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se potessi avere

di Maria Angela Spitella

L’ultima volta che Giovanna è andata a cena fuori, risale a molti anni fa. “Era vivo ancora mio padre, parliamo di più di sei anni fa. Allora era tutto più semplice avevamo un negozio di alimentari a Roma, in periferia, andava bene, ci campava tutta la mia famiglia, mio padre io e mio fratello, ma poi mio padre si è ammalato, le cose sono cominciate ad andare male e così siamo stati costretti a lasciare il negozio”.

E poi è arrivata la crisi, una crisi feroce, che non si è dimenticata di nessuno, una crisi che dicono, sia cominciata con l’attentato alle Torri gemelle di New York, e che si è insinuata nelle vite di persone che prima di allora stavano bene. All’inizio nessuno si è accorto di nulla, ma poi lentamente si è cominciato a dover rinunciare a piccole cose e, senza rendersene conto, si è arrivati a rinunciare alle cose necessarie.

Sembra una contraddizione, ma come si fa a rinunciare alle cose che per noi erano essenziali?
Giovanna lo spiega con serenità, senza clamori e disperazione.

Dopo la malattia di suo padre la vita è cominciata ad andare male. A prendere una piega pericolosa. Giovanna si è accorta immediatamente che doveva fare qualcosa. Così per non cedere alla tentazione di lasciarsi andare, di frasi sovrastare dallo sconforto e dalla disperazione ha ricominciato da zero. Dopo anni di normale benessere, ha dovuto riprendere in mano la propria vita per ricostruirla. Ha cominciato così a lavorare in una ditta di pulizie che si occupa delle scuole di Roma. Elementari, medie licei: “Il mio orario è dalle 18 alle 21, a volte finiamo anche più tardi. Dipende da che ora la scuola è disponibile”. Oggi Giovanna lavora in una scuola elementare del centro di Roma.“Con questo lavoro mi porto a casa circa trecento cinquanta euro”.

Insieme a lei ci sono altri colleghi. Vengono ripartite le zone della scuola che ciascuno deve pulire, e tra banchi da strofinare, pavimenti da lavare, scale da spazzare passano in fretta le tre ore che hanno a disposizione per rendere la scuola nuovamente pulita dopo un intero giorno di lezioni e dopo varie attività extra scolastiche.

Giovanna ha le mani segnate, i capelli neri tinti le scendono sulle spalle e gli occhi sono sempre sorridenti.

“Era impossibile vivere con 350 euro al mese – ci spiega – “Non mi sono mai arresa. Ma ho cercato un altro lavoro, che mi permettesse di guadagnare almeno 700 euro al mese.

Così la mattina presto vado a pulire gli uffici della Banca d’Italia”.

Come si fa, chiediamo a Giovanna, a vivere con 700 euro al mese? Sorride Giovanna con una tristezza che le attraversa lo sguardo, ma poi si fa seria e cerca di spiegare senza piangersi addosso come è la sua vita di tutti i giorni:

“In fondo non sto male. E’ da parecchi anni che non vado in vacanza, cerco di spendere il minimo indispensabile, spesso ho delle amiche che mi invitano a pranzo o a cena, anche questo è un modo di risparmiare, e poi che te devo dì, ci si abitua a tutto”, anche ad andare al mercato poco prima che chiuda per poter prendere frutta e verdura a basso costo. Giovanna torna a sorridere.

“A casa non ho ne la radio ne la televisione, però c’è chi sta peggio di me, quando vado a fare le pulizie a scuola le maestre mi lasciano sempre i panini che i bambini non mangiano a pranzo, e io li prendo e li porto ad un barbone che trovo lungo la strada, quando torno con la metro a casa, e qualcuno lo tengo per me”.

Parlando con Giovanna il tempo è volato. La guardo negli occhi, che continuano ad essere limpidi e allegri, e penso alla sua vita. Ha 45 anni, ma ne potrebbe avere anche dieci di più, il fisico è segnato dai lavori pesanti che fa ogni giorno. Siamo sedute ad un caffè vicino alla stazione Termini, a Roma, affianco a noi passano persone di tutti i tipi. Mi viene da pensare quante di loro vivono come Giovanna.

Con Giovanna ci alziamo dalle seggiole, è arrivata l’ora di andare. I ragazzi sono usciti da scuola, e comincia il suo turno di lavoro. Ci abbracciamo la vedo andare via, a piedi, verso il suo posto di lavoro, il suo turno finirà alle 9 di sera, a casa arriverà dopo un’ora di viaggio tra autobus e metropolitana, deve attraversare tutta la città, domani mattina sarà in piedi alle 5 per essere alla sede della banca d’Italia alle 6.00, e così comincia una nuova giornata.

Laura è architetto oramai da otto anni, non guadagnerebbe male se i soldi arrivassero ogni mese.

Una partita Iva che però fa un lavoro di dipendente; in Italia, dati alla mano, se ne contano 45000 di quelle che vengono definite finte partite iva, ovvero coloro che svolgono un lavoro subordinato. Questo cosa significa?

Prima di tutto, ci spiega Laura , “ Il fatto di lavorare senza un contratto vero e proprio non offre alcuna tutela, ora sono incinta e tra poco dovrò smetter di lavorare. Mi hanno detto che mi richiameranno una volta avuto il bambino, ma se qualcosa va storto, e con la crisi che sta divorando il paese in questi anni tutto è possibile, potrei anche rimanere fuori”. Noi precari a vita non abbiamo futuro. La cosa più scoraggiante e che fino a 50 anni e oltre non si raggiunge la sicurezza, e poi c’è lo stipendio. Quando va bene sono 1500 euro, ma con la crisi che ha investito anche il nostro settore, – quello degli studi di architettura -, capita che a fine mese non veniamo pagati. I committenti non pagano, e dunque lo studio non ha i soldi per pagare noi”.

“Noi cosa possiamo fare?”. Ci chiede Laura. “Siamo delle partite Iva forzate, non è certo una nostra scelta, ma chi oggi si prende il rischio di assumere persone a tempo indeterminato? “.
Laura si accarezza la pancia oramai grande, quasi volesse proteggere suo figlio che nascerà a febbraio.

Laura ha una faccia allegra, il viso color latte risalta sotto una montagna di capelli neri ricci e folti. E’ minuta e ha un corpo atletico, l’espressione serena, nonostante tutto.

Viene da una famiglia benestante i genitori sono entrambi liberi professionisti, lei ha scelto un po’ per passione e un po’ per caso di studiare Architettura.

E adesso, dopo quasi 10 anni, cosa è cambiato, cosa è accaduto.

“Dopo aver lavorato per alcuni anni a Barcellona sono tornata a Roma, per amore – ci confessa – e ho ripreso a lavorare sempre in uno studio di architetti. Laura si occupa di grandi ristrutturazioni.

La situazione in Spagna quando Laura è andata via dall’Italia, cinque anni fa, era completamente diversa da quella del nostro paese.

“Mi hanno preso in uno studio di architetti, eravamo in tutto venti persone, con un contratto regolare, ferie, malattia, contributi, e quando me ne sono andata ho anche avuto la liquidazione, guadagnavo 2200 euro al mese, più una serie di bonus che si avevano con la chiusura di progetti.” .

La situazione, come ci spiega Laura, in questi ultimi anni è degenerata anche in Spagna, sia per la crisi ma anche perché essendoci molti architetti italiani che si sono, per così dire, rifugiati a lavorare nella penisola iberica, hanno portato le cattive abitudini del nostro paese, abituati come erano a lavorare in nero e senza alcuna tutela.

L’ esperienza spagnola però la racconta come se fosse una cosa straordinaria, perché qui in Italia lo è. Non si ha diritto a nulla.

Laura ha ripreso da due anni a lavorare a Roma, in uno studio di architetti. Si trova molto bene, fa un lavoro che le piace e la soddisfa, ma non sempre è sufficiente. “A volte lavoro anche 9, 10 ore al giorno”, ma in questi ultimi mesi lo stipendio si riduce spesso, colpa della crisi. Così Laura si trova a doversi accontentare, a volte va avanti con 1000 euro al mese, e ora che nascerà il bambino sarà molto complicato.

Il male di questo tempo, è che si lavora per pagare le bollette, e non per costruire un futuro. I sacrifici che Giovanna e Laura e molte altre donne come loro fanno per tirare avanti la vita, non servono per costruire ma coprono le spese di ogni giorno, quando è possibile.

Laura ha il sole che le illumina il viso, in una piazza di Spagna piena di turisti, si guarda intorno e abbassa lo sguardo come per pudore, anche a lei che ha scelto questa professione per passione, il dubbio di cercare un lavoro sicuro le viene, pur essendo la situazione difficile in tutti i settori.

“A volte penso che sarebbe più facile fare la commessa”. E’ un momento duro per il paese, Laura ci dice che per ora alternative almeno per lei non ce ne sono. La priorità in questo momento è il bambino che deve nascere, poi si vedrà; non è arrabbiata, è solo amareggiata per una situazione che non ha vie d’uscita. “ E se lo studio nel quel lavoro non mi chiamerà più, ricomincerò tutto daccapo”.

E non è la sola laura a dover ricominciare tutto d’accapo , mancano pochi giorni, e il 23 gennaio entrerà in vigore la così detta legge del collegato lavoro. Una legge che è una tagliola per i lavoratori che non hanno un posto a tempo indeterminato, e in Italia sono assai, una legge la 183/2010 che all’articolo 32 stabilisce che dal giorno dell’entrata in vigore della suddetta legge , il 24 novembre scorso, i lavoratori che vogliono contestare un contratto a termine, un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa o a progetto o anche coloro che sono partite Iva, atipici appunto ma lavorano in maniera subordinata, hanno 60 giorni per andare dal giudice e fare causa al datore di lavoro, scaduti i quali, tutto il loro storico, ovvero tutti i contratti che hanno negli anni stipulato con l’azienda decadono

Insomma altri diritti violati. Ora o mai più. I lavoratori che siamo andati ad incontrare lavorano in una grande azienda pubblica, nei corridoi non si fa altro che parlare di collegato lavoro, si vedono occhi smarriti, facce stremate da discussioni molto lunghe e sfibranti, ci sono persone che non dormono da giorni. La notte porta consiglio dicono, invece le notti passate insonni di questi lavoratori portano incertezze.

Si passa dalla convinzione granitica di scrivere la famosa lettera nella quale si rende noto all’azienda che verranno impugnati i contratti passati, e poi si passa alla paura di non venire più chiamati, perché l’atto in questione che tra l’altro è previsto dalla legge per poter guadagnare 270 giorni in più per decidere se fare causa o meno e non perdere il pregresso, potrebbe venire ritenuto dall’azienda ostativo.

La sensazione è di angoscia e di perdita. Si rincorrono voci, ci si scambiano opinioni. Si deve andare avanti sostengono i più, non si possono cancellare i propri diritti acquisiti in anni di lavoro per paura, e soprattutto va difesa la dignità di noi lavoratori.
Certo è che la questione è spinosa.

La maggior parte dei lavoratori coinvolti campano del lavoro che fanno, e non venire richiamati più dall’azienda sarebbe un problema non indifferente. Ci sono intere famiglie che vanno avanti con il loro compenso.

Il 23 si avvicina, e gli atipici in questione cercano di unire le forze per costruire e non demolire, come prevede la legge sul collegato lavoro, la loro storia passata.

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6 Commenti

  1. E’ proprio così. Ciao Mariangela: pensa 1300 nuovi giornalisti all’anno ma se non sei d’accordo con il tuo editore prendi e te ne vai: così ho fatto io nel 2004. La liquidazione è finita in contributi, smessi di pagare ormai da tempo con quale garanzia per la pensione non so, e da allora qualcosa troverò m’ero detta. A Bari? Dove lavorano solo gli iperraccomandati? Un mese di sostituzione estiva un anno. un altro quattro anni dopo, un lavoro di scrutatrice per 300 euro lo scorso maggio e STOP: Ma come pensate che viva io? Alle spalle dei miei, cari anziani genitori (ora purtroppo solo una) e della carità dei fratelli. Eppure io sono una giornalista!!!

  2. Carne da macello di un’aristocrazia opulenta siamo diventati.
    Algeria, Tunisia, Grecia, Albania…dopo il Portogallo pare sia il nostro turno.

    Bell’articolo, toccante e vicino, sono anche io disoccupato e “bamboccione”.
    Mi permetto di dire che c’è qualche refuso nel testo.

    A presto

  3. Sì però non esageriamo… “a casa non ho la radio…”
    Una radiolina costa 5-6 euro e funzionano anche bene…
    Certo se uno vuole un superstereo…
    Io vado avanti da anni con piccole radioline comprate al supermercato, costano pochi euro e funzionano perfettamente.

  4. Capite finalmente quanto è sviante continuare a occuparsi solo di PM, di finanziamenti alla cultura, di finte zoccole, di finti scrittori eroi, di finte nuove narrazioni, di finta ecologia, di finte lotte alle mafie? Bisogna rimettere al centro la vita vera, la creatività, l’immaginazione e il lavoro. Bisogna capire che se le imprese aumentano i profitti senza aumentare la produzione, ci rimettono di brutto i lavoratori e chiunque sia in cerca di un lavoro. Bisogna capire che la perdita dei diritti è cominciata 15 anni fa, e non far finta di accorgersi della lotta ai diritti per via che ci sono di mezzo gli operai FIAT. Bisogna capire che se chi fa guadagni finanziari investendo in borsa paga tasse solo per il 12,5% deruba tutti noi.

    Bisogna fare poche battaglie, perché energie ce ne sono poche. Ma se si fanno le battaglie giuste si possono ottenere dei risultati, il primo e più importante dei quali è il salario di cittadinanza. Se si fanno le battaglie giuste…

  5. E’ ora di parlare molto di meno dei problemi della Fiat e molto di più dei problemi delle piccolemedie aziende che mantengono in vita, a termine, l’intero sistema. Mentre i grandi si fanno reggere dallo Stato, i piccoli falliscono.

  6. “La situazione in Spagna quando Laura è andata via dall’Italia, cinque anni fa, era completamente diversa da quella del nostro paese.”

    “Mi hanno preso in uno studio di architetti, eravamo in tutto venti persone, con un contratto regolare, ferie, malattia, contributi, e quando me ne sono andata ho anche avuto la liquidazione, guadagnavo 2200 euro al mese, più una serie di bonus che si avevano con la chiusura di progetti.” .

    La situazione, come ci spiega Laura, in questi ultimi anni è degenerata anche in Spagna, sia per la crisi ma anche perché essendoci molti architetti italiani che hanno portato le cattive abitudini del nostro paese, abituati come erano a lavorare in nero e senza garanzie”.

    Certo che qui in Spagna le codizioni degli architetti erano migliori che in Italia. Questo perché in Spagna la speculazione edilizia in questo anni ha raggiunto picchi mai visti in Europa, si sono cementificate regioni intere, distrutti parchi, paesaggi, borghi, centri storici con una immensa colata di cemento che ha sepolto anche una generazione. Il tasso di abbandono scolastico è in Spagna del 30 per cento in media ma sulle coste di piú perché chiunque poteva trovare un impiego in nero nerissimo, senza nessunissima garanzia di niente pagato con bigliettoni da cinquecento euro tolti da grandi valige colombiane ancora con uno spolverio di coca e cosí non aveva proprio bisogno di studiare. C’era denaro da scialare per architetti, capicantiere, capimastri e quant’altro ma era denaro dovuto al riciclaggio e alla corruzione, alla distruzione selvaggia del territorio. Le cattive abitudini in Spagna erano largamente endogene e no hanno bisogno qui degli italiani per imparare a fare il lavoro nero e a non emettere fatture. Io da quando sono qui non ho mai trovato un professionista che mi facesse una ricevuta e nemmeno nessuno che pensasse di aver diritto di richiederla. Se qui dici la parola ricevuta o fattura ti guardano come fossi scemo. Tutti gli ecuadoriani e boliviani che conosco lavoravano nell’edilizia in nerissimo e non in nero. I laureati dell’America latina che sono venuti a lavorare qui lavorano per lo piú “a progetto” non hanno diritto né a metrnitá, né a malattia e neppure alle ferie. Dire che la colpa è degli italiani è davvero il colmo.
    genseki

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