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Monte Hellman: figure nel paesaggio

di Rinaldo Censi

E, sebbene una popolazione illuminata e crescente abbia fatto irruzione nella solitudine, e con la sua attiva forza abbia apportato mutamenti che sembrano magici, pure la caratteristica più distintiva, forse la più pregnante, dello scenario americano è la sua natura selvaggia. (Thomas Cole, «Pittura e paesaggio in America»)

Nel 1955 André Bazin pubblica un testo che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, il suo attaccamento, il suo interesse per le strutture produttive hollywoodiane. Ci riferiamo ovviamente a “Evoluzione del western”.
Ad una età classica del genere, Bazin fa seguire, dal dopoguerra, la sua evoluzione “romanzesca”, che denomina sur-western:

«Chiamerò convenzionalmente sur-western l’insieme delle forme adottate dal genere dopo la guerra. Ma non cercherò di dissimulare che l’espressione ricoprirà per necessità di esposizione fenomeni non sempre comparabili. Essa può comunque giustificarsi negativamente in opposizione al classicismo degli anni ’40 e soprattutto alla tradizione di cui esso è il punto di arrivo. Diciamo che il sur-western è un western che si vergognerebbe di non essere che se stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico… insomma, con un qualche valore estrinseco al genere e che si suppone lo arricchisca».[1]

La guerra ha evidentemente lasciato il segno, acutizzando una serie di temi su cui è necessario fare i conti. Il cinema, arte popolare per eccellenza, non si esime da questa chiamata a raccolta. La Storia, ciò su cui il western si basava, fa i conti con una serie di varianti: riabilitazioni (gli indiani), ma soprattutto tesi a sfondo morale o sociale, di cui Bazin ritrova l’origine in The Oxbow Incident (1943) di William Wellman.
C’è un aspetto contenuto nel testo di Bazin che spesso è passato inosservato. Impegnati a ipotizzare nel sur-western un indicatore di decadenza del genere, si è tenuto poco conto di un altro aspetto che Bazin sottolinea, di cruciale importanza:

«Di fatto, innanzitutto, l’apparizione del sur-western non ha influenzato che lo strato più eccentrico della produzione, quello dei film di serie A e delle superproduzioni. Non c’è bisogno di dire che queste scosse superficiali non hanno toccato il nocciolo economico, il blocco centrale dei western ultra-commerciali, musicali o galoppanti, la cui popolarità ha forse addirittura ritrovato con la televisione una seconda giovinezza. Il successo di Hopalong Cassidy lo testimonia e prova allo stesso tempo la vitalità del mito nelle forme più elementari. (…) È in questi strati “inferiori” la cui fecondità economica non si è smentita che hanno continuato ad attingere i western di tipo tradizionale. Fra tutti questi sur-western non abbiamo infatti mai smesso di vedere film di serie B che non cercavano nessun alibi intellettuale o estetico».[2]

Questa dimensione popolare, di massa, di un genere e della sua evoluzione, emerge anche dalla riflessione di un critico inglese, che si trasferirà negli Stati Uniti, Lawrence Alloway. In un testo del 1958, intitolato “The Arts and the Mass Media”, pubblicato sulle pagine della rivista londinese «Architectural Design», Alloway utilizza proprio il genere western per contrastare l’attacco di Clement Greenberg alla cultura popolare:

«The Western movie, for example, often quoted as timeless and ritualistic, has since the end of World War II been highly flexible. There have been cycles of psychological Westerns (complicated characters, both the heroes and the villains), anthropological Westerns (attentive to Indian rights and rites), weapon Westerns (Colt revolvers and repeating Winchesters as analogues of the present armament race). The protagonist has changed greatly, too: the typical hero of the American depression who married the boss’s daughter and so entered the bright archaic world of the gentleman has vanished. The ideal of the gentleman has expired, too, and with it evening dress which is no longer part of the typical hero-garb».[3]

Seguiamo le indicazioni di Bazin e Alloway. Sur-western, western moderno: l’evoluzione del genere intacca la figura dell’eroe, lo altera, inserendovi variazioni psicologiche, antropologiche, morali.
Quando Monte Hellman, verso la metà degli anni ’60, si appresta a girare per Roger Corman due film al costo di uno, The Shooting e Ride in the Whirlwind (1966) la situazione inerente al “genere” è già dunque completamente delineata. Tutti gli elementi fin qui riportati vi appaiono: la sua mutazione strutturale, lo svanire degli elementi cruciali del genere, come la figura cardine dell’eroe.
In più, i film che Monte Hellman si appresta a girare sono (o dovrebbero esserlo) prodotti di Serie B, commissionati da Roger Corman, abituato a confrontarsi con produzioni a basso costo, dalla rigida struttura narrativa: un tipico prodotto di massa, per Drive-in. Non è il caso di ritornare qui agli esordi di Hellman, il cui primo film realizzato è appunto The Beast from the Haunted Cave, uno sci-fi horror, realizzato appunto per Corman. Il fatto è che, dopo i film realizzati nelle Filippine, Hellman ritorna a lavorare per Roger Corman, ma con alcune idee ben precise in testa.

Che cosa sono infatti The Shooting e Ride in the Whirlwind? Due western dozzinali? Due western d’autore? Due riflessioni sul western e il paesaggio? Due brutti scherzi giocati a Corman? Prima di tentare una nostra ipotesi, assecondiamo ancora per un attimo alcune indicazioni di Lawrence Alloway.
Le arti popolari sono intrinsecamente legate alla “tecnica” e sensibili alle sue modificazioni. Lo schermo su cui appaiono The Shooting e Ride in the Whirlwind ha le dimensioni di 1.85:1, cioè si distende in formato panoramico. Non è una novità. Nondimeno, questo aspetto permette una maggiore distensione delle inquadrature, lasciando che ad emergere sia l’ambiente in cui i film vengono realizzati, tanto che il paesaggio finisce col diventare una sorta di “personaggio” del film. E’ ciò che afferma Larence Alloway in un saggio poco considerato, ma di grande interesse, scritto nel 1971 in occasione della retrospettiva che egli stesso ha curato per Il MOMA di New York, Violent America: The Movies 1946-1964:

«The visual quality of the new Westerns is often marvelous; an intensified sense of space and light in outdoor settings; the alternations of long, patient pans and sudden flickering images of fast-cut gunfights, staged with a new rage and ingenuity. Consider the inhabited landscape of movies like Backlash, 1956, and The Nasked Spur; every feature of landscape is assessed as a foxhole or vantage point (…). Thus the visual clarity and elegance of the photography increases the terrain’s potential of threat, so that the landscape becomes the analogue of an ever more treacherous cast of characters».[4]

Potere evocativo del paesaggio. Potere di minaccia. E’ indubitabile che il paesaggio dello Utah risulti fondamentale nei due film che Monte Hellman lì vi ha girato nel 1966. Come se la progressione narrativa dei due film, già di per sé scheletrica, ai limiti dell’assurdo, svanisse, si facesse ancora più rarefatta per lasciare in campo, per lasciare inscritta, solo la dimensione selvaggia della wilderness. Prateria, strati geologici, deserto, rocce, montagne: ecco ben presente, dunque, un resto non piegato dalla cultura, non addomesticato. Nella loro progressione, i due film non fanno altro che sottolineare una sorta di inevitabile annullamento nel paesaggio. Più che veri e propri personaggi di un western crepuscolare, quelli che si muovono in The Shooting e in Ride in the Whirlwind somigliano a figure dell’assurdo, perse in un movimento rettilineo e per certi versi insensato. Sono figure che lasciano tracce lungo il loro passaggio, attraversando un paesaggio selvaggio a loro indifferente. Le loro azioni sono destinate ad annullarsi (perché le immagini stesse evaporano): ciò che resta non è altro che il tempo impiegato ad attraversarle, prima che queste svaniscano insieme alle tracce lasciate sul terreno. Un tempo spazializzato sull’emulsione.
È per puro gusto del paradosso che accostiamo qui le tracce seguite da alcune figure a cavallo a quelle inscritte sul terreno, negli stessi anni, da alcuni land artists? Marciare nel paesaggio. Muoversi nel paesaggio, a volte modificandolo con interventi monumentali. È ciò che verso la metà degli anni ’60 cominciano a fare Robert Smithson, Walter de Maria, Micheal Heizer, prendendo come punto di riferimento un testo apparso nel 1966 sulle pagine di Artforum, un’intervista a Tony Smith:

«Quando insegnavo alla Cooper Union, all’inizio degli anni ’50, qualcuno mi informò su come si riusciva a entrare nella New Jersey Turnpike che ancora non era stata ultimata. Presi tre studenti e guidai da un punto nel Meadows fino a New Brunswick. La notte era buia e non c’era illuminazione, né segnaletica in basso, né le linee della carreggiata, né il guardrail. Niente all’infuori della strada buia che scorreva attraverso un paesaggio di pianure, circondato lontano da colline e punteggiato dalle ciminiere, dalle fabbriche, dalle torri, dai fumi e dalle luci colorate. Questo tragitto in macchina è stato per me una rivelazione. La strada è una è una gran parte del paesaggio artificiale; ma non la si poteva però qualificare come opera d’arte. (…) Sembrava che ci fosse là una realtà che l’arte non aveva mai espresso. L’esperienza che avevo vissuto sulla strada, per quanto precisa fosse stata, non era riconosciuta socialmente. Tra me e me pensavo: è chiaro che è la fine dell’arte. La maggior parte dei quadri sembravano pietrificatamente pittorici dopo di questo. Era impossibile metterlo in un quadro, bisognava viverlo».[5]

Alcuni artisti cominciano dunque ad agire in non-luoghi, terminal aerei in rovina, autostrade non finite; oppure si spostano in luoghi selvaggi, impermeabili alla civilizzazione (tra questi, appunto lo Utah). Luoghi difficili da raggiungere, in cui il senso di solitudine si fa minaccioso. Vi realizzano opere in cui il percorso per realizzarle fa già parte dell’opera: Spiral Jetty (Robert Smithson), Double Negative (Michael Heizer). Tanto che, a volte, il percorso costituisce l’opera stessa. È ciò che avviene con il movimento nel paesaggio operato da artisti come Richard Long, Hamish Fulton, attuando una sorta di misurazione del mondo, rendendo fisicamente intelligibile la natura stessa (campagne, deserti, montagne), trasformandola in un luogo circoscritto.[6] O in un sito.
Lezione concettuale (o minimalista) di agrimensura. Non è forse un caso che il ruolo della fotografia e del cinema sia per questi artisti cruciale: sono supporti che, pur nella de-materializzazione dell’oggetto artistico, testimoniano dell’opera stessa, dove qualcosa come una realtà fisica infine si imprime.[7] Certo, questi documenti visivi riescono a rendere solo lontanamente l’idea del luogo, di ciò che vi è avvenuto. Certificano un passaggio. Come quello di alcuni cow-boys nel nulla del deserto dello Utah, o in fuga tra zone impervie e montuose, fino a scomparire, farsi polvere in una prateria.[8] Per comprendere appieno l’opera o ciò che è avvenuto in un luogo è necessario recarvisi. Ispezionare i siti.[9]
Cosa troveremmo dunque, percorrendo l’identico percorso di Gashade? Forse davvero riusciremmo a percepire l’evaporazione di alcuni personaggi di celluloide, in marcia nel nulla orizzontale del deserto. Ma i film? Dei Western? Certo. Del “genere” resta una struttura scheletrica, e alcuni gesti topici: estrarre una rivoltella, farla roteare con un dito: una sparatoria. Oppure un inseguimento a cavallo. Più sottilmente, lasciando svanire l’esile trama narrativa, The Shooting e Ride in the Whirlwind sono soprattutto la testimonianza di un passaggio (di “genere”), la traccia di una linea geometrica circoscritta, di un percorso assurdo: l’iscrizione momentanea di alcune figure nel paesaggio selvaggio dello Utah.

[Il saggio è stato originariamente pubblicato in: M. Fadda (a cura di), American Stranger. Il cinema di Monte Hellman, Cineteca di Bologna, 2009.]


[1] A. Bazin, “Evoluzione del western” in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 1979, pp. 262-63.

[2] A. Bazin, ibidem, p. 265.

[3] L. Alloway, “The Arts and the Mass Media”, in «Architectural Design», vol. 28, n. 2, febbraio 1958, pp. 84-85. Ora in Richard Kalina (a cura di), Imagining the Present. Context, content, and the role of the critic. Essays by Lawrence Alloway, Routledge, New York, 2006, p. 56.

[4] L. Alloway, Violent America: The Movies 1946-1964, Moma, New York, 1971, p. 54-57.

[5] T. Smith, in S. Wagstaff, “Talking with Tony Smith”, in «Artforum»,  dicembre 1966. Riprendiamo il passo dal bel libro di Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino, 2006, p. 91. Questo paesaggio artificiale che Tony Smith descrive così accuratamente non è forse quello che ritroviamo in Two-Lane Blacktop?

[6] Facciamo nostre le riflessioni di Gilles A. Tiberghien contenute nel suo fondamentale Land Art, Carré, Paris, 2003, p. 102.

[7] La questione è ben trattata da Lucy R. Lippard nel suo Six Years: The dematerialization of the art object, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 2001. (prima edizione, New York, 1973)

[8] «Nei due western di Monte Hellman il paesaggio è uno specchio abbagliante in cui non si riflette più nessuna identità e nessuna alterità. Le immagini di Jack Nicholson che scompare (Ride the Whirlwind, 1966) o che spara al suo doppio nel deserto (The Shooting, 1966) sono fra le più belle e misteriose ma anche fra le meno note del paesaggio americano, in cui il visibile ritorna in tutta la sua schiacciante alterità, fino a cancellare quasi la storia e le figure», cfr. S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002, p. 60. Durante la stesura di questo testo non era stato ancora realizzato Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt; presentato quest’anno a Venezia, riprende alcune delle questioni qui trattate.

[9] È ciò che ha fatto Lawrence Alloway, rendendosi sul luogo dove sono stati realizzati alcune opere di Land Art. Cfr. L. Alloway, “Site Inspection”, in «Artforum», vol. 15, n. 2, ottobre, 1976, pp. 49-55.

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8 Commenti

  1. @ pecoraro

    1) una cosa è agire NEL paesaggio, senza modificarlo.
    e 2) una cosa è agire SUL paesaggio, modificandolo.
    direi.

    1) Richard Long
    2) Robert Smithson e/o Michael Heizer

    direi. Forse così è più chiaro?

  2. ma anche:

    1) Robert Smithson (quando passeggia nel New Jersey – Passaic – e scatta foto e scrive il resoconto per Artforum)

    E quando lavora ai “Mirror Dispalacements”? E’ 1) o 2)?

  3. tutti i land artisti ( 1 e 2) mi appaiono come modificatori der landscape.
    altra cosa mi appare il paesaggio nel western, sia pure del vecchio e (nei saggi dei francesi) abusato Monte Hellmann.
    insomma mi sembrano due atteggiamenti diversi e oppositivi.
    questo volevo dire, senza dilungarmi.

  4. ci sarebbe da riflettere sul termine “modificare”; interpretavo il tuo SUL come un intervento “fisico” e monumentale (Double Negative, Spiral Jetty). Ne parla Alloway distinguendo tra Earthworks pensati come “solidi contributi al paesaggio” (riassumo) e i primi più “concettuali”.
    I western di Hellman li inserirei ovviamente tra i secondi… ma sono anche sicuro che Hellman (vecchio e abusato: perché?) si farebbe una grassa risata se gli proponessi questa interpretazione, che – ovviamente – è solo mia, per quanto sgangherata possa sembrare

  5. È che seguito a non comprendere, al di là di un rinnovato interesse in quegli anni per lo scenario naturale americano, il nesso tra i land-artisti e il western di Hellmann.
    Però può essere un mio limite.
    SUL e NEL: una cosa è usare il dato naturale direttamente come materiale che costituisce l’opera e una cosa è ambientare un’opera (o una storia?), dentro quel dato, ma senza esserne necessariamente un prodotto.
    Tutto ciò fermo restando che in ogni caso in corpus naturale implica sempre una reazione, pratica e/o estetica, di chi vi agisce e lo percorre.

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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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