ENZO MARI [ I fermacarte, solidi e stanziali, impediscono alle idee di volarsene via. ]


    di Orsola Puecher
 
    I fermacarte sono per chi ha carte da fermare. E cose scritte o disegnate fermate sulle carte. Idee da fermare su carte. Ci possono essere anche idee senza carte, per carità. Idee volanti. Carte senza idee, invece, ne svolazzano molte.
    I 60 fermacarte eclettici di Enzo Mari trattengono e tratteggiano una percorso esistenziale di progetti. Nelle loro diverse estetiche apparentemente casuali, in materiali nobili e meno nobili, riciclati e rivisitati, raccontano una metodologia di lavoro e una filosofia di vita. Non sarebbero fermacarte senza carte, ma potrebbero essere nella loro concretezza di forme anche fermaporte, in caso, per dimore ventose con molte correnti d’aria. Oppure fermalenzuola stese ad asciugare sui prati, come si faceva ancora non molti anni fa in campagna.

    Sarà perché, in questo scorcio di dicembre&gennaio dal clima malinconico e silenzioso, ho molto a che fare con carte, quasi fossero persone che mi parlano e tornano vive, che comprendo così profondamente la rappresentazione attraverso di esse di tutta una vita. Molte carte: disegnate, scritte a mano, a macchina, a penna, a matita, a biro. Su quaderni e fogli sparsi. Minute di lettere di quando ancora se ne spedivano molte. Carta, busta e francobollo. Vergate con una calligrafia nervosa, da decriptare, sintetica a fregio ghirigoro ondulato per le doppie esse, le enne, le emme e le erre. Indistinta per le vocali. Che puoi pensarci per qualche ora, se quell’anno non sia magari un asso o addirittura un atto… o un erro… provando le diverse soluzioni nel significato delle frasi che si vanno riformando al senso. Frequenti le cancellature: quando si ha fortuna fatte con un solo tratto che lascia facilmente intravedere il cancellato, in altri casi con tale insistito accanimento, che ci vorrebbe un apparecchio per radiografie di tele di pittori antichi. E occorrono, quindi, fermacarte improvvisati, un sasso, un candeliere, una piccola scatola, un uovo d’alabastro per rammendare calze, che a mazzetti cataloghino provvisoriamente provenienze, epoche, argomenti.
    A volte, con fessure d’occhi zen e assenza/presenza sognante, le gatte Mizzi e Musetta, occhi di biglia turchina, fungono da fermacarte. I gatti amano starci accanto sui tavoli e fungere da fermacarte. Lo si sa. 1
    La carta ha fruscìi, odori anche, e impresse impronte digitali, che, avendo il pennellino e la polverina apposita da investigatore classico, si potrebbero rilevare. Tracce di DNA. Vita propria. Vita.
     Molto di un uomo resta nella sua calligrafia, che si muta negli anni, nasce, cresce e non muore.
    Carta canta.
    Per decifrare carte e scritture bisogna accantonare l’asettica esistenza dei file e dei loro alfabeti standard, ci vuole pazienza da frate amanuense, saldezza delle emozioni e una discreta intelligenza. Ma un’intelligenza particolare: enigmistica per incrociare parole, atletica, per corse fra righe, e acrobatica per salti di vocali e consonanti. Un’intelligenza FABER, che può anche essere frutto dell’essersi costruiti con le proprie mani una sedia su cui stare seduti a pensare e a scrivere e leggere cose intelligenti negli anni in cui l’intelligenza si forma.
    Non c’è soddisfazione e felicità più grande che autocostruirsi cose.
    Auto è il suffisso della nostra adolescenza negli anni ‘70. Noi che non abbiamo fatto il ’68 e forse abbiamo perso molti treni. A un certo punto tutto un movimento si è dissolto, ma almeno ci siamo subiti il trash degli anni ‘80 autocoscienti e non supini.
    Autogestione, autocoscienza, autocura
2. Autoanalisi. Autocritica. E siamo ancora qui ad automacerarci: felici di fermacarte e un po’ nostalgici e sensibili ai sospiri dei grilli.
    

    
    Questa bellissima sedia progettata da Enzo Mari nel 1974 è stata la mia sedia pensante, la mia cadréga à pensée.

    Fino agli esami di Maturità, la sedia a lamelle di Enzo Mari ha tradotto con me lirici greci, le Lettere a Lucilio di Seneca 3, studiato Bergson, letto Le Grand Meaulnes e Roth 4. Poi qualcuno decise di disfarsene a mia insaputa, durante un’estate di lontananza, accampando scuse che si era schiantata, che era pesante e strana, e così tornò ad esser quattro assicelle, forse bruciate in qualche camino come i piedi di Pinocchio, o in qualche altro nobile riciclo. Assolutamente non inquinante.
    Ma certe cose non si dimenticano, più del primo amore dell’asilo e della prima volta che si va in bici senza rotelle.
    Ho una sedia in me.
    Su indicazione, credo, di un articolo di Linus, si spediva a Mari la richiesta per ricevere lo smilzo librettino, AUTOPROGETTAZIONE?, quasi una piccola dispensa universitaria, e, con una molto modica cifra in Lire, che non ricordo più, esso arrivava per posta dopo pochi giorni in tutta la sua austera, quasi calvinista, forma essenziale e sostanza unica di progetti di design d’autore di sedie, letti, tavoli e armadi, messi liberamente a disposizione di chiunque volesse costruirseli.
    Si trovava un falegname – scettico – la sarà minga ‘na cadréga quella roba lì? – a cui far tagliare e levigare le tavolette necessarie dello spessore e nelle misure richieste dal semplice progetto dell’oggetto scelto, un letto un tavolo, una sedia che fosse, e in pochi gesti con qualche chiodo ben piantato, seguendo lo schema, si poteva avere il proprio mobile.

    Bello e pronto, con ancora nei nodi e nelle venature un po’ di spirito – d’essenza terebinthos – della conifera da cui proveniva e che con ìl passare del tempo scuriva e stagionava.
    Fa bene ascoltare Mari e la sua forza, la sua inventiva affilata, critica, intatta e combattiva.
    Etica da cui viene estetica.
    Grazie della sedia e di tutto il resto.

    
    
Enzo Mari
AUTOPROGETTAZIONE?
Dimensioni: cm 23.0×16.0
Pagine: 64
Illustrazioni: 39 disegni e foto b/n
Rilegatura: Spirale
Collana: Design e designers
Prezzo: € 15.00
Edizione: 2a ristampa, Maggio 2010
Edizione Corraini
    

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NOTE
  1. Sono, tuttavia, queste due simil-siamesi stranamente golose di giornali ingialliti e frali, soprattutto di quelli intorno al ‘62, ‘63, che nella loro mescola cartacea dovevano contenere un ingrediente, oltre alla cellulosa, di particolare gradimento felino. Forse colle di pesci baltici o di conigli fiamminghi. Se non si sta ben attenti, si masticano e ingurgitano interi articoli di critici teatrali e musicali, con preferenza per quelli, particolarmente acri e malmostosi verso la musica contemporanea, di Eugenio Montale sul Corriere.
  2. Naboru Muramoto “Il medico di se stesso”
  3. LIBRO PRIMO
    1 Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. 2 Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. 3 Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.

  4. Joseph non Philip.

22 Commenti

  1. grandissimo artista e forse in assoluto il piu’ grande fra gli italiani del secondo novecento.
    l’intervista lo fa sembrare conciso e preciso, ma e’ fuorviante, generalmente quando incomincia a parlare fermarlo e’ impossibile ;)

  2. Grazie Orsola di questo articolo che mi fa meglio conoscere Enzo Mari e per quell’inizio sui “fermacarte” e un caro saluto.

  3. Un caro saluto anche a te Nadia!

    Jacopo, certo, concordo con te per entrambe le osservazioni. In questo altro video l’aspetto torrenziale, compreso il fastidio del doversi interrompere nei tempi morti della traduzione in inglese (che hanno dissuaso anche me dal proporvelo per la eccessiva lunghezza totale), è più evidente… e soprattutto nell’esordio il giudizio sull’ambiente italiano del design è molto ma molto più diretto

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  4. bello però anche quest’ultimo discorso da arrabbiato, come annuncia all’inizio. Un bellissimo post su un grande e scomodo personaggio. Grazie Orsola.

  5. Una grande sensibilità. Ho molto amato la parte dedicata alle carte, alla magia del passato: ritrovare la traccia del cuore. Traccia illuminata dalla presenza del gatto, amico del profumo, dell’inchiostro appassito, del fruscio, amico delle cose silenziose. La sedia come oggetto sentimentale e di filosofia, non avevo mai pensato. Non sono amica della sedia, perché mi accomodo sempre male, sul bordo, un po’inchinata, di sbieco. Preferisco il divano più voluttuoso,morbido, con le gambe sotto una copertina (ho sempre freddo).
    La sedia invita a una riflessione probe, logica, di ragione ( eccetto se è vicina a una finestra, perché la finestra fa viaggiare le idee), è una disciplina del pensiero.

  6. Qualcuno ha scritto che il signore di sopra è un personaggio scomodo…
    Sì, dicono vogliano conferirgli la Palma Pasolini per miglior personaggio scomodo del 2011… è in lizza con Cortellessa

  7. Si sbaglia, mi creda.

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    [ Per carità, uno se la può prendere a prescindere con chiunque. Ma con Mari siamo fuori dalla logica di palme e premi e lobby. Credo che qui si scambi la coerenza e il fervore di una vita fra arte, artisti e creatività, per retorica e la fattività tutt’altro che velleitaria della sua opera per il solito oggetto da polemica per la polemica. Peccato. Anche se sono frecce che si spuntano un po’ da sole. ]

  8. “vita fra arte, artisti e creatività” è una frase che ha un significato ben preciso.
    Se vuole sapere come la penso, per me, l’arte è ciò che è di più lontano da “vita fra arte, artisti e creatività”.
    Per quanto riguarda il filmato, non ho trovato una riflessione originale. Che cosa devo fare? mi spunterò pure da solo… che faccio inizio dai piedi? dalle mani?
    Sulla scomodità poi… dove sono gli artisti scomodi oggi? Suvvia!

  9. «Etica da cui viene estetica»”.
    Troppe volte ho letto e sentito questa formulazione per non sentirmi autorizzato a rimandarla tutta intera al mittente, con l’aggiunta della richiesta di una dimostrazione per così dire pratica del suo significato.
    E non mi si dica che quella è una «sedia etica», per favore.
    Come del resto non è una provocazione: semplicemente è un accrocco de pezzi de legno.
    Non dico questo per diminuire Mari, che considero un designer e un artista importante.
    Lo dico perché dal lavoro di un qualsiasi uomo («ho fatto mille progetti», dice Mari), che sia o non sia un artista, come dal proprio, bisogna saper scremare il buono dal meno buono, i momenti di intelligenza dai (complementari & inevitabili) momenti di stupidità e quel kit per farsi la sediaccia di legno e chiodi (con i chiodi forniti nella scatola di montaggio…) la sedia è senz’altro un imbarazzante momento di stupidità.
    A chi lo trova una «provocazione», suggerisco di fare un giro per cantieri edili e dare un’occhiata alle suppellettili provvisorie, tavoli e panche, che sono capaci di costruirsi in quattro e quattr’otto i carpentieri: quegli stessi carpentieri che non si sognerebbero mai di portarsele a casa, in quanto «etiche» e dunque «estetiche»…
    Su molte delle anacronistiche cose che dice Mari sono d’accordo, mi piacciono molti dei suoi oggetti come alcune delle sue mostre, ma non me lo prendo in blocco: questa sua sedia, per esempio, ve la lascio.
    E vado da Ikea.
    Il discorso sarebbe molto più lungo di così, naturalmente.

  10. Vai.
    Da Ikea ci trovi il “tavolaccio” della stessa serie delle “sediacce”.

    [ Il kit di montaggio è un omaggio e una celebrazione recente del progetto, nel 74 non c’era. ]

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  11. Oh Ursula.
    Se leggi bene, scopri che non c’è dis-approvazione verso Enzo Mari, che è un maestro, ma verso la sua ur-sedia, che è tutta inutilmente ideologica. Inutilmente perché non quello il nocciolo del problema, non è costruendo la sedia dei Flintstone che si arriva da qualche parte, che si insegna qualche cosa. Da un progett/artista come lui non mi aspetto che si re-inventi (malamente) carpentiere (so che saprebbe fare stupende lezioni su quel mestiere), mi aspetto che faccia il suo mestiere al meglio e se proprio vuole ispirarsi al carpentiere mi aspetto che ci proponga una sedia, metti, migliore di quella che si vede. Più pensata, più astuta, più facile, più solida. Più bella, che quella roba non ha niente a che vedere né con l’etica né con l’estetica.
    La domanda sulle conseguenze estetiche dell’etica resta comunque inevasa, né mi aspettavo, Ursula, che per te valesse la pena affrontare una risposta: tanto basta la formula, ché fa sempre effetto.
    (Aggiungo che il tavolo de Ikea che mostri è anch’esso ideologico, serve a soddisfare la nicchia di mercato macrobiotica dove domina la domanda di ritorno alle origini, eccetera. Ci si domanda se gli stessi che comprano quel tavolo salirebbero volentieri su un aereo progettato con gli stessi criteri).

  12. etica da cui deriva estetica, principi didascalici, pedagogici… suvvia! 2011! appena fatto! Rimbaud a fine ottocento s’era già pappato la zuppa di sti legnificatori… se non si vuole pensare ai moderni, almeno ‘na ripassatina dei passati…

  13. Nessuna formula a effetto, Sheepman, ho tradotto in sintesi la mia impressione ascoltando Mari parlare di cosa intenda per forma e ridondanza di essa rispetto all’utilità d’uso di un oggetto.
    Rispetto poi a questo suo progetto, quello che tu definisci inutilmente ideologico, nasce per lui in quel momento su di una spinta etica che si traduce in estetica: nel senso che nella forma dell’oggetto si uniscono la semplicità di costruzione, il costo basso, la solidità, la funzionalità, la ecologicità e la sostenibilità del materiale. Una bellezza d’uso e funzione.

    Come se invece di acquistare la cucina degli italiani finto antico, rusticata, legno invecchiato, simulando i tarli sparandoci i pallini con il Flaubert e sbrecciando gli sportelli ad arte o coprendo i ripiani in finta melanina marmorizzata, tu ti recassi in un negozio di forniture per ristoranti e ti comprassi quegli indistruttibili quasi chirurgici elettrodomestici e stipi di acciaio, non ricoperti di materili accattivanti e stileggianti.

    Noumeni di mobili, quasi.

    Avendo vissuto il progetto nel periodo del suo nascere non l’ho minimanente inteso come ritorno alle origini, nicchia macrobiotica, ma come una contrapposizione al mercato di quegli anni [ non molto cambiato oggi del resto ] in cui trionfavano le vendite rateali di mobili impiallicciati di truciolato ad alta emissione di formaldeide, vernici alla nitro a iosa, che hanno inzeppato le case italiche con la loro bruttezza, per poi velocemente autodistruggersi, per far sì che se ne ricomprassero di nuovi simili con altre comode rate.

    Visioni diverse delle cose, non c’è nessun bisogno di tacciarle di stupidità. Comunque.

    ,\\’

  14.  


     
     
    ***

     

    Intanto, m’imbastardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente: lei non ci capirà un bel niente, ed io non sarei quasi capace di spiegarle. Si tratta di raggiungere l’ignoto tramite lo sregolamento di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna esser forti, essere nati poeti, ed io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa. Mi scusi il gioco di parole.
    IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e dannazione agli incoscienti, che argomentano su quello che ignorano del tutto!

    Arthur Rimbaud a Georges Izambard
    Charleville, [13] maggio 1871.

     

  15. Il discorso è complicato, ho da fare e non ce la faccio a farlo per bene.
    L’«etica» di cui parli probabilmente è l’imperativo modernista che ha dominato il Novecento dagli anni Venti fino ai Sessanta compresi: «la forma segue la funzione», o qualcosa del genere.
    A questo, schematizzo, va aggiunto il mito ambientalista della «sostenibilità»: dunque l’oggetto etico è essenziale, privo di forma aggiunta e eco-sostenibile: si veda l’antecedente storico della mobilia quacchera nord-americana.
    Per il Movimento Moderno trattavasi dell’estetica del prodotto industriale, oltre che del prodotto edilizio.
    Trattavasi di Forma e Riforma, cioè anche di politica, cioè di estetica del socialismo.
    Come vedi la questione è intricata.
    Il modernismo è una strada che è stata battuta fino in fondo solo dai paesi scandinavi e oggi constatiamo che il feedback di questa coerenza, Ikea, costituisce in tutto il mondo un frammento di utopia realizzata, oltre che un buon affare.
    Ovviamente con tutto questo la sediaccia di Enzo Mari (un po’ ridicolo quando ci insegna cos’è il Chiodo, cos’è il Martello e i loro reciproci rapporti), centra poco o niente, anche se lui è stato (forse lo è ancora) un modernista.
    Ma è probabile che, interrogato sull’argomento, negherebbe.
    Il gesto di Mari mi ha ricordato, piuttosto, le performance di Joseph Beuys.

  16. Mi sorprende sempre una percezione così diversa rispetto a cose che mi sembrano assodate, e se all’inizio può essere una sensazione leggermente spiacevole, data sicuramente anche dal modo spiacevole, sempre livoroso, condito di inutili, ma forse inevitabili, pesantezze del contesto commenti del blog, poi mi porta a rivedere e ricontrollare.
    In effetti non è raro che cose che io reputo bellissime, per altri siano totalmente insignificanti e brutte. Licet.
    Nel ricordo, in un alone di affetti di quella casa che non c’è più, la sedia di Mari da me inchiodata, che stava in una specie di bow window con due finestre con i vetri colorati, viola e gialli, piombati, di certe vecchie case di Milano, davanti alla scrivania, un tavolo verde mela con i cavalletti verde mela comprato alla Rinascente di Piazza Duomo con mio padre, un giorno che capì che avevo bisogno di una scrivania mia, era davvero bellissima. La sedia. Le sue lamelle intersecavano con quelle del vecchio parquet dal disegno complesso: geometrico, a cornici laterali e spine di pesce centrali. L’appoggio diagonale delle gambe posteriori della sedia ne disegnava un prolungamento prospettico notevole.
    Non trascurerei la spiegazione chiodo martello.
    Piantare chiodi è un arte. Esistono legioni di persone che non hanno mai piantato chiodi nel legno.
    Ho visto un famoso macchinista teatrale fare con essi un gioco incredible: lanciando in aria chiodo e martello in un certo modo il chiodo veniva piantato al volo dal martello nella cantinella con precisione millimetrica.
    In casa nostra si sono sempre piantati molto i chiodi.
    Per quel che riguarda Beuys io trovo che il senso delle sue azioni sugli oggetti, i mutamenti che cambiano le normali relazioni fra di essi, non sia la funzione, l’utilità di cio che si produce, ma lo svelamento della loro energia-aura segreta. La spiegazione verbale (il colloquio con il pubblico della performance) non ha altro scopo che se stessa. I suoi oggetti sono sempre delle reliquie, dei residui, dei relitti che contengono azioni, storia, da mettere sotto teche ad memoriam.

    ,\\’

  17. comunque la si pensi, questo signore rimane uno dei pochi maestri del design italiano (quello vero che si faceva con l’esperienza e con le idee) che forse in modo un po’ retorico, ma senza peli sulla lingua, non si stanca di ripeterci come stanno davvero le cose.

    in un mondo fatto a misura di paraculo, mi sembra cosa di non poco conto.

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