L’onda del controtempo

di Marco Rovelli

Come dire a tuo padre che stai facendo nient’altro che il tuo dovere? Di mattina presto, attorno al tavolo della casa natale, lontana mille chilometri dalla nuova casa. “No, non adesso, il caffè dopo, adesso racconta”. Da quella prospettiva, lontana e obliqua, con i piani sfalsati, da cui tutto si confonde, non si riesce a dire che cosa è doveroso fare. E allora Rosaria deve raccontarla al padre la sua percezione, deve spiegargli perché ha deciso di mettersi in movimento, di seguire l’onda del tempo, e l’onda del tempo le fa dovere di scendere in piazza e levare la voce. Ma forse bisognerebbe dire che è l’onda del controtempo, quella di Rosaria. Di giovani che hanno deciso di non starci al flusso delle cose, un flusso che li priva di futuro, che li vorrebbe trattenere in un’impotenza senza scampo. Ognuno di loro conosce dei laureati che non trovano lavoro o che sopravvivono nel precariato, ognuno di loro sente su di sé, e non per sentito dire, che questo Paese non investe su di loro. Così il flusso del tempo lo vogliono deviare. Fanno diga, o barricata. Si mettono di mezzo, letteralmente. In mezzo alle strade, in mezzo alle piazze. Tutti interi, fisicamente, in carne e ossa, ognuno con la propria verità singolare. Rosaria racconta al padre che è un dovere che si respira, nella sua cittadella universitaria, a Pisa, dove è andata a studiare Giurisprudenza.  E’ un dovere impegnarsi, dice Rosaria. E non solo per sé. Questa è una “generazione in sé” che tende a diventare una “generazione per sé”, potrebbe dire il teorico riprendendo il Karl Marx: come il proletariato un tempo, i suoi interessi, oggi, sono gli interessi di tutti.

A Pisa applaudono quando passano i cortei, ma alle assemblee aperte alla cittadinanza la cittadinanza non è che si veda così tanto. E’ inevitabile, ma una ragazza di 22 anni che sente di lottare per tutti si aspetta l’impossibile. Però poi si volta indietro, e vede che in Calabria è peggio, molto peggio. Rosaria sa già cosa succederà oggi pomeriggio, quando vedrà i suoi vecchi compagni di scuola. Battute sui soliti comunisti, o al più un’asinina, atavica indifferenza: “quello che decidono a Roma è deciso, che ci possiamo fare noi”, “tanto non cambia nulla”. Pochi tra loro cercheranno di capire, gli altri si fermano a quel che dice la tv di Stato. Con tanti saluti, pensa Rosaria, al diritto allo studio, che pure per i loro genitori, e per loro di conseguenza, è stato così importante. Non si metterà certo a parlare con loro del 14 dicembre, quando è andata a Roma a manifestare, nel giorno del voto di fiducia al governo. Ma al padre glielo deve dire, adesso, per filo e per segno. Non gli aveva detto nulla per non farlo preoccupare, ma adesso occorre restituire l’intera trama del suo tempo ribelle.

Ma come spiegare al padre quel giorno? Come fargli capire che lei è sempre la stessa ragazza che si impegnava in parrocchia, faceva volontariato, lavorava con quelli di Libera, e poi il resto del tempo studiava  a fondo e si appassionava al ballo popolare, la taranta, la pizzica, come fargli capire che questo tempo odierno è lo stesso impegno, e la stessa gioia? Quando era adolescente, al paese, era al prete che prestava fede, quello che magari si rifiutava di svolgere la festa patronale per non mischiarsi con i mafiosi della ‘ndrangheta. Non c’era nessun altro, intorno. Nelle istituzioni Rosaria vedeva l’antistato, perché conosceva le persone che occupavano i posti di comando, sapeva chi erano, e quell’essere non le piaceva. Non si può dire che lo Stato manchi, da quelle parti, ma è proprio che lo Stato e l’antistato, da quelle parti, si confondono. Al liceo di Melito Porto Salvo, all’indomani dell’omicidio Fortugno, il preside negò l’assemblea che i rappresentanti, tra cui Rosaria, avevano richiesto. E nessun docente si fece sentire. Andarono alla manifestazione riempiendo due pullman, ma la scuola disse che non potevano presentarsi come liceo. Erano quelle le istituzioni che Rosaria aveva di fronte. E fu anche per questo che decise che avrebbe fatto giurisprudenza. Perché aveva già molto chiaro il significato, e il dovere, dell’espressione “fare giustizia”.

A Pisa Rosaria ha incontrato ragazzi che credono nello stesso dovere, e solo lì ha cominciato a credere nella politica, nell’impegno civile, e anche nel valore delle istituzioni. Fino al 14 dicembre, però. Quel giorno è cambiato tutto. Ma come spiegarlo al padre quel giorno? Con i rumori.

Le pale degli elicotteri sempre incombenti sulla testa. I fendenti delle sirene che tagliavano lo spazio. Il ritmo truce dei manganelli battuti dalla polizia sugli scudi a monito di guerra tribale. I colpi dei lacrimogeni. E poi, d’un tratto, dopo una falsa notizia che la fiducia al governo non era stata approvata, la verità: il governo aveva la fiducia. E per tutte quelle migliaia di ragazzi, per molti dei quali era la prima grande manifestazione, un crollo. Crolla tutto, è un intero Paese che crolla e che li vuole trascinare giù con sé. Quelle strade controllate dagli elicotteri e circondate da muri di scudi fanno l’effetto di una gabbia che non si può non voler spezzare. Per respirare. Così le auto blu bruciate sul lungotevere, a segno tangibile di un’alterità assoluta da una politica inerme, impotente, implosa in un teatrino colpevole. E non c’è nessuno che non senta, in quel momento, che è inevitabile quella presa di distanza. E poi piazza del Popolo, ancora la polizia, una camionetta bruciata, l’applauso della piazza, la fuga tra le barricate. Quel giorno, dice Rosaria, ci ha cambiati tutti. Ha segnato una distanza incolmabile dalla politica così com’è. Noi vogliamo una politica nuova. E una politica nuova parte dalla presenza fisica. E’ una generazione virtuale che comincia a sentire l’impotenza della sua smaterializzazione, e grida: “se non cambierà, ci riprendiamo la città”. Non la rete, non facebook, ma le strade e le piazze. Per il bene comune. Per i beni comuni. E abbiamo appena iniziato, dice Rosaria.

“Sono fiero di te”, ha detto il padre dopo tre ore di racconto. E ha preparato il caffè.

(pubblicato su l’Unità, 16/2/2011)

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14 Commenti

  1. Mi avvilisco e mi abbatto nella consapevolezza che non tutti vogliamo lo stesso Stato e che se ne è perso il profilo, il connotato.

    Stato come istituzioni,impresa,lavoratori. Stato come sintesi unica dei fattori produttivi (capitale/lavoro) ma anche come cultura, sentire, prospettiva futura.

    Mi avvilisco e mi abbatto, ma nel mio piccolo io non mollo e mio padre lo sai.

  2. Vi riprendete la città? Mi scuso per lo scetticismo, ma nelle città è assai se vi ci fanno camminare, almeno se non la smettete di sentirvi superiori ai loro legittimi proprietari… E poi, se davvero volete contare qualcosa, in quanto giovani, è l’immaginario che dovete riprendervi, perché chi controlla l’immaginario le città può anche farle sparire…

  3. Gran bel racconto, caro Marco. E che bella gioventù, al di là di quello che racconta la vulgata televisiva…

  4. @ Larry Massino, più che scetticismo mi parrebbe pessimismo nudo e crudo.

    Una battuta storica di un film noto a tutti recitava così:

    – Ricordati che devi morire … (recitazione enfatizzata)

    – Come? (recitazione stupita)

    – Fratello, ricordati che devi morire … (recitazione altamente enfatizzata)

    – Va bene … (recitazione dubitativa)

    – Fratello, ricordati che devi … MORIRE! (recitazione solenne)

    – Sì, sì … mò me lo segno proprio, non vi preoccupate. (recitazione accomodante).

    Un sorriso aiuta la vita.

  5. Cara Milena, nello stesso film:

    Ma come, “che ci hanno fatto gli americani?”. Gli indiani… che non si vede più un indiano a pagarlo oro, da nessuna parte del mondo… non c’è indiano da nessuna parte: l’hanno ammazzati tutti, hanno fatto finta d’essere arrivati prima gli americani! “Voi che ci fate qui?”. Gli indiani: “Noi ci siamo sempre stati”. “Sempre stati? Ah, ah, ah”. Trac, secchi tutti! Gli indiani che avevano scoperto l’America, altro che Colombo! Eh, gli indiani stavano già lì: se non ci trovava nessuno, l’aveva scoperta lui. Ma c’erano già gli indiani. No, Mario? Eh? Come se io ora vado in Puglia e dico: “Ueh, la Puglia!”. Oh, i pugliesi son duemila anni che stanno lì, lo sapranno che c’è la Puglia!

    Chi controlla l’immaginario è sempre con il sorriso in bocca, può far sparire città, regioni, popoli, culture e poi farli riapparire come non fossero mai esistiti.

    Il sorriso aiuta la vita? E’ uno slogan abbastanza idiota che proviene dalla cultura che lei dice di combattere. Mi dispiace doverglielo ricordare.

  6. A me pare, Larry, che quanto dice Milena si potrebbe parafrasare in qualche modo col noto adagio Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Dove l’accento va sull’ottimismo della volontà che si manifesta, fisicamente, nelle strade. E da lì, sempre per quel che vedo, ricomincia un’operazione sull’immaginario di un’intera generazione.

  7. @ Rovelli

    La ringrazio per il sol fatto di aver compreso il mio spirito, in questa Italia mi sembra già un privilegio da preservare.

    @Larry Massino

    Mi perdoni, ma rimpiango i miei due commenti nella misura in cui ho dimenticato che esprimere la propria opinione ormai vuol dire essere offesi – da sconosciuti come lei (cfr. slogan abbastanza idiota) – e attaccati verbalmente come ahimè è diventato costume anche su queste pagine … che dovrebbero, invece, essere portatrici di dialogo e toni vocali ben diversi.

    Il rimpianto nasce dal fatto che alla fine mi sembra che l’abitudine generalizzata sia quella di competere e vincere (a botte di commenti rasenti la maleducazione) sull’altro che ha, magari, un’idea diversa dalla propria … vado a dormire portando però nella mente quanto ho letto di Rovello, tutto il resto … è noia.

  8. Mi scuso a nome di Nazione Indiana – o forse a nome solo mio, Milena. Troppo spesso, è vero, in questo luogo volano insulti con troppa leggerezza.

  9. Mi sa che voi della variegata NI ci avete anche un’avanguardia che non sa leggere, perché io non ho mia offeso la persona, cioè a dire non ho detto mai, e mai lo direi, né lo farei intendere… che Milena o chicche e sia è un idiota: io ho detto soltanto che lo slogan ” Un sorriso aiuta la vita ” è idiota. Mi dovete delle scuse. Se non potete saldare subitaneo, metto in conto.

  10. @Larry,
    l’immaginario è andato.
    (qualcuno si capacita di quella schifosa pubblicità rai sulle varietà dialettali? Altro che le variegate NI. Vantarsi di uno stupro, uno stupro al rovescio. Una bambinona ova-e-saggiccia violenta un vecchio signore tranquillo, al parco. la bambinona si vanta)
    l’immaginario non lo domineremo mai.
    ora è il turno di silvio sulla giostra. ma silvio segue un bel po’ l’andazzo globale.
    è tutto fottuto, altro che racconti di fronte a tazze fumanti, padri entusiasti.
    ma poi, Rovelli, 3 ore prima di fare un caffè? da me se ne succhiavano 5 nel frattempo.

    @Milena
    Il suo ultimo intervento supplichevole dimostra come l’immaginario che citava Larry condizioni i suoi giudizi. Se proprio vogliamo esser pignoli e tirar fuori un po’ di sana logica, è vittima di una fallacia, dato che idiota è lo slogan, non chi l’ha enunciato. Se lei risale dal concetto proferito a sé medesima ha la coda di paglia e probabilmente poca convinzione nei suoi poteri. (Spero non dirà che le ho dato della strega…)

    Italia, che se deve a da sentì!

  11. Larry, è vero che tu hai detto che quello slogan che Milena ha usato è idiota, e non hai detto che Milena è idiota. C’è una differenza, è evidente. Ma converrai che potevi esprimere il tuo parere in maniera più dialogica. Usare l’insulto – sia pure per qualificare l’enunciato e non l’enunciante – non è il modo migliore per dialogare. E chi magari ha già di suo delle resistenze ad esporsi, e a scendere in un agone come questo, di fronte al primo accenno di sia pure indiretta aggressione fugge, come ha fatto Milena. Condizionata peraltro da tutto un clima pregresso, come risulta dal suo ultimo commento, che è un clima ahimé troppo frequente da queste parti. Il tuo “idiota” riferito all’enunciato di Milena è certamente nulla rispetto a molte altre cose che qui sono normali. Ma in questo contesto assume un senso per cui Milena – che presumo giovane – guarda caso abbandona il campo, se ne va. E a me non piace che se ne vada. Io ribadisco perciò le scuse, che sono poi scuse in generale per il clima di cui dicevo.

  12. Ummm. Io non sono tanto convinto che la frase “Un sorriso aiuta la vita” sia idiota. Forse sarebbe più corretto dire che un sorriso aiuta a vivere, nel senso che, almeno a me, capita che quando vedo le persone sorridere mi sento un po’ più “leggero”. Sarà pure una cosa banale, ma un sorriso non mi lascia indifferente. Certo non mi risolve i problemi, ma non credo che Milena intendesse che basta sorridere per non avere problemi. Si potrebbe dire che è una frase abusata, piuttosto, fino a farla sembrare un’idiozia. Ma, di suo, non mi sembra idiota.
    Che potrei pure dire che “L’immaginario è andato” (e la questione dell’immaginario in generale, eh) è una cosa abbastanza idiota, nel senso che l’ho sentito ripetere talmente tante volte che mi sembra anch’esso uno slogan.
    Però chi l’ha scritto qui io penso che non trovi la cosa idiota. Tra l’altro, mi sembra pure una cosa vera. Come quell’altro slogan.
    Che poi per lo slogan non è importante che una cosa sia vera o falsa, ma che riesca nello scopo di venderti qualcosa.
    Il problema, per me, è l’abuso delle parole, è il piegare ogni espressione verbale, il martellare continuo fino a svuotare le parole, a rendercele indifferenti, a farcele guardare con sospetto perché usate in modi tanto diversi con fini ogni volta differenti.
    Ma anche questo l’ho sentito dire, l’ho letto tante volte.
    Ma io sono fissato coi sorrisi, anche da prima di conoscere questa poesia di W. Blake.

    The Smile

    There is a smile of love,
    And there is a smile of deceit,
    And there is a smile of smiles
    In which these two smiles meet.

    And there is a frown of hate,
    And there is a frown of disdain,
    And there is a frown of frowns
    Which you strive to forget in vain;

    For it sticks in the heart’s deep core,
    And it sticks in the deep back bone.
    And no smile that ever was smil’d
    But only one smile alone,

    That betwixt the cradle & grave
    It only once smil’d can be;
    But when it once is smil’d,
    There’s an end to all misery.

  13. @Rovelli sono abbastanza d’accordo sulla questione dialogica, l’ho scritto tante volte che la dialogica è un punto importante, anche qui, il più possibile sorridendo. ma se la vogliamo mettere su questo punto, potrei leggere anche io un’intenzione offensiva in chi mi suggerisce di sorridere (potrebbe stare per vecchio parruccone che ne sai tu della vita che noi siamo ggiovani!). tra parentesi, non sono ancor vecchio, ahimé, e in tutta la mia vita altro non ho fatto che il buffone, altro non ho fatto che buffonerie, quasi sempre riuscendo a scavalcare la linea mediana del luogo comune satiresco. in tutta la mia poco onorevole vita, insomma, altro non ho fatto che ridere e far ridere. ma il riso poco ha a che fare con l’ottimismo da soviet novista civilista.

    All’abuso di parole di cui dice quell’altro mi permetto di rispondere che in un blog letterario avercela con l’abuso delle parole è parecchio spiritoso.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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