KEATS E LEOPARDI – I parte

di FRANCO BUFFONI

Per Friedrich Schiller, nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (composto nel 1795-6), il poeta “moderno” soffre di una lacerazione tra lo “spirito” e i “sensi”: “Il poeta sentimentale deve sempre lottare tra due sentimenti contrapposti: la realtà come vincolo e l’idea come infinito”. John Keats ha cinque anni e Leopardi due allorché Schiller, nel 1800, pubblica il suo saggio.
Certo, pensare a Leopardi per qualche settimana cavalier servente di Fanny Targioni-Tozzetti nella Firenze del 1830… o a Keats ventunenne vestito alla Byron nella Londra del 1816, quando decise d’essere poeta a tempo pieno… Per entrambi l’infatuazione mondana fu breve: quella keatsiana era già svanita nella primavera del ’17. Resta la patetica coincidenza di quel nome: Fanny. Piccolo borghese la mentalità di Fanny Brawne, e vero amore quello di Keats, ammesso ufficialmente in casa come “fidanzato” solo quando divenne palese lo stato di irreversibilità del suo male. Quindi, umiliandolo ancora di più. Era il 22 dicembre 1819. E qualche settimana più tardi Junkets (come affettuosamente lo apostrofava Hunt nei giorni felici) avrebbe scritto a Fanny: “Non lasciare che tua madre pensi che mi fa male se mi scrivi di sera. Mi piacerebbe che mi chiamassi ancora Amore. Che barriera la malattia innalza tra me e te!”.
Ma nella stessa lettera indirizzata a Fanny del febbraio 1820 si leggono anche frasi di questo tenore: “Ora che mi è accaduto di passare delle notti sveglio e pieno di ansie, altri pensieri mi hanno occupato. ‘Se morissi ora’, dicevo a me stesso, ‘non ho lasciato nessuna opera immortale dietro di me, niente che possa rendere i miei amici fieri della mia memoria’”. Keats aveva allora già composto tutte le grandi odi, ma nessuno le aveva notate. Solo l’insuccesso di Endymion pesava, con la conseguente decisione di passare da Iperione a La caduta di Iperione lasciando quest’ultima grande opera incompiuta. Probabilmente è sincero Keats quando dice di non avere ancora scritto nulla di veramente grande. Lo pensa davvero. Come Leopardi, forse, quando si vedeva accolto come “erudito” e come “filologo”…
Riconoscimento tardivo per entrambi, dunque. Post mortem. Si pensi – per contro – alle quattromila copie di Childe Harold vendute da Byron in un giorno; o all’attesa per ogni nuovo inno sacro manzoniano. E – per entrambi, Keats e Leopardi – rifiuto dei “modelli”, dopo le grandi delusioni delle conoscenze “dirette”, e rifiuto – forse – anche dell’idea di diventare popolari. Il “popolaccio” d’Italia, annotava Leopardi, è il più cinico fra tutti i popolacci. (“Sento che è nelle mie possibilità diventare uno scrittore popolare”, scrive Keats a Reynolds il 25 agosto del ’19, “e sento anche in me la forza per rifiutare il velenoso consenso del pubblico”). Per non dire della fuga di entrambi dai circoli letterari e dai salotti. In Keats il disprezzo è per il “literary chit-chat” londinese: “Sono assolutamente disgustato dei letterati”, scrive a Bailey nell’ottobre del 1817, “e non ne voglio conoscere più, eccetto Wordsworth”. (L’incontro avverrà e sarà per Keats la delusione più grande). E nel 1822-3, in occasione del soggiorno a Roma, Leopardi ha modo di osservare: “Questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura. Tutto questo m’avvilisce in modo, che s’io non avessi il rifugio della posterità, e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte”. E in questo possiamo – volendo – cominciare a individuare una prima differenza. Leopardi visse abbastanza a lungo per poter credere nella necessarissima illusione di una posterità che raddrizza i torti. Keats no.
E per fortuna non aveva ragione Arthur Hallam, che – in epoca vittoriana, a proposito di Keats e Shelley – giunge a chiedersi: “Ma perché mai dovrebbero essere popolari, loro, i cui sensi sempre colsero racconti tanto più ricchi e ampi di quanto la maggior parte degli uomini potesse comprendere, e che costantemente espressero, perché costantemente sentirono, sentimenti di piacere squisito e dolore, che alla maggior parte degli uomini non è concesso di provare?”. Non aveva ragione, perché poi i posteri rimisero le cose a posto. E quindi è forse possibile alludere a una specie di legge del contrappasso poetico – concernente in particolare il periodo romantico – in ragione della quale difficilmente i posteri apprezzano ciò che i contemporanei esaltano. Ma il giudizio di Hallam, sostituendo idealmente al binomio Keats-Shelley il binomio Keats-Leopardi, può fungere da perfetto tramite per illustrare un altro fondamentale tratto in comune tra i due poeti. Hallam parla di estrema tensione dei sensi, di assolutamente non comune stress emotivo. “Si ha talora la sensazione che i nostri padri, i contemporanei dell’Offenbach più giovane, e i nostri nonni, i contemporanei di Leopardi, e tutte le innumerevoli generazioni antecedenti, abbiano lasciato in eredità a noi, i posteri, solamente due cose: mobili carini e nervi raffinati”. Così inizia un saggio di Hugo von Hofmannsthal del 1892.
Inutile dilungarci sulla questione salute e nevrosi in Leopardi. E in Keats? “Penso che se avessi una libera, sana e duratura organizzazione di cuore e polmoni – forti come quelli di un bue – così da poter sopportare incolume l’urto estremo di pensiero e di sensazione senza stancarmi, potrei passare la vita da solo anche se dovesse durare ottant’anni. Ma sento che il mio corpo è troppo debole per sostenermi… sono continuamente obbligato a frenarmi e cercare di essere un nulla”. Cattiva salute, nevrosi e stanchezza. Nella lettera a Reynolds del 21 settembre 1819 si legge: “Perdonami se non riempio l’intera pagina… Durante la mia passeggiata, oggi, mi sono piegato per passare sotto una specie di ringhiera che era sulla mia strada, e mi sono chiesto: ‘Perché non l’ho scavalcata?’. ‘Perché’, mi sono risposto, ‘nessuno ha voluto forzarti a passarci sotto'”.
Ma anche – per entrambi – nevrosi come produttrice di immagini e di memorabili epifanie. Nella medesima lettera si legge ancora: “In qualche modo i campi di stoppie sembrano caldi, come può sembrare caldo un dipinto. Questo mi ha colpito così tanto durante la mia passeggiata domenicale che ho scritto una poesia”. Per incidens: si tratta di “To Autumn”. Ma Keats, a questi componimenti scritti di getto – che poi sono quelli che lo hanno consegnato per sempre alla storia della poesia – non dava importanza. Per lui contavano solo i cosiddetti longer poems. E in questo atteggiamento vediamo una sostanziale ragione di distanza di Leopardi rispetto a lui. Intendendo Leopardi come poeta consapevolemente moderno. Anche nella invenzione metrica e nel rifiuto dei longer poems mitologici. Keats come moderno malgré lui.
A riguardo può essere illuminante citare dalla lettera a Bailey dell’8 ottobre 1817, dove Keats si domanda “perché intraprendere un long poem?”. La risposta è quanto di meno “moderno” (nel senso leopardiano) si potrebbe immaginare: “Chi ama la Poesia non preferirebbe forse avere una piccola regione in cui vagare di fiore in fiore, e in cui le immagini fossero così numerose che molte se ne potessero perdere e ritrovarne delle nuove a una seconda lettura? dove ci fosse cibo in abbondanza per una passeggiata di una settimana in primavera? Non preferirebbero questo a qualcosa che si fa in tempo a leggere prima che Mrs. Williams scenda le scale? il lavoro di una mattina al più? Inoltre un Poema lungo mette alla prova l’invenzione che secondo me è la stella polare della poesia, come la fantasia è le vele, e l’immaginazione il timone. I grandi poeti hanno forse mai scritto dei pezzi brevi?”.
Il punto è davvero cruciale. Keats spese l’intera esistenza alla costruzione di superbe architetture mitico-poetiche (Endymion, Hyperion…) riuscendo al più a soddisfare il gusto medio di qualche contemporaneo. Che tuttavia non le apprezzò più di altre “superbe” architetture di autori oggi completamente dimenticati. Se di Keats ancora leggiamo, traduciamo e studiamo i longer poems è perché egli è l’autore delle brevissime odi all’usignolo, all’urna greca, all’autunno. E persino della ballata della “Belle Dame” che lo consacrò presso i pre-raffaelliti. Tutte composizioni scritte di getto, senza un minimo di architettura, se non quella della nevrosi e dell’anima. E naturalmente dell’expertise acquisita scrivendo e architettando i longer poems. Si potrebbe proprio dire che questi ultimi servirono ad uno scopo assolutamente ignoto all’autore. Furono tirocinio, laboratorio, palestra sempre in funzione: il mito del long poem accompagna infatti Keats sino alla fine, con la scrittura interrotta di The Fall of Hyperion. I quattro favolosi anni della vita poetica keatsiana sono dunque vòlti alla illusoria creazione del nuovo grande Paradise Lost; tuttavia essi inanellano – come una catena alpina avvolta dalle nebbie – le grandi vette (“casuali”) dei componimenti brevi. E naturalmente – all’interno dei longer poems – appaiono brani stupendi di libera poesia che potrebbero benissimo costituire dei componimenti autonomi, come l’inno a Pan o la canzone della fanciulla indiana, rispettivamente nel I e nel IV libro di Endymion.
Pensiamo invece a Leopardi e alle sue modernissime redazioni in prosa preparatorie della successiva “messa in versi” nei Canti. Dove l’architettura consiste in un ragionamento e la mitologia – il mythos – funge esclusivamente da punto di appoggio virtuale per la distensione del logos. In questa ottica, Keats (con la sua distinzione tra la grande “costruzione” mitologica dei longer poems e la irrilevante “spontaneità” delle composizioni brevi) ci appare molto più vicino a Foscolo o a Hoelderlin che a Leopardi. Ma Hoelderlin – per contro – è più apparentabile a Leopardi per quanto attiene l’ambito metrico-formale, in particolare l'”invenzione” del verso libero.

Scrive Leopardi: “Il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi… con non altra soddisfazione che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui”. Sintetizza Keats nell’incipit all’Endymion: “A thing of beauty is a joy for ever”. Non credo sia il caso di ritornare sulla questione della settecentesca e frequente menzione associata dei termini “bellezza” e “verità”. Già ho avuto modo di osservare come, infine, la bellezza si configuri alla stregua di una “funzione” della verità, e la verità di una funzione della bellezza. Per Keats, certamente, bellezza e verità possono anche venire separate nell’analisi, ma – nella viva esperienza dell’atto creativo – sono tanto inseparabili quanto l’emozione lo è dal pensiero. Perché, tanto la verità quanto la bellezza indicano – l’una nel linguaggio del cervello, l’altra in quello del sentimento – che è il momento della perfetta sintesi creativa: il momento cioè della coincidenza tra stato emotivo, capacità artistica e istante particolare dell’essere universale. Il momento, per dirla con Carlyle (coetaneo di Keats, ma in grado poi di attraversare fisicamente l’intero secolo), in cui “l’infinito si fonde con il finito, e si rende visibile, così che pare di poterlo afferrare, quaggiù”.
Per Leopardi il vero era nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui il poeta dichiara che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. E, precocemente raggiunta la convinzione dell’impossibilità di rigenerazione – o persino di conoscenza – attraverso una palingenesi di stampo salvifico, la filosofia diventa scienza. Come Bacone, come i primi grandi greci, Leopardi si occupa di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell'”arido vero”, ma fortemente percependo l’irrinunciabilità di tale propensione.
Ma la vera ragione per cui mi sono indotto ad accostare i due poeti che più ho amato nella mia giovinezza, concerne l’assoluta onestà intellettuale di entrambi, che impedisce loro di abbracciare surretiziamente un credo metafisico. (Continua, domenica prossima).

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14 Commenti

  1. bellissimo e interessantissimo post su due dei miei poeti preferiti. non vedo l’ora di leggere il seguito domenica prossima.

  2. Il mythos e il lirismo hanno in comune quella fluidità dalla quale nascono, come perle, le epifanie. Felicissima di leggere questo omaggio, proprio prima di fare domani una lezione su Leopardi. Perfetta coincidenza, grazie !

  3. ma sarà ‘vero’ questo disprezzo per i letterati? e che a un certo punto non vollero saperne più nulla? può essere che un poeta passi parte della vita a cercare i propri simili e il resto a liberarsene?

  4. assolutamente sì, e da parte di entrambi. Perché – per usare le tue parole – si accorgevano che con quel literary chit-chat non erano i loro simili, erano solo dei mediocri opportunisti. Ma approfondirò il punto in un successivo post. Un caro saluto a te f

  5. bel post franco,

    è sempre molto interessante l’errore di prospettiva che gli autori possono esprimere nei confronti del loro lavoro, sopratutto nei confronti dei generi o degli aspetti della loro opera che si convincono siano o saranno i più importanti; dunque tutta la faccenda che citi dei “longer poems” di Keats a fronte dell’importanza delle odi; è come se certi capolavori nascessero a margine dei generi letterari dominanti, nei quali gli artisti buttano tutte le loro energie, in conformità con i dettami estetici dell’epoca…

  6. Perfetto, Andrea, e questo Leopardi l’aveva capito benissimo; Keats no. Perciò ho diviso il post in due puntate. Mettendo nella prima come centrale la questione dei longer poems, dove Leopardi è è già moderno e Keats no.
    Mentre domenica prossima, centrale sarà la questione dell’io (vexata quaestio della poesia lirica moderna) e lì vedremo capovolgersi la situazione. Abrazos y besos. francisco

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franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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