana del détournement, ossia del recupero di materiali culturali e del loro reindirizzamento verso un fine differente da quello di partenza” (p.59). Infatti Blob (titolo di un film di dozzinale fantascienza del ’58, sottotitolo Il fluido mortale) riassume in sé, come un manifesto o forse, più propriamente, come un’allegoria, il duplice sperimentalismo di Rai 3: la melassa invadente (la “bassa cultura”) trattata con ironia, e l’ironia condannata a convivere per sempre con la melassa, che infine tutto – alto e basso, sotto e sopra, kitsch e cult – senza scampo avvolge e travolge. Ed anche qui, all’operazione arride il successo: in pochi anni lo “share” del Terzo canale Rai passa dal due al dieci per cento. Sono gli anni (1987-1994) della direzione di Angelo Guglielmi, personalità per nulla assimilabile – lui proveniente dalle fila del Gruppo 63 e della cosiddetta Neoavanguardia – alle grigie eminenze del sottogoverno o dell’ingessato giornalismo che prima avevano occupato le poltrone dirigenziali della televisione di stato (durante la sua direzione sono prodotti Quelli che il calcio, La TV delle ragazze, Avanzi, Samarcanda, Blob, Telefono giallo, Mi manda Lubrano, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura). Che nel libro di Panarari non se ne parli, stupisce assai e fa pensare che lo strapotere del trash e l’annesso primato spettacolare delle reti private abbiano finito per mettere in ombra, nella prospettiva del critico, il ruolo e il progetto di una parte tutt’altro che trascurabile della Sinistra erede del partito di Gramsci. Il fatto che quella Sinistra si presentasse (e tuttora si presenti) attraverso un canale pubblico e ufficialmente appaltato all’Opposizione va letto in stretto parallelo con il vittorioso affermarsi della “congiura” sul versante delle tv commerciali, il cui appeal pseudo-emancipante era molto più funzionale al “nuovo ordine” fondamental-liberista – o meglio “neoliberalista”, secondo l’importante correzione di Luciano Gallino, p.5 – ormai diventato ideologia di massa: la dialettica che s’instaura tra i due poli tende infatti alla legittimazione reciproca, ma alla parte “statale” tocca la carta perdente proprio perché situata nel blocco conservatore, connotato nel senso della “vecchia politica”. Dir questo non significa, però, equiparare semplicisticamente l’operazione culturale tentata dalla Sinistra al “colpo di stato perfetto, soft e postmoderno” (p.4) dell’ideologia trionfante, né sottovalutarne l’importanza, quanto piuttosto rimarcarne i limiti, le complicità e le debolezze costitutive.
La sinistra non dormiva: guardava la televisione. L’enfasi esclusiva posta da Panarari sui mass-media ripete la centralità e insieme riflette specularmente, in chiave critica, l’appiattimento del discorso (non solo teorico ma fattuale) del riformismo post-comunista e (per l’appunto) progressista su forme e contenuti della “modernizzazione”. All’esclusività dell’attenzione rivolta ai media qui corrispondono zone sempre più vaste di rimozione, alla cui riuscita contribuisce non poco l’entusiasmo dei neofiti che cercano una sanzione pubblica del proprio disincantato superamento delle arcaiche, deprimenti ideologie del Secolo Breve: l’identificazione del fronte dei mass-media come l’unico decisivo consente, d’altronde, di saldare la vecchia concezione “dall’alto” della politica (intesa come lotta per il Potere) con i nuovi strumenti di manipolazione e mistificazione della sfera pubblica, in una spirale di auto-accecamento che toglie il terreno sotto i piedi a una vera pratica riformista. Così mentre la società cambiava in profondo, mentre il lavoro si trasformava e con esso le forme dello sfruttamento, mentre la democrazia italiana assumeva tratti per un verso sudamericani (vedi l’origine argentina della P2), e per un altro inseguiva confusamente la caricatura del modello statunitense, la sinistra non trovava di meglio che farsi complice preterintenzionale dei propri avversari. Neanche il fenomeno che nell’Egemonia sottoculturale è visto come proprio dell’ambito televisivo, l’opinionismo, è stato infatti un’invenzione dei congiurati di destra, bensì uno dei prodotti di punta del Progressismo: la patria dei “fast thinkers” (per sfruttare la citazione di Panarari da Pierre Bourdieu), in altre parole degli “intellettuali produttori di idee precotte e confezionate, da consumare velocemente come in un fast food” (p.116), non sono soltanto i salotti televisivi; anzi essi, con la loro mimica del conflitto, sono il corrispettivo “animato” di quanto viene quotidianamente offerto (e sempre più “gridato”) sulla stampa. Anche in questo la Sinistra ha svolto una funzione di aggiornamento a cui solo in un secondo tempo la Destra italiana, attardatasi a lungo su moduli legati a vecchi schemi di comportamento, ha finito per adeguarsi.
Opinionismo, intrattenimento, gossip e quant’altro non sono, del resto, fenomeni locali, né recenti. Nonostante nel suo libro il contesto globale e la circostanza storica in cui tutto ciò si colloca sia indicato a chiare lettere in apertura – cioè il momento di “sbarazzarsi (da parte dell’‘establishment’ obbediente alle ‘élite’ e alle ‘superclassi’) del vecchio compromesso socialdemocratico e dello Stato sociale”, p.5 – l’ottica prevalentemente nazionale di Panarari finisce per evitare alcune scomode domande: per esempio, in quanti paesi le varie sinistre hanno saputo proporre un uso dei media, e in particolare della televisione, tale da opporsi validamente a quella che egli chiama Sottocultura? Quante emittenti si sono dimostrate capaci di fornire un’informazione non conforme agli standards e ai format spacciati su scala globale? E non è forse vero che le eccezioni positive si sono date per lo più nell’ambito dei “servizi pubblici” meno condizionati dalle partitocrazie? Quest’ultima osservazione dovrebbe pur indurre a qualche ragionamento, e magari a ripensare la nozione stessa di Sottocultura (si ricordi la Teoria della Halbbildung di Adorno, 1959, di recente riproposta da Giancarla Sola per Il Melangolo). A farla breve: poco c’entra, in questa storia, il sonno della ragione che genera mostri evocato da Panarari (p.123), e c’entra molto di più, invece, l’assenza di un progetto riguardante la società nel suo complesso, così come la mancata riflessione su cosa esattamente sia la democrazia nell’era dei media: di qui, l’adesione ai modelli dell’avversario con l’ingenua pretesa di volgerli a proprio vantaggio, insediandosi negli spazi concessi e accettando come naturali la pratica della spartizione e del compromesso. Alla caduta del Muro, era già troppo tardi: il Pensiero Unico non aveva rivali e nemmeno veri interlocutori, ma solo cauti produttori di sfumature, lodatori del tempo andato e ilari liquidatori dell’eredità di qualche secolo di lotte per l’uguaglianza. Non sarà unicamente per questo che la deriva del liberismo ha finito per travolgere i progressisti, ma parlare di “congiura” – espressione usata da Panarari con giudiziosa riserva – può essere un modo per non approfondire le ragioni e i micidiali sviluppi di un fallimento tanto vasto quanto pericoloso, che ha riaperto le porte alle forme più arcaiche di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Non è davvero il caso, pertanto, di farsi prendere in giro dai nipotini dei Situazionisti e dai loro trucchi da apprendisti stregoni, assai meno originali di quanto dica la leggenda. Una volta riconosciute le complicità come i meriti (quando ci sono: per esempio il giornalismo d’inchiesta di ambito Rai, che ha una sua solida tradizione), sarebbe più istruttivo rivisitare gli scenari storici offerti dal secolo trascorso, traguardando dal crinale attuale gli altri crinali della nostra eternamente incompiuta, feroce e tragica modernizzazione. Omettendo l’apporto del nostranissimo Fascismo, tra l’epoca di “Politecnico” (“nata nel 1945 e defunta nel giro di poco, nel 1947, lasciando un segno tuttavia rilevante”, scrive en passant Panarari, p.18) e quella di Drive in, un passaggio cruciale è negli anni sessanta, l’epoca del primo Neocapitalismo: è lì che alcuni dei nodi ideologici di fondo sul tema dello “sviluppo”, sulla “industria culturale” e sul riformismo affiorano e s’intrecciano in modo esemplare tra equivoci, intuizioni e contraddizioni tuttora irrisolte (chi oggi volesse farsi un’idea tanto delle qualità che dei limiti del progetto progressista italiano in materia di Comunicazione, può farlo rileggendo Apocalittici e integrati di Umberto Eco, 1965, assai più influente per la Sinistra in questione che non Debord). A quegli anni risale anche un’altra ambigua e interessata rimozione, operata da sinistra mediante la citazione a titolo di aristocratico e nichilista rifiuto del progresso: quella del pensiero critico e di tutta una straordinaria tradizione di pensatori che aveva vissuto l’avvento della società di massa e visto dispiegarsi la potenza dei media, tra l’Europa degli anni trenta e gli Usa dei quaranta e oltre; non solo la Scuola di Francoforte ma Simmel, Kracauer, Benjamin, Arendt, Anders e numerosi altri, molti dei quali allenati a lavorare in équipe, soggetti di un lavoro collettivo che si sviluppò a stretto contatto di insigni istituzioni capitalistiche e all’interno di non meno famose imprese statunitensi. Se si prova a pensare a qualcosa di analogo, in Italia, bisogna fare i casi di esperienze tra loro diverse, ma entrambe ignorate o addirittura ostracizzate dalla sinistra ufficiale: il lavoro intellettuale svolto nell’ambito di “Comunità” e della Olivetti, e quello del gruppo di “Quaderni Rossi” di Renato Panzieri. In questo senso, va preso sul serio l’appello conclusivo del libro di Panarari a riabilitare la funzione degli intellettuali (“coloro la cui sola esistenza desta la reazione rabbiosa e la bava alla bocca del neopopulismo che si è pesantissimamente insinuato nel corpo sociale nazionale”, p.128); ma non basta ora, come non è mai bastato, saper fare “in maniera capace e creativa il (…) lavoro di inventori di architetture simboliche alternative a quelle vittoriose e tracotanti dell’egemonia sottoculturale” (p.130). Più che alle architetture (e alle “narrazioni” tanto di moda), è alle fondamenta che si deve lavorare, nei luoghi visibili e invisibili dove i segni della contraddizione vanno conosciuti e interpretati ex novo, lontano dalle abbaglianti locations del potere e dai suoi giullari di destra e sinistra, così simili tra loro.

[pubblicato su “Lo straniero”, N. 126-127, dicembre-gennaio 2010/11]

Print Friendly, PDF & Email

21 Commenti

  1. Il saggio di Lenzini è articolato e denso. Provo a mettere in risalto alcuni passaggi.

    “e infatti una delle tesi del libro è che “il neocapitalismo ha trasformato in pulsione irrefrenabile al consumo e in bisogno di affermazione (più o meno vitalistica) a ogni costo” per l’appunto “il nostro desiderio illimitato, sdoganato e celebrato dal Sessantotto” (p.126): dove, per inciso, l’interpretazione della cesura rappresentata da quel momento storico coincide con la versione (interessatamente parziale, ma non senza legittimazioni da sinistra) che ne viene data dal qualunquismo conservatore;”

    E’ un po’ triste ritrovare in forma scorciata e semplificata una riflessione che è stata fatta in modo sistematico una decina di anni fa in un libro fondamentale di cui in Italia non si è mai parlato. Mi riferisco a “Le nouvel esprit du capitalisme” di Boltanski e Chiapello (Gallimard 1999).
    Naturalmente il discorso di Boltasnki e Chiapello non può essere avvicinato a quello tendenzialmente unidimensionale di Panarari. Il discorso di Panarari, infatti, come sottolinea bene Lenzini, è incentrato sulla cultura dei media, che certo è uno snodo importante, e in Italia più che altrove, ma ciò esclude un’analisi del contesto più ampio, sociale ed economico, nel quale il cosidetto “pensiero unico” emerge, trovando una sua manifestazione anche televisiva.

    Boltanski e Chiapello hanno iniziato il loro libro evidenziando il rapporto inverso tra crescita economica generale e tasso dei profitti delle imprese. Man mano che si indeboliva, sulla scia della crisi economica dei primi anni Settanta, la posizione dei lavoratori salariati (flessibilità, disoccupazione, salari stagnanti), le imprese crescevano, fondendosi tra loro, e moltiplicavano i loro profitti già a partire dagli anni Novanta. Questa dinamica reale che, ha rimodellato i rapporti di forza tra lavoro e capitale tutto a vantaggio di quest’ultimo, si è accompagnata all’articolazione e alla diffusione di una nuova ideologia favorevole al capitalismo, che ha tratto anche da certi – e solo certi – filoni del pensiero sessantottesco e della sinistra radicale alcuni suoi concetti e valori.

    Perché ho voluto citare nuovamente “Il nuovo spirito del capitalismo”? Per mostrare come, almeno nell’ambito intellettuale italiano, molte occasioni importanti di analisi della realtà vengono lasciate cadere. Col risultato che poi si debba ripartire ogni volta in modo molto settoriale: l’egemonia culturale della destra attraverso la TV italiana. E si lascia ancora una volta in ombra la questione sociale e di classe, che dovrebbe invece essere punto di riferimento costante di ogni discorso critico di sinistra.

  2. @inglès
    «E si lascia ancora una volta in ombra la questione sociale e di classe, che dovrebbe invece essere punto di riferimento costante di ogni discorso critico di sinistra».
    Va bene, epperò qualche novità storica rispetto al metodo di analisi classico si dovrà pure registrarla, come la capacità dal capitale, ormai super-potenziata di utilizzare i media come produttori di consenso, al punto che oggi possiamo parlare delle nostre come di democrazie mediatiche, dove ogni spazio pubblico si è trasferito in televisione.
    Se la polis da tempo non usa più lo spazio fisico dell’urbs per incontrarsi discutere comunicare, ma solo lo spazio virtuale della televisione dove cultura e politica si confondono in un unico pastone, occorrerà prenderne atto e ammettere che, innanzi tutto, la sinistra ha sottovalutato il mezzo e non si è curata di lottare adeguatamente per il suo controllo.
    Non solo: la sinistra, cioè il PCI, non si è curata (o non vi è riuscita) di elaborare un linguaggio televisivo che fosse popolare senza essere necessariamente sottocultura trashizzante, così, come viene rilevato nel pezzo di Lenzini, non si è curata di tenere fermi alcuni principi quando la botta dello tsunami del crollo del muro si è fatta travolgente: l’esempio più clamoroso è nel processo di precarizzazione della gioventù che inizia proprio coi governi di centro-sinistra.
    In somma, quello che sbrigativamente voglio dire è che l’analisi classica che parte dai dati di struttura per poi “discendere” ai dati di sovra-struttura forse non funziona più, Inglès, perché è da tempo che la cultura è ormai un dato strutturale, perché la “narrazione” è capace di tenere testa in modo molto efficace alla “realtà”, sconfiggendola.
    Il dato strutturale, anche se pienamente svelabile e sovente clamorosamente svelato, rimane sempre dietro le quinte, perché non c’è più nessuno interessato a vederlo e a utilizzarlo per organizzarsi politicamente o magari solo per cambiare idea politica.
    Eccetera (discorso tremendamente difficile da fare).
    In somma, se viene meno la percezione della realtà, difficile per qualsiasi “sinistra” sottrarsi alla tentazione di farsi a sua volta contro-narratrice (si veda il successo tutto mediatico di Vendola), senza però avere il tempo e la forza mediatica di far penetrare in profondità nella rete mentale delle società le proprie favole “de sinistra”.
    Questo mi pare accada ovunque, non solo in Italia (si veda la traiettoria di Obama).
    (“Poi disce che uno non crede più a niente”)

  3. non posso che essere d’accordo con andrea. mi sembra un esercizio in parte a vuoto concentrarsi sul sintomo della riconfigurazione ideologica se non si affronta la trasformazione socio-economica che ne costituisce il motore.
    tanto più che tutto il meccanismo illustrato da panarari mi sembra squisitamente gramsciano: l’egemonia in gramsci è soprattutto la capacità di un gruppo sociale di convincere gli altri gruppi che, nel momento in cui persegue i propri interessi, sta perseguendo anche i loro. in questo senso, il lavoro fatto dagli intellettuali che sviluppano i programmi della cosiddetta “sottocultura” non contraddicono affatto gramsci, anzi.
    ultimo punto: mi sembra proprio che l’utilizzo in questi termini di una parola come sottocultura (che dovrebbe definire non tanto una cultura più o meno “degradata” ma una cultura di nicchia, molto formalizzata, legata ad alcuni linguaggi, oggetti, testi etc. – per es.: la sottocultura hip-hop) sia il sintomo dello stesso crocianesimo di sinistra che il pamphlet critica oltre che dei limiti che qualunque discorso “da intellettuale” sconta se impostato in questo modo.

  4. @francesco: che ci sia determinazione tra struttura e sovrastruttura credo che nessuno osi nemmeno più sognarlo (sarebbe ormai una specie di sogno erotico ;-) e, per conto mio, è difficile già sostenere una logica per così dire delle ragioni profonde, per cui sotto la superficie di drive in trovo la realtà del neoliberismo.
    tuttavia, se proprio devo dare un ordine alle cose del mondo, e come essere umano-barra-cittadino ahimè mi sento in obbligo di farlo, non posso certo affidarmi ad un’equiparazione tra narrazioni mediatico-ideologiche e scelte/necessità politico-economiche.
    sono d’accordo con te che “la “narrazione” è capace di tenere testa in modo molto efficace alla “realtà”” ma la sconfigge solo se è l’azione di una realtà più forte.

  5. a tash,

    “Se la polis da tempo non usa più lo spazio fisico dell’urbs per incontrarsi discutere comunicare, ma solo lo spazio virtuale della televisione dove cultura e politica si confondono in un unico pastone, occorrerà prenderne atto e ammettere che, innanzi tutto, la sinistra ha sottovalutato il mezzo e non si è curata di lottare adeguatamente per il suo controllo.”
    D’accordo. E da questo punto di vista l’analisi di Panarari, pur arrivando in ritardo, dopo un documentario di un giovane come Gandini, ben venga.

    “l’analisi classica che parte dai dati di struttura per poi “discendere” ai dati di sovra-struttura forse non funziona più, Inglès, perché è da tempo che la cultura è ormai un dato strutturale, perché la “narrazione” è capace di tenere testa in modo molto efficace alla “realtà”, sconfiggendola.”
    Questo tash è vero almeno da Debord in poi, ossia dalla fine degli anni 50, per quanto riguarda il pensiero critico. Chi conosce Debord e tutto ciò che si riallaccia alla sua analisi, ha preso atto di questo.
    Io infatti ho citato un libro che si chiama: “Lo spirito del capitalismo”… “lo spirito”!, e che per ironia poteva anche chiamarsi l’anima del capitalismo, o vendolianamente la “narrazione” del capitalismo.
    Il problema, come dice anche Bortolotti, è che non si tratta di ristabilire nessi causali di tipo deterministico, si tratta di compiere un’analisi globale, che tenga assieme diversi livelli di realtà tra loro connessi.

    “In somma, se viene meno la percezione della realtà, difficile per qualsiasi “sinistra” sottrarsi alla tentazione di farsi a sua volta contro-narratrice”
    Oh tash! Ma la contro-narrazione non potrà che essere all’insegna di “Ritorno alla realtà”, che è una bella e dura narrazione da fare. Ma se non si fa questo non si fa nulla. O meglio, si fa letteratura. Ma quella la lascino pure a noi.

  6. Siami (pl) sicuri che la soluzione sia quella di riabilitare la funzione degli intellettuali? Non è che gli intellettuali sono pienamente complici del sistema della comunicazione, se non inventori delle sue più raffinate degenerazioni? Vi dice nulla il fatto che Angelo Guglielmi, che ha moltiplicato gli ascolti della rete tre come un altro i pani e i pesci, è stato di fatto il traghettatore del trash televisivo, molto di più di Carlo Freccero? Vi dice nulla la collaborazione del genio Aldo Busi con il genio Maria De Filippi? Io penso che gli innovatori si siano sforzati per fare programmi godibili dal pubblico che guarda la tv, che i migliori sono quelli che non hanno un atteggiamento pedagogico. In tanti, soprattutto a sinistra, pensano che la tv fabbrichi gli spettatori. Ma è un errore. E continua a essere un errore pensare che di là dallo schermo c’è un essere puro che se spegnesse la tv e ci ascoltasse…

    C’è poi la questione puramente elettorale. Da sinistra si continua a descrivere come idiota il popolo che guarda i peggiori programmi tv (secondo me più dannoso elettoralmente di di vienghi via con me non c’è nulla!). Ma questo popolo, che è fatto anche dai nostri amici e parenti – che, lo sappiamo come sono, un po’ coglioni ma in fondo in fondo buonagente – per chi deve votare? Non certo a sinistra, visto che la sinistra, attraverso i suoi intellettuali, lo disprezza.

  7. Vorrei tentare, “a latere”, una provocazione di questo tipo: non sarà che questi programmi trash, questa tv spazzatura, tanto disprezzata da certi intellettuali, è in realtà più “evolutiva” di quanto si crede? fateci caso: si tratta perlopiù di programmi dove si discute, ci si confronta, in contesti più o meno “costruiti”, ma in cui si esalta – fondamentalmente – la discussione, l’autocoscienza (dal femminismo degli anni ’70 a questioni “pubbliche” di coppia, di amore e sesso. Curiose traiettorie…). Si analizzano rapporti tra persone, emozioni e proiezioni, invidie e desideri. Siamo sicuri che molti intellettuali questo lo sappiano fare e, soprattutto, lo sappiano fare meglio? Siamo sicuri che nell’Italia di una volta, che ci appare tanto meno volgare ecc. questo si facesse? O non era forse l’Italia (anzi, l’italietta) in cui di molte cose non si parlava e neppure tra marito e moglie c’era troppa confidenza? Così, sto buttando lì…

  8. riprendendo i commenti sia di larry che di paolod, e chiarendo la mia posizione, direi che il punto non è tanto quello di riabilitare l’intellettuale, soprattutto oggi in cui il lavoro di tipo intellettuale è sempre più diffuso, e che sicuramente non si può proporre una figura di intellettuale pedagogo (se mai lo si è potuto fare).

    mi sembra che si tratti piuttosto di articolare ulteriormente la figura dell’intellettuale, in una dimensione di cognizione collettiva (facendo finta di sapere, per altro, questo cosa comporti ;-). perché se è vero che un pedagogismo esplicito è autistisco è anche vero che in quelle che potremmo chiamare le “trasmissioni trasgressive” c’è tutta una pedagogia implicita per la quale forse è giusto attrezzare e condividere gli strumenti adeguati.

  9. @andrea inglese
    il punto, lo snodo che metti in risalto con estrema chiarezza si chiama materialismo, e cioè la necessità (e l’attualità) di una concezione materialistica della storia e del reale: e quindi la necessità non propedeutica ma sostanziale di un’attrezzatura di quel tipo – cicli economici, ristrutturazioni del capitale, condizioni sociali, simboli merci e uomini: materialmente, la nuda vita, i rapporti di potere e con i poteri, pubblico e privato, insomma i cazzi amari, quelli veri, di ciascuno/a. proprio nella propagandata era della mediatizzazione, dei simulacri, dei frame. d’accordo sulla potenza di quei simulacri, sul loro potere derealizzante, sulla pervasività dei dispositivi simbolici e dunque sulla articolazione non deterministica tra ‘struttura e ‘sovrastruttura’ (che davvero sembrano relitti verbali un po’ patetici, a usarli così). mi sembrano discorsi acquisiti, che d’altra parte è giusto puntualizzare e articolare o aggiornare. eppure il buon timpanaro, caro a lenzini, scriveva già negli anni settanta della necessità di arretrare (di avanzare) in direzione di un ripristino del materialismo e della durezza potenzialmente rivoluzionaria o proprio sovversiva di quel metodo di conoscenza e di interpretazione globale della realtà. contro tutte le ambiguità e i sofismi e le fragilità di molti dei neo-marxismi più vulgati tra ’70 e ’80, che oggi – ma è un dato ricorrente, nel ‘900 – prendono le forme di un ‘crocianesimo di sinistra’ che è un modo un po’ elegante e snobbino di riferirsi a fazio, fazio and c., vieni via con me ecc (e dal lago sta puntando lì, secondo me senza troppi risultati). il punto è come ‘aggiornare’ senza snaturare, tradurre senza tradire (passami questa scipitaggine) quell’attrezzatura e quel metodo di conoscenza che è prima di tutto visione del mondo. come dici tu, una visione globale che sia fatta di connessioni tra saperi, metodi e ricerche, linguaggi e ‘azioni’ nei campi del sapere e della comunicazione. io penso a questa frontiera di un nuovo pensiero materialista ma credo che il presupposto per questo lavoro critico debba essere condiviso, e mi sembra che non sia così. è una battaglia che merita di essere combattuta, comunque. saluti, f.

  10. Non ho modo di argomentare più di così.
    Il discorso di Debord è diventato vero solo parecchio tempo dopo essere stato pronunciato.
    Negli anni Sessanta e Settanta le appartenenze erano molto forti, ognuna con la sua specifica narrazione, e la vincevano su tutto. Nel Paese esistevano almeno tre case ideologico-politiche, ciascuna con la sua visione del presente e con una sua promessa di futuro: la cattolica, la liberale, la social-comunista. Finché sono esistite non c’era Debord che tenesse. Solo con l’indebolirsi delle case ideologiche, operai e ceti medi si sono trovati più esposti al vento culturale neo-liberista, che, coadiuvato da un sostanziale aumento del tenore di vita collettivo, ha travolto tutto, insediandosi nelle menti ormai svuotate degli italiani.
    L’indebolirsi delle culture politiche è stato cruciale perché questo processo potesse compiersi.
    Ora, contrariamente a quello che voi potete pensare, io credo che la «realtà» (termine che non si può scrivere senza virgolette) sia irrecuperabile, cioè sia persa alla ragione politica e sono convinto che il processo di de-razionalizzazione delle masse sia per ora irreversibile.
    Dunque alla «sinistra» non resta che adeguarsi alle modalità narrative, ma per farlo deve dotarsi di mezzi di diffusione (meglio sarebbe dire di invasione delle menti) almeno pari a quelli di cui dispone il capitale e Berlusconi in particolare.
    Non bisogna dimenticare che basta il consenso di una minoranza, purché consistente, per governare con maggioranze blindate: è su quella minoranza di instupiditi che lavorano gli intellettuali al servizio della destra, non su tutto il paese.
    Vabbè.

  11. Buonasera a tutti. Mi permetto di inserirmi nel dibattito e di osservare, sottolineando come si tratti di un pamphlet (quindi senza pretese di sistematicità o di esaurire un tema così complesso, naturalmente) e non di un’opera di alto livello come quella di Boltanski e Chiapello (che cito nel libro), che il mio volume non si “limita” alla questione della cultura dei media in Italia, ma prende precisamente le mosse da quella riorganizzazione socioeconomica che, a partire dalla metà degli anni Settanta, porta all’affermazione in Occidente del neoliberismo (e della sua versione politica, il “neoliberalismo”). E che i funzionari simbolici del berlusconismo (categoria anch’essa che potremmo dibattere a lungo) sono, per l’appunto, a mio giudizio “intellettuali organici” della sottocultura, che adempiono al lavoro di orientamento delle masse che Gramsci ci ha magistralmente illustrato.
    Trattandosi di un pamphlet ho scelto di usare il termine “sottocultura” caricandolo di una valenza polemica (ben sapendo quale sia invece l’uso che se ne fa, per esempio, nell’ambito dei cultural studies).
    Luca Lenzini, che ha svolto un’analisi estremamente approfondita (e lo ringrazio davvero) del libro, ha però scelto una linea di lettura molto, se posso permettermi, “francofortese”-fortiniana, e a volte mi rimprovera di non aver sollevato aspetti che, invece, sono messi nero su bianco nelle pagine de “L’egemonia sottoculturale”

    grazie per il dibattito, e le prossime argomentazioni

    Massimiliano Panarari

    ps
    mi spiace essere arrivato in ritardo rispetto al “giovane Gandini”, ma essendo anch’io un precario, costretto a svolgere attività alimentari di vario genere per guadagnarmi la sopravvivenza, ho impiegato un po’ di tempo a scrivere il libro (lo dico per Andrea Inglese, che faceva questa notazione, naturalmente senza polemica, ma con simpatia:-)

  12. Grazie Panarari di essere intervenuto. Confrontarsi con l’autore direttamente succede di rado, e a volte neppure durante le presentazioni dei libri. Solo un chiarimento: il ritardo di una analisi della sottocultura televisiva, fatta in modo articolato, non è certo da imputarsi a lei, come singolo autore, ma alla cultura di sinistra – tra le quali mi ci metto anch’io – che per anni ha eluso o sottovalutato il problema.

    a fabio,
    a me sembra che sia assurdo imputare le dobolezza della sinistra (società civile, movimenti, partiti, intellettuali) a personaggi come Fazio, quasi che sulle loro spalle si dovesse reggere tutto l’impianto critico più agguerrito e intransigente, che è per altro assente NON solo in televisione, ma anche negli stessi partiti, intellettuali, ecc.
    Mi piacerebbe sentire che ne pensa anche Panarari su questo punto.

  13. ringrazio anch’io panarari per l’intervento e per la disponibilità al confronto. al di là della notazione di andrea sul ritardo cronico più che degli intellettuali proprio del dibattito italiano rispetto all’evoluzione dei media (per esempio stiamo discutendo di televisione mentre è nella sua piena espansione la rete ;-), riprendo ancora la questione – che capisco possa anche sembrare banale – del termine “sottocultura”.

    comprendo le necessità polemiche di un pamphlet ma di nuovo la polemica che si vuole giustamente destare dimostra, in questo senso, forse una debolezza analoga a quel ritardo cronico appena accennato e, a conti fatti, forse anche un pregiudizio. usando “sottocultura” in quei termini si ha l’impressione di avere a che fare con prodotti culturali mal fatti, schematici, deboli, poveri, quando invece sono stati in grado di convogliare per anni, e a discapito di molti altri prodotti, l’immaginario di amplissimi settori della popolazione che in essi, evidentemente, hanno trovato degli strumenti di senso adeguati alla propria esperienza corrente.

    @francesco: capisco quello che intendi ma non sono completamente d’accordo. continuo a pensare che la realtà in effetti più che irrecuperabile sia ineludibile e che buona parte dell’energia spesa in certe impostazioni politiche serva propria a ritardare il più possibile il confronto inevitabile.

  14. Grazie a voi per i commenti e la disponibilità.
    L’accezione che usa Bortolotti a me rimanda piuttosto l’idea di subcultura, perché in un Paese come l’Italia (che è l’oggetto del pamphlet) è in quei contesti, nel corso del Novecento (anche in virtù della dimensione politica che le connotava) che si sono sviluppati fermenti originali e antisistema – mentre le sottoculture mi pare siano maggiormente riconducibili al mondo anglosassone e al suo ex impero coloniale, o sbaglio?
    sono d’accordo – anche se pure qui varrebbe aprire una discussione su certi limiti del modello e del personaggio (a mio avviso, naturalmente) – sul fatto che non si può gettare la croce addosso a Fazio e, in particolare, a Vieni via con me, criticabilissimo ma che ha svolto una funzione importante in questo momento storico della nazione.
    sono d’accordissimo con Inglese, la sottovalutazione e il mancato confronto con la tv e i suoi linguaggi da parte della cultura della sinistra ha prodotto un ritardo tragico (e conseguenze politiche devastanti che sono sotto gli occhi di tutti). Proprio per questo credo dobbiamo starci e tornarci sopra, perché se il dibattito nel resto del pianete è innanzitutto sulla Rete – concordo – in Italia il condizionamento della tv rimane (ennesima testimonianza della nostra eccezionalità e anomalia) decisivo rispetto a quelle che un tempo si sarebbero chiamate le classi subordinate.

  15. Gherardo, a me leggendo il libro non è sembrato che l’uso di “sottoculturale” potesse prestarsi a quel genere di equivoco. Che avesse qualcosa di un po’ snob, se non classista, sotto sotto. Mi viene anzi da ipotizzare che sia invece un sentire del genere, piuttosto diffuso negli ambiti della sinistra, che abbia invece contribuito al ritardo di cui diceva anche Andrea. L’atteggiamento di chi credeva che bastasse sapere in modo assai generico che le tv berlusconiane erano mezzo di consenso politico, e inoltre (ma, in genere, già dopo) omologazione e distrazione di massa, senza pensare che fosse il caso di andare a vedere precisamente come sono fatte e funzionano. Insomma dare la dignità di un saggio einaudiano, per quanto pamphlettistico, a Maria de Filippi, Alfonso Signorini, Bruno Vespa, Striscia la notizia e altri, cercare di descrivere, mappare, analizzare concretamente. Poi sarà anche possibile e probabile che “egemonia sottoculturale” possa rendersi autonoma come espressione e colorirsi di quelle connotazioni che tu vedi latenti.
    Però aver trovato un titolo che in maniera evidentemente non neutra centra il bersaglio, fa parte di quel voler cominciare a dare un nome alle cose che abbiamo sotto gli occhi, che è secondo me un passo indispensabile. Lo stesso vale per il film di Gandini, o (forse un po’ meno) per quello di Zanardo. Dove, per me, le critiche, sentite spesso sul fatto che non mostrano niente che non si sapeva già, o che rappresentano solo una sorta di punta dell’iceberg, sottovalutano proprio questo aspetto. Bisognava che qualcuno creasse un punto di partenza, che qualcuno ci mostrasse quel che magari sapevamo già. Che la materia di questo sapere venisse rappresentato, oggettivato in un discorso articolato, messo così a quella distanza critica che pone le basi a ulteriori analisi e discussioni.
    Senza voler entrare in polemica con nessuno (il pezzo l’ho postato io, del resto), mi sembra anche inutile una divisione fra supposti “neo-crociani” e materialisti. E’ evidente che certe trasformazioni culturali avvengono sulla base delle trasformazioni materiali. Eppure una sovrastruttura così forte e onnipervasiva come quella creata dai mass media commerciali in Italia, è stata uno strumento potentissimo per spazzare via ogni resistenza a quei processi di ridistrubuzione iniqua delle ricchezze e delle opportunità che altrove, direi quasi ovunque, nello stesso quadro storico del neoliberismo, si è pure parzialmente conservata. Coscienze disinte, di classe (operaria, ma anche borghese) o altre (localistiche, di parrocchia), non sempre “simpatiche”, finite nell’unico calderone del “neo-sottoproletariato sottoculturale”. Vale soprattutto per i ragazzi, cloni defilippeschi dalle vie trendy di Milano ai quartieri popolari di Palermo e Napoli, la generazione cresciuta con le tv accese. In un altro thread in cui si parlava del capitale erotico, Andrea aveva detto qualcosa come: “queste ragazze vengono avviate alla prostituzione come i ragazzi della Prima Guerra Mondiale venivano mandati al macello per la patria. Magari poi cerco la citazione esatta, o lo fa l’autore stesso. A me sembrava comunque una frase capace di cogliere tutto il potere dell’ideologia, capace di impossessarsi dei corpi e della carne, di diventare biopolitica.

  16. nel caso non fosse già chiaro, ci tengo a sottolineare che non sto facendo nessun processo alle intenzioni della lettura di panarari e che la mia era più una (goffa?) lettura sintomale, basata cmq sul fatto che il prefisso “sotto-“, in un dibattito come questo, non è senza peccato – altrimenti è probabile che anche l’efficacia del titolo non sarebbe così forte.

    vado però diritto al punto dicendo che sono d’accordo con helena per quel che riguarda la sufficienza con cui spesso è stato trattato l’argomento “televisione” e sul fatto che molto probabilmente è proprio questo atteggiamento la causa dei ritardi che scontiamo. la mia impressione, tuttavia, è che, di nuovo, questa sottovalutazione non stia solo a sinistra ma sia ben distribuita nell’arco costituzionale e radicata in un pregiudizio molto italiano sui confini di ciò che è “cultura”. mi ricordo, per esempio, nel 2005, non nel 1955, un intervento di una giovane e “progressista” poetessa a romapoesia che affermava che l’espressione “cultura di massa” è una contraddizione in termini.

    in buona sostanza, menando il can per l’aia della scelta del termine, quello che volevo dire è che si considera spesso l’esplosione della televisione commerciale in italia come l’inizio di un periodo di estrema povertà culturale. ecco, negli ultimi tempi io sto iniziando a ribaltare (quasi) completamente questa che era anche una mia impressione.

    ci sarebbe molto da dire per circostanziare un “cambio di paradigma” del genere ma mi limito a segnalare che la società italiana, nei suoi termini più generali e non necessariamente solo nelle sue classi meno abbienti, è sempre stata non solo povera culturalmente ma anche diffidente verso la cultura ed invece la televisione, soprattutto privata e soprattutto nei primi anni, diciamo prima dell’imperare dei format, è riuscita a far circolare nelle case in cui a malapena entrava il calendario di frate indovino una quantità incredibile di prodotti culturali (dal cinema italiano, ai classici hollywoodiani, ai cartoni animati giapponesi, ai telefilm americani e inglesi, alla musica pop e ad un numero spropositato di spot pubblicitari).

    certo, questo input culturale massivo, a riprova del salto tra momento ideologico e momento socio-economico, non poteva trasformare una società arretrata in una società moderna e infatti, per farla breve, eccoci qua. tuttavia, non si può sottovalutare questo aspetto. (tanto più che, come è già stato sollevato, i programmi di ricci o altri avevano una loro valenza eversiva rispetto a idee di società e cultura molto conservatrici e ancora forti all’inizio degli anni ’80).

    concludo dicendo che, proprio in questo senso, quel “neo-sottoproletariato sottoculturale” che indica helena forse trova una sua matrice (ed una ragion d’essere ancora più forte) nell’interclassismo e nella concordia sociale democristiana e cattolica, che a conti fatti si basano su una visione e una costruzione della società di tipo premoderno (in cui, di nuovo, la cultura rimane nelle curie e nelle corti e non va in città) e che la televisione più che favorire non ha fatto altro che rinforzare in un gioco di conferme incrociate.

  17. gherardo, mi sembra tutto assai interessante e codivisibile. Sarebbe bello cercare di vedere più in concreto come nel tempo abbia poi prevalso il lato “regressivo” (e/o repressivo) dell’offerta televisiva. Non necessariamente solo per fattori quantitativi, ma anche per come possano avvenire i mutamenti di significato delle stesse proposte. Per esempio “Blob”. Il suo mixare frammenti di tv volgare e becera con frammenti di filmati documentari sugli avvennimenti più drammatici, all’inzio aveva un forte effetto di denuncia di entrambi gli aspetti. E soprattutto funzionava lo svelamento critico di come il mezzo mette tutto sullo stesso piano, attribuendovi la stessa realtà o irrealtà. Ma quando quella stessa formula si ripete per decenni, si perde ovviamente non solo l’effetto shock, ma quella stessa critica/denucia rischia di prendere una connotazione cinica, come di costatazione fatalistica che tutto è uguale quando arriva sul piccolo schermo, vittime di guerra o tette e culi. C’entrano, in qualche modo, quei meccanismi di svuotamento delle spinte d’avanguardia analizzati per l’arte e la letteratura da Peter Szondi e Peter Buerger, o anche la vecchia “dialettica dell’illuminismo”.
    Sarebbe poi interessante vedere come questo processo (non parlo di “Blob” che era solo un esempio) si sia accompagnato alla crisi socio-economica e politica. Oggi mi pare delineato uno scenario abbastanza evidentemente classista. I film di Hollywood, le serie televisive più sofisticate, persino i migliori cartoni animati giapponesi, vengono sempre più visti da chi fruisce della pay-tv, persone che usano anche la rete.
    Infine c’è il discorso della cultura “alta” che non conosce e/o riconosce quella “bassa” e viceversa. Qualcosa che, al tempo stesso, è molto radicato, ma temo anche articolato in modi differenti nelle diverse parti d’Italia, e forse un fattore di tensioni, risentimenti e spinte di divisione più di quanto si immagini.
    Certo è qualcosa di molto interclassista, sennò un Tremonti non avrebbe potuto dire che “con la cultura non si mangia”. Che non è solo un’affermazione grezza, ma soprattutto un’assurdità in bocca al ministro dell’economia di una nazione che possiede nel suo impareggiabile patrimonio d’arte e di cultura una delle ultime risorse di crescita (sfruttata, infatti, in modo da far piangere).

  18. sì, certamente, la questione andrebbe articolata ulteriormente.

    andrebbero probabilmente anche considerate le ricadute rispetto alle diverse specificità territoriali (il carisma acquisito dal nord, per esempio) oltre che il parallelo con la trasformazione e la crisi sociale ed economica del paese. e certamente un medium che in quegli anni proseguiva la politica della rai nazional-popolare (non dimentichiamo che la tv commerciale ha avuto successo con gli “scarti” della rai: mike, tortora, zanicchi, il quartetto cetra e così via) ha preso un taglio più spiccatamente classista, per esempio con l’arrivo delle pay-tv. allo stesso modo sono d’accordo che l’utilizzo diciamo avanzato della rete ha forti connotazioni di classe. sono tutti elementi di un discorso molto complesso che però forse potrebbe essere riposizionato su un nuovo baricentro, esterno alla tv o cmq al sistema dei media e rimesso nella società, probabilmente con alcune sorprese nelle conclusioni a cui si arriva.

    mi ricollego, con questo, anche al discorso del prevalere del lato regressivo. la mia impressione è la seguente: da una parte c’è stato un momento in cui i palinsesti hanno iniziato a normalizzarsi e a regredire nella loro offerta (e mi piace pensare che sia stato quando le sigle dei cartoni animati ha inizato a cantarle tutte cristina d’avena ;-); dall’altra c’è l’innegabile e strutturale vocazione totalitaria della televisione, come della radio ai suoi tempi, una vocazione con uno specifico taglio osceno, pornografico proprio, e a modo suo apocalittico.

    ora, una società più attrezzata culturalmente, ovvero con una collocazione più forte del valore “cultura” (in tutti i sensi) nei propri sistemi simbolici, per così dire, l’avrebbe gestita diversamente, sia la normalizzazione, sia lo sviluppo dei nuovi media, sia la spinta totalitaria. in italia, proprio per quella che mi sembra una diffidenza essenziale verso la cultura (pasolini la riportava al cattolicesimo post-tridentino ed è una delle poche analisi pasoliniane su cui concordo) non c’è stata la stessa capacità.

    in questo senso, la frase di tremonti è la perfetta esemplificazione di quello che intendevo. una debolezza culturale non solamente delle classi povere ma anzi ancora più perniciosa (e appunto autolesionistica) nelle classi ricche. quanti romanzi all’anno leggono gli industriali, i finanzieri, i professionisti italiani? quanti saggi? quante mostre visitano? quanti film, serie televisive, album si godono?

    iinfine: il caso blob secondo me è il perfetto esempio delle forze e contemporaneamente delle debolezze della televisione, ovvero l’osceno e la catastrofe.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta...

L’orso di Calarsi

di Claudio Conti
«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: