Il sogno di Tamerlano

di Nevio Gambula

Una stanza vuota e buia. Al centro, illuminato dall’alto, un uomo. È vestito in jeans, scarpe da ginnastica e con una felpa con la scritta FIAT in evidenza. Ha una pistola in mano. Si muove lungo il perimetro della stanza,agitato, come guardando verso un “fuori” ostile. Diverse voci ripetono la notizia di un operaio che fa irruzione nella palazzina dirigenziale dell’Azienda, uccide tre persone e ne sequestra altre sei. Esecrazione, sgomento: il solito modo di divulgare le notizie. Durante i comunicati stampa, l’uomo canta la più bella canzone d’amore mai composta: Alifib di Robert Wyatt.

Devo prepararmi. Ormai manca poco. Tra breve faranno irruzione. E allora finirà questo capriccio infantile. Finirà. Manca poco all’ora fissata. Tutto è pronto. Sono già disposti intorno al palazzo. Hanno minato tutto il perimetro. Questa stanza sarà la mia tomba. Tra poco. Tutto finito. Tutto. Resterà solo un bagliore roseo. E una strana foschia, ben oltre il linguaggio. Gorghi di frasi che girano a vuoto e radiazioni. Ma quest’opera andava fatta. Oggi, non domani. Quest’opera di goffa coscienza. Doveva essere fatta. Un atto iniziale, diciamo iniziatico, anche se finirà subito. Perché finirà, è certo. Aspettano solo il segnale. Poi entreranno e la faranno finita. È solo questione di tempo. Entreranno, e tutto cesserà. Tutti i vizi e le improvvisazioni. Tutte le profezie. Andrà così. Non c’è difesa possibile. Ho perso la mia battaglia. Il gemito delle mie carni sarà il loro trionfo. D’altra parte, me la sono cercata. Ho liberato il mio sogno. Il sogno peggiore. Quello più crudele. Il sogno si è fatto atto. E certo l’atto non poteva passare inosservato. L’atto era già il dopo. Un sogno perentorio. Criminale. Sì, ho sparato al porco. Mi tremano ancora le mani. Ho ancora, tra le labbra, il suo sapore germinale. L’atto è già la sua fine. Ne pago il prezzo. Nutrirò la fine. È il mio grande smarrimento. Ieri. È cominciato tutto ieri. Mattina presto. Una delle mattinate più luminose. Allegorica e reale. Mi sono presentato nell’ufficio dell’Amministratore Delegato e gli ho sventolato in faccia la lettera di licenziamento. Alle nove del mattino. Una mattinata concreta. Senza discorsi ma solo azione. Col mio sogno propizio. Sono entrato con pensieri assurdi. E con saggezza omicida. Entrato. Nell’ufficio dell’Amministratore Delegato. Con occhi di sangue. Entrato. Vedevo il mio sogno insorgere ed emergere chiaro. Io ero il mio sogno di sangue. Al di là di ogni favola. Il sogno più elevato. Non poteva trattarmi come uno scarto. Ieri mattina. Una delle mattinate più eccentriche. La più perfetta. Alle nove. Ieri. Nell’ufficio dell’Amministratore Delegato. Ero lì per scoprire il mio sogno. Il mio sogno proibito. Lì, davanti al porco. Avevo una guerra nella mia testa. Ed ero contento. L’ho insultato. Poi spintonato. Lui rideva. Rideva di gusto. Mi prendeva in giro. Non ci credeva. Poi, vedendomi incerto sul da farsi, ha chiamato le guardie. A quel punto ho sparato. Ho sparato al porco. Lo fissavo negli occhi e vedevo il mio sogno. Ho premuto il grilletto. Il sogno definitivo. Il più genuino. Un buco in mezzo agli occhi. Un buco profondo. Un poema eccezionale. Strano, però: la testa era vuota di sangue. Vuota. Dal buco usciva olio. Sbirciavo dal buco e non vedevo sangue. Solo un liquido nerastro e denso. Guardavo nel luogo della coscienza e vedevo il dogma del nulla. Nel buco un abisso. E olio grezzo. Il potere è una macchina. E l’uomo si lascia condurre. La sua essenza umana è arginata dalla perfezione della macchina. Ma ero lì, col mio sogno. Come ictus umano. Col mio sogno peggiore, quello chepuzza di morte. Il sogno militante. Il sogno dell’ultimo giorno. E ho sparato al porco. Con naturalezza. Non potevo rinunciare alla firma. Volevo che l’autore del gesto, di questo gesto così inequivocabile, fosse riconoscibile. Nominare l’atto. Renderlo esemplare. E così ho scritto il mio nome sulle pareti. Il mio nome. Segno evidente. Sulle pareti, per fare semenza. Scritto con le viscere dell’Amministratore Delegato. Tamerlano. Ho scritto Tamerlano sulle pareti. Con le viscere sanguinolente del padrone. Ho ancora le dita appiccicose. La semplice forza di un nome. Matrice di coscienza. E di azione. E pensare che Tamerlano non è neanche il mio vero nome. È solo una parola. Unmantra che ripeto tra le labbra. Tamerlano, segno cattivo e gioioso. Un segno del mio sogno. Un segno privo di spiegazioni. Che non rappresenta. Tamerlano. Ha un vago sapore di minaccia, il mio nome. Che non è il mio vero nome. Ma che lo è diventato. Tamerlano. Pura invenzione. Invenzione inaudita. Sembra il nome di uno che ti può rompere il collo in qualsiasi momento, solo per divertimento. Un nome gustoso. Un modo di essere. Di segnare una presenza differente. Come celebrare un esordio. Tamerlano. Il nome di un profeta chiassoso che vive braccato dall’inquietudine. Uno scarto evidente. Una lacerazione. Può darsi che Tamerlano sia il mio vero nome. Forse è così. Al di là di ogni finzione. Iosono veramente Tamerlano, il pastore sciita non fatto che per saccheggiare e depredare. Chissà. Forse. È il mio. Nome. O forse no, non è questo il mio nome. Forse è soltanto un congegno retorico; una simulazione; il nome di un personaggio; di una diceria; di un esemplare antico; di un apparato figurativo; di qualcuno che non esiste; di qualcuno che si toglie nel momento in cui simette in scena; o di un rito primitivo; di una scrittura fonetica; di un’opera sacrificale; ecco: forse è il nome di una maschera che puzza di capra. Una squisita invenzione del gioco teatrale. Forse. Eppure, il suo gesto è il mio. Mi appartiene. Il gesto maledetto, con la pistola. Ho sparato al porco. E allora Tamerlano sono io. È questo il nome della mia malattia. Sono condannato a essere lui. È come se fossi posseduto dal crepitio della sua trama. Confesso che mi diverte. È come se mi trovassi alla fonte di me stesso. E poi, per dirla tutta, insieme al nome, e come conseguenza esplicita di averlo fatto mio, emerge un corpo reale. Un corpo inespresso, che preme per esserci, inquietante, imbarazzante, con la voce strozzata, con i gesti e le varianti e le musichecomposte al di là d’ogni banalità trionfale, lungo la gola del silenzio e del precipizio. Un corpo di poesia. Nella sua agonia planetaria. Ora nel buio. E solo, nel buio immenso. Niente luna, questa sera. Illumineranno tutto con potenti riflettori. E sarà luce. Una luce straziante. Ma vivrò appena il tempo per vederla. D’altra parte, me lo aspettavo. Mi prenderanno sotto una luce spettacolare. La morte di Tamerlano in technicolor. Perché mi uccideranno, è certo. Sono tutti pronti, là fuori. E sono in cento. Almeno a giudicare dalrumore dei passi. In cento. Troppi, per me. Cento, trepidanti. Nella notte immota. I Giustizieri al soldo dell’Azienda. I Difensori della Pubblica Sicurezza. Troppi per il mio sogno. Cento. Sparano, uccidono e tengono la bocca chiusa. Sotto gli occhi delle telecamere. Cento attori di uno spettacolo perfetto. Contro il mio sogno anti-spettacolare. Dunque, una bella mattina Tamerlano ha sparato all’Amministratore Delegato. Una mattinata eccellente. Esemplare. Senza ipocrisie discorsive. Solo atto. Solo un atto al tempo stesso reale e immaginario. Ho sparato al porco. Subito dopo, compiuto l’atto, sono andato nella stanza vicina, quella della sua Segretaria. E l’ho picchiata a morte. Una puttana. E una spia. Fu lei che mi denunciò quando pisciai nel piatto del Capo Reparto. L’opera giunge così a un compimento ulteriore. Ebbrezza dell’opera senza veli. L’invadenza del sogno. Al di là di ogni consuetudine umanistica. Insomma, ho preso il cacciavite e le ho aperto il cranio. Lei strillava, la Segretaria. Strillava. Ero incantato dalla sua voce. Ma niente sangue. Un altro corpo privo di sangue. Solo un vago odore di olio bruciato. Un altro ingranaggio ben calibrato. Olio e vermi. Dal cranio uscivano vermi. In fila, uno dietro l’altro, come regolati da un ordine segreto. Vermi grigi e gelatinosi. Bruciai tutto. Sogno e potere si escludono reciprocamente. Mutilare, sparare, uccidere, ferire, bruciare. Tutto quello che faccio appartiene al mio sogno. Gli atti più spietati e quelli delicati. Per il mio sogno ne ho uccisi tre, ieri mattina. Prima l’Amministratore Delegato, poi la sua Segretaria, infine l’Addetto alla Sicurezza. Tre macchine mostruose e seducenti. Tre carogne da scuoiare. Da ognuno ho ricevuto secrezioni e schizzi d’olio. M’insozzavano tutto, le merde. Compiuta la strage, ho sequestrato altre sei persone. Sgualdrine e sterminatori, tra i più gettonati. Il fior fiore dell’Industria Nazionale. Il Capo del Personale, il Direttore delle Vendite, l’Addetto Stampa, il Presidente del Consiglio di Amministrazione, il Ministro dell’Economia e il suo Portaborse. I padri di tutte le menzogne. Di tutti iveli e di tutti gli infiniti dolori. Di tutti gli incantamenti. Di tutti gli ingorghi. Di tutte le grammatiche di dominio. E delle trappole, dei vocabolari, delle bende, delle distrazioni. Da lontano, l’Azienda sembra un luogo di pace, dentro, invece, sei persone schiattano lacerati dal mio sogno. Sei persone.Facce gonfie, occhi appestati. Maschere ufficiali della sovranità. In balia del sogno di Tamerlano. Io mi sento bene. E non la finisco più di ridere. Questo è il mio giorno di gloria. È il mio sogno che matura. Sì, ieri Tamerlano si èarmato e ha marciato contro i mercanti. Tamerlano è venuto avanti. Per seguire il suo sogno. Per scoprire qualcosa di più preciso di quel sogno. Per provare a riconoscersi. Come guidato da visioni profetiche. Il piccolo pastore sciita è giunto sino al punto più alto dell’Azienda. E ha dispiegato la sua opera. Fragile, come fragile è ogni impresa solitaria. Opera senza radici. Titanica e genuina. Quasi mistica. Anche l’Addetto alla Sicurezza era una spia. Quando lo inseguivo, per le scale, chiedeva pietà. Pugno dopo pugno, gli ho disfatto il viso. È l’unica cosa che so fare. E l’ho aperto. Con una lama. Aperto dall’ombelico alla gola. Ho sparso le sue viscere sul pavimento. Con gioia immensa e cadenzata. Un liquido nero brillava sul pavimento. Nero dappertutto. Un altro uomo fatto di olio. Un insopportabile odore di olio bruciato. Non corpi cherespirano ma meccanismi rituali. Il potere è proprio una macchina schifosa. Di vermi e di olio. E infatti l’aria è densa. L’odore è quello rancido della cancrena. Solo questo fetore di carogna viva. Proviene dal ripostiglio dove ho nascosto gli ostaggi. Sì, c’è nell’aria un vago odore di decomposizione. E un insistente puzzo di capra. Che invece proviene dal mio corpo. Sono davvero Tamerlano, il pastore sciita rozzo e privo di pietà. Se mi guardo allo specchio: sono guasto. Se scruto l’orizzonte: sono solo. Se ascolto la mia voce: esce a rantoli. Se comincio a ridere: vedo la mia tomba. Se seguo il mio sogno: dimentico il diritto. Se odio: faccio filosofia. Se amo: tutti mi odiano. Tamerlano non può restare tranquillo.  Sei carne morta, Tamerlano. O sei soltanto una parola di quattro sillabe? Sono un personaggio rudimentale. O sono un attore che cerca la sua occasione? Sono un operaio che è stato licenziato. O sono un attore che non ha mai smesso di recitare? Chi sono io? Un morso mentale? Un gorgo di sofismi? Un oracolo vibrante? La furia dell’attrito? Un enigma corroso? Una sintassi viziata? Un argomento possibile? Una deriva ironica? Una caduta vitale? Uno stronzo sfigato? Una pagina in fiamme? Una torre fatiscente? Una neve scontrosa? Un grido inusuale? Un’opera senza motivo? Uno scarto di vita? L’antico sentiero? La litania del contagio? La città sepolta? Una volta distrutta? Una trepida banalità? Una rimembranza artificiale? Una cicatrice di merda? Il tema di cristallo? La catastrofe ragionevole? La vocale trafitta? La precarietà spettrale? Il flagello umorale? Una specie di turbamento? Un geroglifico crivellato? Un’anatomia pulsante? Un detrito di lingua? Una frana esplicita? Una vagina struggente? Uno stemma clandestino? Una sequenza irrequieta? Uno spiraglio? Una lacuna? Una prigionia? Una preda? Carne rancida. Sogno difettoso. Gesto criminale. E tuttavia qui, col mio corpo. Con le labbra protese verso una platea muta. Assalito dal vergognoso desiderio di dire. Di dire col corpo umiliato. Dire narcisistico; malefico; infranto; discontinuo; inaridito; oscuro; biologico; quasi polveroso; in concreto vociare; come strappo; brusco; perentorio; cieco; penitenziale. Così, con questi timbri torbidi, in subbuglio, io dico senza tregua, ricco di disordine: i colpi diglottide, la gola di tigre, il fiato diplofonico, il ritmo del baratro, l’emissione totemica, lo sbadiglio parabolico, la dizione oltraggiata, il solco risuonante, la vibrazione incerta. Questo brontolio intimo è la mia preghiera. È la trama di un’energia dell’eseguirsi rituale. È teatro. Ho strappato la lettera di licenziamento davanti all’Amministratore Delegato, prima di legarlo e trascinarlo in questo rifugio improvvisato. L’ho quindi picchiato a morte, facendogli ingoiare la lettera. Ha cominciato a piangere ed io, asciugandogli le lacrime, gli ho staccato la lingua, come per fare appassire le menzogne dette per tutta la vita. Non l’ho ucciso. Non subito, almeno. L’ho torturato. Lentamente. E mentre gli aprivo la pelle con la lama incandescente, ripetevo a voce alta i nomi dei miei compagni, licenziati come me. Ho cominciato dai nomi di quelli che si sono suicidati. Sono in seguito passato a quelli che sono stati arrestati. Poi è stata la volta di chi è andato a cercare fortuna altrove. Lui mi guardava. Non capiva quello che dicevo. Non capiva la mia lingua. Il mondo che raccontavo non era il suo. Singhiozzava. Gli asciugavo le lacrime. E gli imprimevo la lama nella carne. Il coltello diventava la mia lingua. La sua ferita era il punto di contatto. Non volevo persuaderlo. Negando il suo fondamento, affermavo la mia essenza: diverso da lui e fatto di altra materia, inconciliabile con la sua. Anche il dolore è diverso. Anche le melodie del corpo prendono forme differenti. Sergio Marchionne, Signore e Principe del più grande impero industriale della tribù, padre amorevole e fine conoscitore di arte e letteratura, piangeva con una specie di monotonia, di canto regressivo e ben accordato. Un autentico Cavaliere del Lavoro allenato al canto lirico. Il mio grido è selvaggio. Secolare e disadorno, primitivo: un rumore nelle orecchie. Un grido inascoltabile. E infatti non c’è nessuno che mi senta, là fuori. Il mondo è sordo alle mie grida. E sì, Tamerlano, per quanto ti possa sforzare, per quanto forte sia la tua voce, questa steppa ruvida, questo silenzio pubblico, questo deserto obbediente, copre ogni tua parola. Sono l’assassino senza lingua. Ogni mio atto è muto. La mia bocca è aperta davanti a telecamere senza microfono. Tamerlano è chiuso in una specie di bozzolo insonorizzato. È come una frase soffocata. Un pastore capace di fare solo rumore. Un rumore indecifrabile. Eppure, non smetto. Mi esercito con questa lingua rudimentale. E sono felice così. Entreranno, dunque. Se non riusciranno a passare dalla porta, proveranno dalla finestra. O apriranno un varco tra le pareti. Sono in tanti, là fuori. È solo questione di tempo. Poi mi strapperanno al mio sogno. E lofaranno in mondovisione. Sì, il tempo sta scadendo, Tamerlano. Faranno irruzione. Tra breve. E terminerà questo inganno. È tutto pronto. Telecamere, squadre d’assalto, lacrimogeni. Anche le edizioni speciali. Gli inviati sono al trucco. È tutto pronto per la scena finale. E tu, Tamerlano, sei pronto a morire? E io, sono pronto? Chi morirà, stasera? Chi sarà ucciso quando entreranno? La sua maschera è il mio viso. Tamerlano è qui, e io sono Tamerlano. Chi morirà, tra breve, quando faranno irruzione? Morirà Nevio Gàmbula, l’attore rimastosenza ruolo? O a morire sarà il pastore Tamerlano, in atto di colpire il mondo col suo gesto estremo? Chi può dire dove comincia il personaggio e dove comincia l’attore?

Calepino, o miserabili figli di Calepino, sarete bardati al nodo dei miei cavalli, col morso alla bocca, e trascinerete il mio cocchio. Se allenterete il passo, vi frusterò con sferze fatte di corde sottili. E voglio che vi abituiate a cibarvi di solo foraggio, come bestie, e a giacer sulle nude tavole d’una stalla. Non vedete la morte nel mio sguardo? Placherò la mia ira strappandovi le viscere, svellendovi il cuore, e brucerò le odiate vostre carni con ferri roventi e con gocce dipiombo ardente, mentre la ruota vi smembrerà le ossa. Nulla al mondo vi difenderà dalla terribile ira di Tamerlano. Ebbene, o piccoli re: benvenuti nel teatro di Tamerlano, dove ogni parola è una palla infuocata.

Sì, ora possono entrare. Sono pronto per morire.

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9 Commenti

  1. Un testo affascinante, durissimo e luminoso nel suo moto circolare asfissiante, rivelatore; nel sincopato, differito vorticare di immagini che premono dietro le pareti a strapiombo di una pausa, di una cesura, di un punto, di un respiro trattenuto solo per un attimo, per non essere completamente travolti dal suo peso-senso. Da Sofocle ad Artaud: un intero immaginario che si dispiega, si piega e si lacera, con rovinosa grazia disvelante, per legge non mai scritta di parola, fino a farsi finzione-dizione infinita, interminata metamorfosi di corpi-in-un-corpo che genera frammenti di reale: dell’unica realtà che si dice mostrandosi – riflessa in quell’unico specchio sacrificale, nell’unica matrice-dispensa che la fa essere. “I can’t forsake you, Alifi, my larder”.

    [E allora capisci davvero, di fronte a un testo del genere, perché quel bianco vertiginoso e urlante nel colonnino dei commenti. Ora sai perché è molto più produttivo, più funzionale al confortevole nulla di pensiero che ci avvolge e protegge, far finta di niente e passare oltre; dirsi, e convincersi, di non aver visto e letto nulla, e dirigersi a grandi passi là dove si possono lasciare, come escrementi disseminati a prendere aria e ad evaporare al primo clic, lodi sperticate sulla letteratura del nuovo millennio – miserrime paginette scritte con l’inchiostro di un’unica, devastante inesistenza.]

  2. Perché attribuire a chi non commenta tanta meschinità?

    Se il corpo è la vera sostanza del teatro, la sua unica verità, come sostiene Gambula, questo testo magari lo si percepisce come una cosa monca.

  3. In effetti c’è un equivoco, che provvedo subito a chiarire e a rimuovere. La verità è che il messaggio in bottiglia (cfr. parentesi) aveva un destinatario ben preciso – saltato per la maledetta fretta/fregola di schiacciare il tasto “invio” senza prima rileggere – ed era questo : @ me stesso.

    Nessun problema, dunque, la “meschinità” era già stata attribuita al legittimo proprietario. Il termine, poi, credo sia proprio quello più adatto a contenere l’insieme di svariate altre sintomatologie che connotano la personalità patologica in oggetto: rancore, invidia, frustrazione, senso di esclusione immeritata dai circoli intellettuali che contano (il sogno inappagato della mia esistenza, fin da bambino!) etc. etc.

    [Detto questo, e considerato che, a quanto sembra, non è difficile dare un nome alle nostre più segrete e inconfessabili pulsioni, aiutatemi a trovare quello giusto per definire l’insieme di queste pratiche, sicuramente “sintomatiche” anch’esse: a) scrivere distese a perdita d’occhio di commenti e di contributi “teorici”, con riferimenti e link testuali-metatestuali-paratestuali-mestruali, home and abroad, a supporto di testi per i quali l’unica ermeneutica possibile è il contenuto del ruttino post-poppata di un neonato; b) accorrere in branco, quasi a circondarlo con un fraterno muro di protezione e di affetto (“you’ll never walk alone”, ormai sei dei “nostri”), ogni volta che compare un testo (raramente) o un test(icol)o (sempre più spesso) di un sodale – credendo di prevenire, in questo modo, il solito attacco “rancoroso-invidioso-frustrato” di cui sopra, ma finendo, inevitabilmente, per mandare a puttane (ammesso che uno l’abbia mai posseduto) il senso della misura, della decenza e del ridicolo; c) cooptare in diretta i “meritevoli”, con pratiche da sottobosco deforestato, per iniziative, festival, intraprese e quant’altro fa “cultura” (quella d.o.c., s’intende: la “nostra”); d) intervenire nelle discussioni con il rimando a “quanto ho già scritto e detto qua, e qua, e anche lì e là”, avvalorando presso i gonzi l’insostituibilità della propria presenza nel “fuoco” del dibattito che conta, quello che spariglia le carte del “nemico”; oppure, chiamando a sostegno, l’insostituibile “auctoritas” degli amici, con riferimenti anche alle “cose che ci siamo detti proprio stamattina, via mail, ti ricordi?”; e) piangere e ululare contro il “mondo culturale infame” che “nemmeno ci caga”, avendo alle spalle cinque-sei pubblicazioni negli ultimi due anni, svariati premi datti dallo stesso “m.c.i.” tanto aborrito, decine di articoli per riviste e giornali, direzioni editoriali, etc. etc.; f)g)h)etc.)etc.) etc. etc.]

    Ad maiorem gloriam cazzimmae.

  4. mah, non so, non vorrei aver creato irritazioni di cui non riesco a leggere lo sfondo, [vedi lo strano sig.ra Alcor di Castaldi], molto mi sfugge, evidentemente.

    quanto al «senso di esclusione immeritata dai circoli intellettuali che contano» c’è sempre chi lo prova, anche nei circoli intellettuali che contano, consideriamolo una malattia esantematica e lasciamola sfogare, di solito la varicella si prende una volta sola:-)

  5. Nessuna irritazione, Alcor, a volte si fa così, ma solo per non morire…

    Comunque, vedo che non vuoi proprio aiutarmi a trovare il nome giusto per le altre patologie :)

  6. Sì, come evidenzia Alcor, questo testo è monco, direi costitutivamente monco: perché è privo di corpo, certo, ma anche perché grezzo, zeppo di errori logici, sincopato in senso etimologico: spezzato nell’andamento e urticante … Come ogni testo drammaturgico, è “gestuale” più che “letterario”. Il letterario, però, vi trova ospitalità: contribuisce al “tema”, come per certi versi ha colto FM; e ciò nel senso che questo testo reagisce, coi modi suoi propri, diciamo come esempio vivente (come “incarnazione” di una certa intenzionalità), a recenti discussioni sulla “letteratura” (e ad altri testi “letterari”, sì). È un’allegoria dell’atto creativo, se si vuole.

    NeGa

  7. ma perché strano? non amo dare del “tu” e il “lei” (v. sig.ra) è anche un segno di rispetto, del resto noi non ci scambiamo mail, il suo blog che frequentavo con mi piacere mi risulta chiuso agli estranei, e cos’altro? La rispetto e finisce qui. Un caro saluto (sinceramente, che qui se non si precisa si fraintende sempre)

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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