Scienze della Comunicazione: amenità contro dati

diGiovanna Cosenza 1 [ daDIS.AMB.IGUANDO ]

Martedì sera, a Ballarò, Maria Stella Gelmini ha dichiarato che la riforma della scuola ha voluto dare «peso specifico all’istruzione tecnica e all’istruzione professionale», perché il ministero ritiene che «piuttosto che tanti corsi di laurea inutili in Scienze delle Comunicazioni (sic) o in altre amenità, servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro». Infatti, ha aggiunto, i corsi in «scienze delle comunicazione non aiutano a trovare lavoro», perché «purtroppo sono più richieste lauree di tipo scientifico, lauree che in qualche modo servono all’impresa» e «questi sono i dati».
 
Sollecitata da molti studenti e dottorandi – alcuni arrabbiati, altri avviliti – e da molti ex studenti del settore della comunicazione che lavorano da anni, sono andata a vedermi i dati.

Ho consultato innanzi tutto quel meraviglioso strumento on line che è ⇨ Almalaurea: oltre ad avere un’interfaccia di rara semplicità, ha un database che restituisce in pochi secondi (provare per credere) i risultati di qualunque ricerca. Ho poi parlato con ⇨ Andrea Cammelli, direttore di ⇨ Almalaurea, che mi ha inviato un suo articolo sul rapporto fra le lauree in comunicazione e il mercato del lavoro italiano, appena uscito su ⇨ Comunicazionepuntodoc, n°3, dicembre 2010, pp. 35-42. Eccolo: ⇨ «Laureati per comunicare», di Andrea Cammelli.
 
Cosa emerge dai dati? L‘opposto di quanto detto da Maria Stella Gelmini: i laureati del settore della comunicazione lavorano in media più degli altri.
 
Cammelli ha confrontato la situazione dei laureati del 2008 (post-riforma 3+2), intervistati dopo un anno, con quella dei laureati del 2004 (pre-riforma 3+2), interrogati a 5 anni dalla laurea. Come premessa va detto che, data la crisi dell’ultimo biennio, la situazione del 2009, confrontata con quella del rapporto precedente, è più preoccupante per tutti, anche per coloro che escono dalle cosiddette «lauree forti» come Ingegneria e Economia.
 
A parte questo, dall’osservatorioAlmalaurea emerge innanzi tutto che i laureati del 2004 in Scienze della Comunicazione, a cinque anni dalla laurea, lavorano nell’87% dei casi, mentre la media nazionale è dell’82%.
 
Anche i neolaureati triennali in Scienze della Comunicazione del 2008 lavorano più della media nazionale: 49% contro 42,4%.
 
Quanto alle lauree specialistiche nel settore della comunicazione ⇨ (Cammelli ha preso in esame le classi di laurea in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, Pubblicità e comunicazione d’impresa, Teoria della comunicazione, Scienze della comunicazione sociale e istituzionale), anche qui i dati confortano i comunicatori: 60% di occupati nel settore della comunicazione, contro il 57% della media nazionale.

Se infine guardiamo al profilo dei laureati specialistici nella stesse lauree, scopriamo che gli studenti del settore della comunicazione si laureano prima degli altri (a 26,6 anni contro i 27,3 del complesso), hanno svolto periodi di studio all’estero nel 15% dei casi (come la media degli altri), ma hanno fatto molti più tirocini e stage durante gli studi e conoscono l’inglese più degli altri.
 
Tuttavia le note dolenti per i comunicatori ci sono: maggiore precarietà e stipendi più bassi. Il 33% dei laureati in Comunicazione nel 2004 hanno ancora un lavoro precario, contro una media nazionale del 24%; e percepiscono uno stipendio lievamente più basso: 1.279 euro mensili netti contro i 1.328 del complesso.
 
Anche il laureati triennali del 2008 hanno gli stessi svantaggi: fra quelli che lavorano, il 42% è precario, contro il 40% della media nazionale; inoltre lo stipendio medio di un neolaureato in Comunicazione nel 2008 è di 973 euro mensili netti, contro 1.020 della media nazionale.
 
Insomma, che i laureati in comunicazione siano meno richiesti è stereotipo, non realtà.
 
Certo, il mercato del lavoro li valorizza meno, mantenendoli più a lungo nel precariato e pagandoli meno. Ma è da oltre dieci anni che gli studenti (e i docenti) del settore della comunicazione sopportano pregiudizi negativi sul loro conto e battute del tipo «scienze delle merendine» e «altre amenità».
 
Non possiamo pensare che gli stereotipi e i pregiudizi negativi non influiscano nella decisione delle imprese su stipendi e stabilizzazione del lavoro. È infatti anche a causa di questi pregiudizi che, se un’azienda fa un colloquio a un neolaureato in ingegneria bravo e uno in comunicazione altrettanto (o più) bravo, decide quasi per automatismo di pagarlo meno: l’ingegnere vale di più a priori, non perché «serve di più» all’azienda. La stessa cosa accade quando un’impresa deve decidere di stabilizzare due precari: a parità di condizioni, lo fa prima con l’ingegnere (l’informatico, ecc.) perché «altrimenti scappa».
 
È anche la somma e ripetizione di queste decisioni a creare un mercato di stipendi più bassi e precarizzazioni più frequenti. E il circolo vizioso è fatto.
 
In questo senso, dunque, l’uscita del ministro Gelmini è stata infelice: contribuisce ad alimentare un pregiudizio che nuoce a un profilo professionale di cui il mercato ha molto bisogno. Speriamo che, dati alla mano, l’uscita infelice possa quantomeno essere corretta.
 

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NOTE
  1. Rilancio volentieri questo articolo di Giovanna Cosenza, Professore Associato Confermato presso il Dipartimento di Discipline della Comunicazione dell’Università di Bologna, che inizia con questa “urgenza di cronaca” la sua collaborazione con Nazione Indiana, che la vedrà “prossimamente su questi schermi” con le sue “disambiguazioni” dei linguaggi della comunicazione politica, della pubblicità e dei media in genere, la prima delle quali sarà “Piazze reali, virtuali, spettacolari”, una riflessione sui significati e i modi dello scendere in piazza oggi. [O. P.]

27 Commenti

  1. Grazie per questo articolo, era necessario.

    Non voglio immaginare cosa il ministro pensi nei confronti delle lauree in lettere o delle accademie.

    Si sa che l’Italia è conosciuta e apprezzata per i suoi ingegneri, mica per Dante e Raffaello.

  2. E’ una vergogna! Denuncio una politica delal scuola che cerca solo da fabricare impiegati del potere capitalisto. Domani, la letteratura sarà considerata come cosa senza utilità e dunque facile da sopprimere.
    La scuola è in pericolo di diventare un laboratorio per azienda.

  3. Forse bisognerebbe riformare il contenuto della laurea, o migliorarla, non farla sparire. Non ha pensato a questo la Gelmini? Comunque sono stupita dal fatto che una persona che arriva a ministro non abbia (al meno) più delicatezza a dire certe cose. Anche i giornalisti votano.

    Fra l’altro mi pare un discurso malato identificare necessariamente formazione universitaria e “utilità”. La università, secondo me, ti da altre cose, non tutto ciò che si studia è direttamente “utilizzabile”.

    Auguri per il blog, che trovo sempre molto interessante.
    Saluti

  4. véronique, la scuola come laboratorio per le aziende (e per lo Stato!) l’ha inventata napoleone… e non c’è niente di più napoleonico del concetto di scienze delle comunicazioni… alcibiade, delle lauree in lettere o delle accademie loro pensano siano come quella roba marrone che ha pessimo profumo. ma direi che in questo sono in linea con la stragrande maggioranza degli italiani, interessati solo a due cose:FAMIGLIA E SOLDI.

  5. mi e’ corso un brivido quando ho letto che un laureato da ben 5 anni guadagna in media solo 1.300 euro netti al mese. ho controllato sul sito di almalaurea, ed e’ vero

  6. La geniale Ministro della Pubblica Istruzione é laureta in giurisprudenza: nel 2008 questi laureati hanno trovato impiego al 40%, assai meno di coloro che si erano laureati in scienze delle comunicazioni. Infatti la signora Gelmini ha trovato posto solo in politica e grazie a criteri di selezione non propriamente ortodossi (al proposito si può sentire il parere di Sabina Guzzanti e di suo padre).
    Morale della storia: la Ministro, con quella bocca, può dire ciò che vuole.

  7. Scienze della comunicazione e tutte le psudoscienze che ci sono nella università italoripetente SONO INUTILI non in quanto umanistiche ma in quanto NON umanistiche! (che se anche lo fossero sarebbero penose). Scienze della comunicazione et similia sono facoltà dove non si insegna niente! né d’umanistico né di scientifico. QUINDI vanno salvaguardate: SONO LE UNICHE FACOLTA’ INNOCUE! entrano idioti che non sanno nulla ed escono idioti che non sanno nulla + 3/5 anni. Perfetto. Nelle università funzionanti (da chiudere quelle sì perché AMENE) entrano idioti che non sanno niente ed escono idioti che pensano di sapere qualcosa senza sapere niente, gaglioffi, trovano lavoro e ci umiliano l’esistenza. Almeno quelli della mutria delle pseudoscienze non trovano LAVORO

  8. @le luci della città
    se con gelimini’s boys lei come città luminosa si riferisce a me, legghi meno fantozzianamente i commenti, oppure legga più universitariamente chi è controuniversitario, non gelminiano. Per me non si devono tagliare i fondi alla cultura, per me devono finire i soldi per la cultura, così arriveremo all’abrogazione dell’istruzione di stato. In questo senso ho difeso le Pseudoscienze perché non danno contenuti scientifici né umanistici, non intaccano le menti dei ragazzi più della televisione o del familisterio. intiende?

  9. Non come studi, quali sono i tuoi progetti, ma il marchio dell’infamia a prescindere. A voglia a dire sommessamente Madame Gelmini che dipende da come la fai una cosa e quindi anche un corso di laurea. Contano i dati e il profitto immediato in questi tempi di crisi. Vai a dirglielo a tutti i giovani meridionali che non trovano assolutamente nulla. Ci vogliono laureati in scienze delle comunicazione per catturare il malessere, la disperazione e la rassegnazione di quest’ultimi? Poi non ci sarà un surplus di fisici, di matematici, di biologi che, costretti dalla riforma, studiano male e sognano di “comunicare”? Maledetti giornalisti!!

  10. A proposito di Scienze della Comunicazione ho pescato dal numero di ottobre di alfabeta2 (dall’ebook posso fare copiaincolla facilmente) quello che scrive Umberto Eco:

    Passiamo a un altro problema: l’autonomia amministrativa concessa agli atenei. Si badi, in sé la soluzione era virtuosa, ma ne è stato sfruttato il lato vizioso: poiché un ateneo che deve riuscire a finanziarsi in gran parte da solo deve trovare il modo di avere o molti studenti che pagano poco o pochi studenti che pagano tanto.[…] E quindi ha spesso scelto un’altra strada: la moltiplicazione abnorme delle offerte formative.
    Ecco così che sono nati corsi nelle discipline più improbabili che, almeno a livello di opinione pubblica, hanno discreditato gli studi superiori.
    Ma fosse solo quello. Per capire che cosa è accaduto voglio raccontare un’esperienza personale. Agli inizi degli anni Novanta tre università (Siena, Torino e Salerno, probabilmente senza sapere l’una dell’altra ma perché il tema era nell’aria) hanno chiesto di poter istituire dei corsi in Scienze della comunicazione. Siccome avevano presentato tre programmi troppo diversi, allora il ministro Ruberti aveva istituito una commissione che disegnasse un profilo unitario per questo nuovo genere di laurea. La commissione, di cui ho fatto parte, ha tracciato questo programma unitario, proponendo una laurea non di quattro bensì di cinque anni, e chiedendo al ministro che i corsi fossero riservati, a numero chiuso, a non più di centocinquanta o duecento studenti. Si voleva insomma un corso di alto profilo e notevole impegno. Inoltre, temendo una proliferazione che non corrispondesse alle reali richieste di mercato, si era chiesto al ministro di non consentire la nascita di più di sei corsi al massimo, due nel Nord, due nel Centro e due nel Meridione.
    Così i corsi sono iniziati e per me come insegnante, a Bologna, è stata una delle esperienze più soddisfacenti della mia vita accademica: studenti motivati, tutti frequentanti, e la prova (il che va detto oggi che i test di ammissione sono messi in dubbio) che una selezione fatta attraverso test può funzionare benissimo, se i test sono ben costruiti. Infatti si è subito assodato che la classifica nel test corrispondeva a una classifica in base al voto di maturità, non solo, ma anche, dopo un anno, ai risultati conseguiti nei primi esami.
    Situazione idilliaca, dunque. Salvo che lentamente, dato che gli atenei avevano bisogno di danaro, la situazione si è smagliata. Anzitutto si è prima allargato il numero chiuso, in vari luoghi lo si è lasciato perdere, la raccomandazione di non superare i sei corsi è stata disattesa e oggi ne esistono settanta o giù di lì. Ho detto settanta (o giù di lì).
    Mi ricordo che, quando si introducevano nel programma alcune materie di frontiera, ci si chiedeva se si sarebbero potuti trovare cinque o sei studiosi di vaglia capaci di insegnare quelle cose, e si era concluso che cinque o sei si trovavano.
    Che se ne possano oggi trovare settanta, assai ne dubito. Tragga il lettore le sue conseguenze. […]

    Allarme Università – Riflessioni sparse su presente e futuro, Umberto Eco,
    alfabeta2 ottobre 2010 n 3

  11. Inoltre Andrea Cammelli dice nell’articolo di Orsoladi Giovanna Cosenza che i laureati in SDC hanno lavori più precari e paghe più basse dei laureati in altre discipline:

    Tuttavia le note dolenti per i comunicatori ci sono: maggiore precarietà e stipendi più bassi. Il 33% dei laureati in Comunicazione nel 2004 hanno ancora un lavoro precario, contro una media nazionale del 24%; e percepiscono uno stipendio lievamente più basso: 1.279 euro mensili netti contro i 1.328 del complesso.

    Anche il laureati triennali del 2008 hanno gli stessi svantaggi: fra quelli che lavorano, il 42% è precario, contro il 40% della media nazionale; inoltre lo stipendio medio di un neolaureato in Comunicazione nel 2008 è di 973 euro mensili netti, contro 1.020 della media nazionale.

    Insomma, che i laureati in comunicazione siano meno richiesti è stereotipo, non realtà.

    Certo, il mercato del lavoro li valorizza meno, mantenendoli più a lungo nel precariato e pagandoli meno.

    Forse quindi il pregiudizio va ribaltato, è cambiato infatti il mondo del lavoro,chi ha fatto scienze della comunicazione è ora spesso un operaio della conoscenza addetto al settore terziario della comunicazione e dei servizi, in posizione subalterna, marginale e privo di autonomia, con competenze comuni e sostituibili. Da qui il disprezzo per il corso di studi, con una torsione logica da protestantesimo statunitense: tutti possono farcela ed essere eletti dal Signore, ma se sei povero è solo colpa tua e della laurea in scienze della comunicazione.

  12. @alcibiade
    il mio blog ha un nome preciso mi pare, il che non è per celia, la dice lunga su cosa penso della Scuola. Il post che ha intravisto lei dove compare il garnde Carmelo Bene è l’ultimo nell’ordine di tempo su questo argomento, anche se lo tocca tangenzialmente, si parlava di Stato e Democrazia. Sono anni che professo la chiusura delle scuole, pur quando ne facevo parte ed ancora non conoscevo quel video di Bene, né la sua opera (sa ho anche 24 anni).
    Di mio quindi c’è quello che ho espresso. Se poi qualcuno volesse invece di scrivere articoli come questi constatare la preparazione degli studenti dei corsi di pseudoscienze umanistiche lo faccia. State difendendo la conservazione di QUESTA SCUOLA, che tutto ci sarebbe da fare fuorché proteggere. Rinchiuderla semmai e chiavi in mare.

    PS: Al, non ringrazi così gratuitamente Carmelo Bene, non c’è niente di gratis.

  13. In questo vergognoso tentativo di imporre nella mente dei giovani la diabolica equazione laurea = posto di lavoro si colgono i germi di un progressivo sfacelo socioculturale che va prevenuto attraverso un buon uso dello strumento voto.
    Del resto di cosa vogliamo meravigliarci? Quando un 3Monti spara che “con la cultura non si mangia” è chiaro che siamo alla frutta.

    Io sono stato iscritto a Sociologia, e ne sono ben felice: lì ho conosciuto le migliori persone di questo mondo, che ancora rimpiango, poi sono passato a Giurisprudenza, avevo la fidanzata a Ingeneria e quando dovevo studiare andavo a Lingue perché c’era meno casino. Per ripassare con un amico mi sistemavo nelle aule di Scienze politiche. Se avevo un bisogno fisiologico urgente, andavo nei bagni di Farmacia, che erano più comodi e più puliti :-)

    Ecco, secondo me, questo significa vivere l’università a 360 gradi.

    Questi politici hanno una visione LIMITATA ELEMENTARE RIDICOLA dello studio e della cultura, di questo tipo:
    studente di legge —> avvocato; studente di matematica —> insegnante; studente di filosofia — filosofo :-)

    Ma a chi siamo in mano???

  14. Serve, serve, serve (intendo dire il verbo, non il sostantivo riferito a Gelmini & co.)
    A cosa servono la matematica, la musica, la fisica, la poesia e lo studio degli imenotteri del basso lazio? A niente. Studiare cose inutili non serve a niente, e meno male: è proprio questa loro inutilità che rende le utilissime, anzi fondamentali per vivere (da esseri umani).
    Ma con questi zucconi padani non c’è speranza, capiscono solo di bastone e di carota (come gli asini appunto ma forse neanche questi, a ben guardare nei loro occhioni, sono così beceri).

  15. Aggiungo due elementi a questo dibattito, che mi paiono pertinenti.

    Un’esperienza privata:
    Anni fa feci una proposta al sindaco di un Comune della provincia in cui abito, Bergamo, per gestire la comunicazione del suo ente. Non ho una laurea specifica, la mia competenza deriva dal lavoro sul campo come giornalista. Quel sindaco ascoltò la mia presentazione, lesse la documentazione con cui intendevo supportare la mia candidatura, e poi mi domandò: «Ma se una persona sa parlare, non sa anche scrivere?».
    Tentai di fargli notare che, come non tutti gli individui parlano con la stessa efficacia pur essendo generalizzata nella società la conoscenza della lingua, così non tutti gli individui lavorano con la stessa efficacia nel campo della comunicazione, pur essendo facile trovare le informazioni tramite le quali costruirsi la competenza.
    Finì che quel sindaco non affidò a me la comunicazione del suo ente. Probabilmente l’affidò a una persona meno costosa di me che mi presentavo come un professionista del settore.

    Un’esperienza pubblica:
    L’ascesa di Silvio Berlusconi in quanto personaggio pubblico è avvenuta anche tramite il controllo e il condizionamento di mezzi comunicazione quali televisioni e giornali.

    È quantomeno strano che un settore dell’attività umana come quello della comunicazione sia così poco considerato dal senso comune, eppure sia evidentemente così efficace.

  16. @daniz

    Non è possibile che ogni volta che si scende sul terreno dell’istruzione ci debba essere qualcuno che grida alla de-scolarizzazione e all’inutilità dell’insegnamento.

    è vergognoso, non vivete nella realtà.

  17. @alcibiade
    La cultura non passa proprio a scienze delle comunicazioni, è assicurato. Non è facoltà povera di nozioni tecniche, è povera d’ogni nozione. Ed è sconsigliata dal 99& dei professori, universitari e liceali. Ripeto: innocua.

  18. pare che la chiesa abbia suggerito di triplicare Scienza della Comunicazione, aggiungendo a Scienza del Comunicato Scienza del Comunicando..

  19. Ciao a tutti.
    Intanto ringrazio una volta di più Orsola Puecher, che mi ha concesso questo spazio su Nazione Indiana. Sono molto felice di cominciare a dialogare con voi.

    E poi ringrazio di cuore tutti i commentatori di questo post. La discussione sul tema è molto accesa anche sul mio blog, come in molti altri luoghi della rete.

    Spero che questi contributi (qui e altrove) possano essere utili a cancellare un po’ di pregiudizi nei confronti delle scienze umane. Il tema è infatti più generale, e riguarda la svalutazione del sapere umanistico, non solo i corsi in scienze della comunicazione.

    Mi rendo conto, tuttavia, che alcuni fra i pregiudizi più duri a morire contro i corsi di laurea in SdC vengono proprio dall’ambito delle scienze umane: come se ci ci fossero discipline umanistiche “alte” (lettere, filosofia, ecc.) e “basse” (comunicazione, ma anche il Dams per esempio). Insomma, ai comunicatori tocca spesso di subire il “fuoco amico”, il che non giova nemmeno a chi spara.

    Ma tant’è.
    Grazie a tutti,
    Giovanna

  20. Giusto parlare di pregiudizi, ma bisgnerebbe dire anche di cecità: come è possibile pensare che studiare comunicazione e media non sia necessario quando passiamo il nostro tempo tra email, blog, vlog, youtube, twitter, facebook, iphone, e-comerce, chatroom, ecc?
    Forse oltre che rifiutare che l’istruzione deve essere solo in funzione del mercato, bisogna anche aggiornare la mentalità.
    Sa almeno riconoscere in che “luogo” ha fatto questo commento il ministro?

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