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Il plusvalore di un libro ben fatto

[Il presente saggio è compreso nel volume Dove siamo?, :duepunti 2011.]

di Domenico Scarpa

fra noi e la musica c’è questa differenza, che noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha infinite maniere di essere bella
Camillo Boito, Il maestro di Setticlavio

1.

Nella più recente edizione scolastica di una celebre testimonianza su Auschwitz una nota a piè pagina segnala ai ragazzi l’esistenza di un altro grande scrittore della Shoah: Elie Diesel. Gli errori sono spesso divertenti (questo qui, meno) ma è invece istruttivo trovarne l’origine, che nel caso specifico dipende dall’aver tralasciato la primissima operazione che chi lavora con le parole dovrebbe fare quando acquista un pc nuovo, ossia disabilitare il correttore automatico. Il correttore sei tu che scrivi, e nessun altro; e prima di mandare un testo al tuo committente lo dovresti rileggere almeno due volte (già alla prima ti accorgeresti dello scambio fra W e D, lettere che se le guardi non si possono confondere una con l’altra); infine dovresti fare una correzione guidata cliccando sull’icona abc di Word. (Se poi ti rileggerai una terza e ultima volta avrai fatto quel minimo per stare tranquillo).
Non fermiamoci qui: dietro l’errore materiale c’è un errore più vasto, di tipo economico-strategico. La maggior parte del lavoro editoriale viene svolta all’esterno delle case editrici, da persone poco competenti, pagate male e prive di passione per il loro lavoro. Il sistema regge perché genera profitto e perché i lettori un po’ si lagnano ma continuano a comprare: e molte aziende si sentono incoraggiate ad aumentare il margine di approssimazione.
Rispondendo – era il febbraio del ’78 – a una inchiesta sul diavolo, Calvino disse che il diavolo del nostro tempo è «l’approssimativo». Io non arriverei a demonizzarlo: preferirei ignorarlo, ma non si può perché il pressappochismo fa parte della vita di ogni giorno. Nelle stazioni ferroviarie italiane chi fa il biglietto alla macchina automatica vedrà comparire a fine operazione sullo schermo illuminato la scritta RITIRARE IBIGLIETTI: quando lo correggiamo questo errore – questa piccola sciatteria dalla voce autoritaria – che ci infelicita ormai da anni? Proviamo a immaginare un film del Nanni Moretti prima maniera, protagonista uno psicopatico che va in giro a uccidere i seminatori di doppi spazi: un omino sgualcito che toglie di mezzo i candidati al Parlamento che nei cartelloni tre metri per sei lasciano scrivere con l’accento acuto la copula del verbo essere: é. Il film (promemoria per lo sceneggiatore: trovare l’arma appropriata) incasserebbe poco ma diventerebbe la bandiera dei pochi redattori editoriali «come ce n’erano una volta», esasperati dalla guerriglia contro il lavoro malfatto. Possiamo lamentare che quei pochi siano pochi e diminuiranno ancora, che si tenda a eliminare tutto quanto è controllo e rifinitura, lavoro di pazienza, solidità inappariscente, attenzione lenta… E invece sarà meglio proseguire lungo la nostra china paradossale.

2.

Prima di proseguire, però, devo affrontare un problema che questo testo ha coi pronomi: i pronomi qui dentro non funzionano perché non lasciano capire chi sta parlando, e con chi. Già solo nei primi tre capoversi uso la seconda persona singolare, poi la prima plurale, poi ancora la prima singolare, infine la prima plurale di nuovo: tu noi io noi, mentre sullo sfondo si distingue una voce non identificata che parla col tono di chi dètta legge, e che somiglia perciò alle voci onniscienti dei romanzi condotti in terza persona. Più avanti ci saranno frasi con la costruzione impersonale, ma le cose non cambieranno.
Questo non è un saggio teorico e nemmeno una proposta di metodo; tantomeno è un manifesto perché non crede di averne la forza assertiva. È piuttosto una selezione di esperienze e di umori che fanno la voce più grossa di quanto dovrebbero. Direi che non esistono pronomi attendibili in questo scritto, o se esistono non si riesce a pronunciarli a voce piena. L’epigrafe che ho scelto dice che abbiamo un solo modo di essere onesti, di qui il noi che ho già usato e userò fino all’ultimo. Non è un plurale di maestà e nemmeno un plurale che creda di rappresentare qualcuno. È un noi che vorrebbe diminuire l’io di chi scrive togliendolo dalla luce delle cose da dire: ma, in realtà, è un noi vuoto perché ancora non contiene nessuno e aspetta di essere riempito. È un noi senza rappresentanza e senza interlocutori, almeno per ora: è un pronome che spera, desidera e postula l’esistenza di qualcuno con cui condividere delle intenzioni.
Queste pagine, dicevo, sono un elenco di insofferenze e di possibili entusiasmi che devono fare i conti con la realtà dei numeri, del mercato, delle gerarchie editoriali e delle altre gerarchie esistenti. Malgrado la passione che forse si avvertirà nel tono, non vorrebbero essere ingenue: vogliono essere utili qui e ora col suggerire un’alternativa concretamente possibile, una linea di condotta nel lavoro che solo in un secondo momento e in maniera implicita si proponga come alternativa teoretico-metodologica. Chi legge vedrà che il testo è percorso dall’idea – dal desiderio – di un nuovo linguaggio narrativo per parlare di letteratura, un linguaggio che manca e va inventato: non posso fingere che già esista, e una parte dell’attuale gracilità o inattendibilità dei pronomi che sto adoperando si deve a questa situazione, che dunque va dichiarata.
La certezza di se stessi e dell’insieme di regole, limiti e aperture che uno dà a se stesso, la cognizione dei propri gusti e idiosincrasie e rabbie, convive con l’incertezza sul che cosa fare, quale tono adottare, in che posizione collocarsi per scrivere: convive col non sapere quale sia la maniera meno disonesta di comportarsi onestamente. Anche la prima parte di questo scritto finiva con un paradosso, e prima di proseguire con altri paradossi era opportuno mettere in chiaro lo status dei pronomi, perché queste vogliono essere pagine di economia e i pronomi sono la loro moneta.

3.

La serietà di uno studioso si misura dal numero delle volte che in una giornata di lavoro si alza dalla sedia per controllare un dato di cui è sicuro al cento per cento. Questo va fatto: ricontrollare le citazioni, assicurarsi dell’ortografia delle parole e dei nomi stranieri, assestare la punteggiatura, eliminare i famigerati doppi spazi, verificare la coerenza delle norme redazionali in corso di applicazione, in una parola: rendere salutare l’ossessione facendola collimare con la passione. Diciamo che può essere un modo non invadente per sedurre un possibile pubblico, e anche un modo ironico e poco vistoso per praticare la democrazia di mercato.
Da un punto di vista razionale, cenestesico addirittura, io sono convinto di quanto ho appena scritto. Ma come convincerne gli altri? Se una cosa c’insegna la cosiddetta attualità è la sostanziale inefficacia dei discorsi razionali, la debolezza di una facoltà di persuasione che conti sulla disponibilità dell’interlocutore a cambiare idea, a comportarsi altrimenti. Bisogna allora tentare un approccio diverso: prima economico, poi narrativo.
Nei corsi di marketing si insegna che il ciclo di un prodotto di successo conosce quattro fasi tipiche: wild cat ossia la novità capricciosa, imprevedibile; star, l’oggetto che s’impone come necessario; cash cow, la mucca da soldi: spremiamone tutto il possibile, prima che decada a dog e addio. Oggi troppi prodotti editoriali comprimono in un’unica fase convulsiva le prime tre: è la storia di tanti esordi troppo fortunati e senza futuro, perché sarà poi l’autore stesso a trasformarsi in dog, non i suoi libri. Nel cosiddetto canone del Novecento italiano incontreremo invece scrittori le cui tirature non si sono mosse, per decenni, dalla fascia delle 1.000-3.000 copie: Gadda, Landolfi, la Ginzburg, Cassola, Bassani, Anna Maria Ortese… Per qualcuno di loro a un certo momento poté arrivare l’opera-star, Pasticciaccio o Lessico famigliare o Ragazza di Bube; ma non sarebbe venuta senza una scommessa che fu economica e culturale in proporzioni identiche, e che richiese pazienza.
Nel settembre 1988 Ludovica Ripa di Meana poneva questa domanda a Gianfranco Contini: «Come vede oggi il panorama editoriale italiano?» La risposta fu un lampo d’intelligenza maliziosa: «Non sono un esperto finanziario». Se però quelle parole le ripetessimo noi, qui e ora, ci metteremmo dalla parte della non-intelligenza, perché noi siamo nel pieno della vita attiva mentre Contini aveva settantasei anni quando le pronunciò. Noi dobbiamo vivere e lavorare in questa editoria finanziaria: non possiamo permetterci d’ignorarla, non possiamo limitarci a irriderla, non possiamo illuderci di combatterla frontalmente. Che cosa può fare, allora, chi non se la senta di adeguarsi al sistema del guadagno massimo immediato e alla depressione della qualità?

4.

«Cinismo: non aspettarsi da alcuno più di quanto noi stessi siamo». Subito dopo l’ultima guerra mondiale Elias Canetti, scrittore ebreo di lingua tedesca, appuntava nei suoi taccuini questa frase, diagnosi anticipata del cinismo intellettuale che circola in Italia da un trent’anni in qua: misurare il mondo su metri meschini e abbassare via via il livello dei prodotti col pretesto che il pubblico non se ne accorge, anzi, li desidera scadenti come sono. Sappiamo, con le solite eccezioni in ordine sparso, che quella massima governa la politica, le attività culturali, la produzione di beni e servizi. Potremmo fare dell’antropologia e misurare la crisi grave del sentimento della vergogna. Potremmo ricorrere alla sociolinguistica registrando che le classi dirigenti stanno facendo di tutto per distruggere i loro linguaggi (ed è una distruzione che li investe tanto al livello denotativo quanto al livello connotativo: una falcidie di registri espressivi, una carneficina verbale che ha decimato il lessico e incarognito le emozioni).
Potremmo descrivere a lungo, con esattezza e magari con spirito, una situazione che non ci piace per niente. Meglio evitare: resistiamo alla tentazione di essere brillanti e veniamo direttamente all’economia, alla furbizia econometrica del segno + (nei budget annuali) bilanciata dal segno – (per la qualità del prodotto): e diciamo che quella furbizia è disastrosa non per ragioni ideali o intellettuali, ma per ragioni strettamente economiche. Diciamo – proviamo a mostrarlo, a dimostrarlo – che Honesty is the best policy e che il plusvalore di un libro ben fatto supera ogni guadagno breve e straordinario, conseguito di rapina o di frodo.
La sociologia la potremo anche praticare, purché non sia pettegola: vogliamo limitarci a deplorare chi disprezza ogni autorità intellettuale e fa l’elogio dell’ignoranza credendosi anticonformista? Sarebbe giusto ma non servirebbe a molto, tantopiù che in quella Curva B c’è tutta una torcida di intellettuali che sbandierano e sparano mortaretti. Proviamo piuttosto a chiederci quanto devono avere sofferto quelle persone, e quanto a lungo, e per che cosa, e contro chi e che cosa si sentono oggi autorizzate a reagire così: non solo con la violenza e la rozzezza, ma con una malvagia gioia liberatoria che chiede di essere interrogata. Il disprezzo per il sapere e per l’intelletto è la versione estrema di un’insofferenza che ha un suo fondamento.
A parte la sua vocazione alla critica radicale, a parte la sua natura minoritaria e contestataria, chiediamoci che cosa possa aver reso la cultura degna di odio fino a questo punto: non solo da parte di chi ne detiene il governo politico («governo della cultura» è già una contraddizione in termini), ma perfino da parte di chi, pur avendone fatto il proprio mestiere, agisce ogni giorno come uno sbracato nemico di sé medesimo. Se ci si pone questa domanda, e se ci si guarda attentamente intorno, si arriverà prima o poi a rispondere che la cultura suscita odio più per come intona la sua voce che per i contenuti dei suoi discorsi. Uno scrittore che prima di affermarsi come tale era stato docente universitario, l’ispanista palermitano Carmelo Samonà, aveva indicato le origini remote dell’attuale stato di cose in un’intervista del 1984 la cui pacatezza ha molto da insegnarci tuttora:

Negli ultimi trent’anni sono avvenuti mutamenti così profondi nel rapporto tra la letteratura e la vita, che tutta una serie di relazioni – con la critica, con la filologia, con la stessa pedagogia (e dunque con gli studenti) – ne sono rimaste modificate, se non addirittura sconvolte. Riflettiamoci: un secolo fa nelle Università si insegnavano materie come stilistica o retorica, nel senso tradizionale (il bello stile), e si facevano esegesi sentimentali e moraleggianti dei grandi testi; oggi quei criteri, quel bagaglio erudito possono sembrarci invecchiati e persino patetici; ma attenzione: erano anche il risvolto di un’epoca aurea della letteratura, un’epoca di forte presenza della letteratura nel quadro sociale. Il romanzo, allora, era un grande protagonista dei rapporti fra le persone; la sua diffusione era più limitata, certo, ma in quel piccolo raggio d’espansione – che poi era la classe dominante, cioè la borghesia – la faceva da padrone: era come lo specchio della verità, il grande testimone dei vizi e delle virtù degli uomini. Oggi non è così. I mass-media hanno potenziato, fra le altre cose, anche la diffusione della letteratura, ma la letteratura è più lontana dalla vita. Ecco la grande contraddizione: mentre gli strumenti della critica e della filologia si sono affinati, mentre la possibilità di ricezione della letteratura è enormemente cresciuta, si è attenuata la forza, la necessità del rapporto fra la letteratura e l’uomo. Con questo dobbiamo fare i conti ogni giorno.

La preoccupazione di Samonà era fondata, come abbiamo potuto constatare nei ventisei anni successivi. Tra la sua cronistoria – «gli ultimi trent’anni» – e il tempo trascorso fino al 2010 abbiamo dunque a disposizione una sintesi dell’ultimo mezzo secolo di vita intellettuale nel nostro paese. A che punto siamo arrivati in Italia, anzi – per venire alla domanda di questo libro – Dove siamo?

5.

Cerchiamo una volta tanto di resistere alla tentazione d’incolpare chiunque e qualsiasi cosa eccetto noi stessi. Sappiamo che molti libri escono «a cura di» e che la radice etimologica di cura è l’antico latino (non attestato per iscritto) *coira, la sua base indoeuropea *kois- che vale «essere preoccupati di, coinvolti personalmente in qualcosa». Perfetto: abbiamo curato, bene o male, i libri che ci hanno affidato: che cosa abbiamo fatto per i lettori? ci siamo preoccupati di parlare con loro? che tipo di voce ci è venuta fuori? La bellezza è difficile, diceva Ezra Pound: quanti sforzi abbiamo fatto per comunicare la bellezza della difficoltà? Possiamo sentirci paghi di frequentare ogni giorno questa difficoltà, di bearcene, di viverci dentro come una soppressata nell’olio?
Noi dobbiamo tornare a credere che si possa sedurre il pubblico con la qualità, e che la moneta buona sia capace di scacciare quella cattiva. Il pubblico va convinto, individuo per individuo, che con la bellezza difficile si gode, e parecchio. Bisogna insegnare a godere in modo più competente, ma lo si deve fare senza salire in cattedra. Fra elitarismo e sciatteria esiste una terza strada: essere intransigenti sulla qualità e seducenti nel comunicare. Non dobbiamo adattarci a credere che il pubblico voglia il peggio; dobbiamo parlare, con pazienza e poco per volta ma sempre, senza stancarci, ai pochi (rivolgerci alle grandi assemblee non è per noi); dobbiamo attrarre i non convinti uno alla volta. Sarà un lavoro lungo, difficile, oscuro, senza garanzia di successo e con riconoscimento mediocre: questo è bene saperlo in partenza ed è bene non sentirsene orgogliosi, perché proprio quell’orgoglio elitario falsa la voce fino a renderla detestabile.
Capisco che parlare di seduzione appaia, soprattutto di questi tempi, pericoloso. La seduzione produce guasti anche quando è affidata a mani responsabili. Resta il fatto che, essendo pericolosa, pure è necessaria, e che con la sola intelligenza non si arriva. Resta il fatto che ciascuno di noi è stato sedotto – cioè, attratto verso una traiettoria di vita che sarebbe stata per sempre la sua passione – in qualche momento della sua esistenza, solitamente da ragazzo. Rimane il dovere, per chiunque abbia una passione, di non tenersela per sé: di farla circolare. Al pericolo della parola seduzione rispondo provvisoriamente con una «scorciatoia» di Umberto Saba, la numero 73:

pedagogia. Perché maestro e scolaro sieno – reciprocamente – perfetti, bisogna che fra i due si svolga continuamente questo muto dialogo: Foss’io ancora, fanciullo, come te! – Potessi io un giorno diventare quale sei tu, mio buon maestro!

La seduzione pedagogica dovrebbe avvicinare l’allievo alla cosa, e non alla persona che gliela sta offrendo. Deve far desiderare le buone qualità e non chi le incarna: è una seduzione che fa a meno dell’io, che fa parlare le cose senza sovrapporgli la voce che le indica.
Noi dovremo rinunciare all’io delle nostre vanità e al super-io delle nostre appartenenze corporative. Ci dovremo rivolgere a un lettore appassionato: presupporre che ci sia, e comportarci in modo da farlo esistere. Noi non dobbiamo cambiare l’editoria, dobbiamo cambiare la realtà: dobbiamo cambiare l’unica realtà che siamo in grado di trasformare, quella del nostro lavoro: il nostro modo di pensarlo e di praticarlo. Non possiamo più credere di ispirare vergogna a chi non sa per il solo fatto che non sa, ma tantomeno dovremo vergognarci noi di sapere, benché vada di moda.
Sono ormai convinto che noi, per comunicare quello che sappiamo, dobbiamo per prima cosa, e pur senza vergognarcene affatto, farci perdonare di saperlo, o meglio: lo dovremo contrabbandare; dovremo praticare, in un certo senso, quella che Edmond Jabès ha chiamato «sovversione non sospetta». La leggibilità delle difficili cose che ci preme comunicare si affiderà a questo doppio movimento. Il libro ben fatto è un libro scritto per gli altri pur custodendo il meglio di noi stessi. Siamo difficili e non rinunceremo a esserlo; non saremo mai dei semplificatori: ma dovremo trovare un linguaggio che arrivi, e questo significa – contemporaneamente – aumentare il nostro sapere e aumentare la rinuncia a metterlo in mostra. Dobbiamo trovare nuovi linguaggi narrativi, ecco il punto.

6.

Chi insegna all’università sa bene (da diversi anni, ogni anno di più) di non poter dare nulla per scontato: nessuna nozione, nessun codice linguistico condiviso. Sarà costretto a spiegare tutto quanto da zero: così, se vuole, potrà recuperare la libertà che hanno i genitori quando dànno l’alfabeto ai loro figli, la stessa libertà e necessità dell’inventiva. Possiamo contare non più su ciò che è dato – su quello che già c’è, sul risaputo – bensì sull’azzeramento e sulla trasformazione continua, delle cose e di chi ci ascolta. Facciamo pure conto di possederla noi soltanto, una memoria. Cancellare la fatica dalla lingua narrativa che andremo costruendoci sarà anche un gesto di anticonformismo, equivalente alla cancellazione dell’io: a smorzarlo, silenziarlo, nasconderlo. Bisognerà tornare a dire e a fare cose banali, ma si dovrà tornare a farle e a dirle con un linguaggio che sia competente e persuasivo insieme.
«Il lettore non è un cervello soltanto, è una persona che ha il gusto di lasciarsi incantare attraverso gli occhi di vetrina, a tenere in mano il libro, a usare fisicamente il libro». Questo ponte materiale che può farci raggiungere – per la finestra degli occhi, come nei poeti provenzali e in Cavalcanti – la sottigliezza dell’anima altrui, noi lo dovremo percorrere fino in fondo. È un ponte di fattura industriale perché i libri sono un prodotto industriale, ma è anche un’opera artigiana. La frase sugli «occhi di vetrina» l’ha concepita uno storico dell’arte che fu anche un redattore editoriale tra i più esperti e fantasiosi degli ultimi decenni, Paolo Fossati. E quella passione che è fisica, mentale e oggettivata – una passione separata da noi che la vorremmo accendere – sarà il termine di ogni nostro lavoro. Lavoriamo e lavoreremo lungo questo filo di rasoio.

7.

Nella casa editrice Einaudi si tramanda la memoria di una leggendaria giornata del 1937 in cui Leone Ginzburg e Cesare Pavese fissarono il corpus delle norme redazionali da adottare di lì in avanti: quel giorno vennero codificati progressi epocali, come la ferrea distinzione, non ancora invalsa in altre imprese editoriali anche prestigiose, tra accenti acuti e accenti gravi – perché, ahimè – e anche qualche irragionevolezza tuttora vigente, come l’accento acuto sulle parole tronche in i e in u: cosí, piú. Nel ’37 il fascismo era all’apice del consenso e, ancora una volta, la filologia quotidiana si trasformava in arma di lotta politica. Leone Ginzburg era un editore e curatore di testi efficace a ogni segmento del mercato: nel 1938 si seppe inventare un bestseller di alto livello, Tsushima di Frank Thiess, sottotitolo: Il romanzo di una guerra navale (quella russo-giapponese del 1904-1905), che si sarebbe ristampato nei Tascabili Einaudi ancora nell’anno 2000.
Ginzburg aveva ben chiaro che i criteri per impostare un volume della «Nuova raccolta di classici italiani annotati», collana inaugurata nel 1939 dalle celebri Rime di Dante a cura di un Contini ventisettenne, dovevano essere completamente diversi da quelli della «Universale Einaudi», classici di ogni tempo e di ogni paese alla portata di tutti. Impostazione diversa, ma col patto che il rigore fosse identico: e così, una volta ricevuti i primi volumi dell’«Universale» con i colori delle copertine che stingevano sui polpastrelli, con note a piè pagina in parte cervellotiche in parte incompetenti, con introduzioni professorali oppure dilettantesche, Ginzburg, che si trovava in un piccolo paese dell’Abruzzo come internato civile di guerra (era ebreo, ed era per giunta un cospiratore antifascista condannato a suo tempo a quattro anni di carcere), scriveva il 26 maggio 1942 alla casa editrice torinese di cui, benché impedito nell’azione diretta, restava il direttore editoriale, che il motto della nuova collana economica sembrava essere Will, und kann nicht, vorrei ma non posso: «Fate di cambiarlo». Alcuni mesi prima, quando lui stesso era impegnato a rivedere la traduzione di Guerra e pace eseguita da Enrichetta Carafa duchessa d’Andria, mentre la sua casa editrice premeva per andare subito in stampa tralasciando gli ultimi necessari controlli, Ginzburg era stato anche più duro:

Voi Vi proponete di stampare senza che io le veda delle bozze in cui ci sono, per nomi geografici o per termini tecnici, varie espressioni in sospeso; per di più, volete che io non rilegga neppure un lavoro, certo fatto con grande coscienza e migliorato considerevolmente, ma pur sempre soggetto a distrazioni (parole omesse, ecc.) che Voi non potreste riparare. Voi mi minacciate di continuare la composizione su un testo non rivisto da me. La minaccia la fate a Voi stessi. Non crediate che le Vostre edizioni si vendano perché lo struzzo è simpatico alla gente: si vendono perché sono accurate e leggibili: quando ci siano libri mezzi corretti e mezzi scorretti, quando il rispetto del lettore venga meno, il lettore vi abbandonerà. Non Vi dico come sia attraente vedere che il lavoro di mesi va perduto così: il Vostro interesse non ammette certo argomenti sentimentali.

8.

L’energia intransigente che Leone Ginzburg impegna nel difendere la qualità del lavoro editoriale pur trovandosi in una condizione difficilissima vale come esempio di condotta per chiunque operi con il linguaggio. Lamentarsi per lo stato attuale delle cose è tempo sprecato, lavoro buono che si perde. La situazione è nota: e – sembrerà anche questo un paradosso – non bisogna resisterle e nemmeno contrattaccare. Reagire in modo conforme ci fa perdere tempo e, soprattutto, ci modella a immagine del nostro avversario. L’avversario dobbiamo conoscerlo alla perfezione, questo sì: ma per scordarcelo completamente non appena incominciamo a lavorare.
Chi conta sui pochi spazi puliti che restano, prima o poi perderà anche quelli, perché verranno inquinati, ridotti, occupati, aboliti. Inutile alzare barricate, saranno deboli; inutile preservare il nostro jolly corner.
Bisogna fare di più: bisogna inventare, bisogna crearsi una voce per creare un pubblico. Bisogna costruire quello che Dante, nel De vulgari eloquentia, definì il «volgare illustre», un irreperibile linguaggio del meglio che va trovato ogni volta daccapo. Dante paragonò quel volgare a una pantera che va inseguita, di cui si sente dappertutto il profumo ma che non si vede da nessuna parte. Potrà sembrare strano, ma il profumo di quella pantera è lo stesso profumo che accarezza il becco di zio Paperone.

9.

Morale della favola: benché non sembri, la qualità del lavoro è vantaggiosa anche sotto il profilo economico, tantopiù se si guarda al lungo periodo. Naturalmente mi accorgo che la pantera profumata e zio Paperone sono un finale a effetto, per giunta sbrigativo. Più che un finale, diciamo che è una scommessa, una convinzione e un augurio: il lavoro e il linguaggio sono entrambi in costruzione, e noi non ci fermeremo.

nota bibliografica

Italo Calvino ha dato il titolo I discorsi approssimativi (il testo apparve in origine come risposta all’inchiesta Il diavolo è morto?, «La Domenica del Corriere», LXXX, 13, 30 marzo 1978), alla seconda parte del suo saggio Note sul linguaggio politico, che riunisce quattro testi degli anni 1976-1978 ed è raccolto in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980. Qui lo si cita da Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 376-80: 377. La battuta di Contini è in Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori, Milano 1988, p. 137, mentre l’aforisma di Canetti – risalente al 1945 – è in La provincia dell’uomo [Die Provinz des Menschen, 1973, tr. it. di Furio Jesi], in Opere 1932-1973, a cura di Giorgio Cusatelli, Bompiani, Milano 1990, p. 1688. L’Incontro con Carmelo Samonà, condotto da Gregory L. Lucente, si legge in «Modern Language Notes», C, 1, January 1985, pp. 155-70: 166-67; la conversazione si svolse a Roma il 13 marzo 1984. Il brano di Saba è in Scorciatoie e raccontini, prima edizione presso Mondadori, Milano 1946, ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara e con saggio introduttivo di Mario Lavagetto, ivi 2001, p. 37. Il brano di Paolo Fossati proviene dalla conferenza La grafica della casa editrice Einaudi (Parma, Biblioteca Palatina, 22 novembre 1986), in La passione del critico. Scritti scelti sulle arti e la cultura del Novecento, a cura di Gianni Contessi e Miriam Panzeri, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 84-101: 84. Le due lettere di Leone Ginzburg sono in Lettere dal confino 1940-1943, a cura di Luisa Mangoni, Einaudi, Torino 2004, rispettivamente alle pp. 137-38 e 92-93; le seconda lettera, riguardante le bozze di Guerra e pace, veniva spedita da Pìzzoli (L’Aquila) il 27 ottobre 1941.

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8 Commenti

  1. non sarà un commento adeguatamente critico, ma tengo a far sapere di aver letto speditamente tutto il saggio – nonostante la lunghezza di un testo sul web abbia sempre un che di minaccioso alla vista – con la felice sensazione di respirare un po’ d’aria pulita. Ecco, non saprei dirlo meglio. Perdono, se mi limito a dire: bello! Bello, in senso dialettale palermitano, il senso che ricalca esattamente il contemporaneo “kalos kai agathos” greco.

  2. Bella e importante questa lunga riflessione, soprattutto perché pone l’accento sulla sciatteria spesso dilagante, che viene scambiata per libertà di sovvertire ogni forma (mi riferisco, ad esempio, anche all’uso della punteggiatura spruzzata un po’ a caso – dove il caso è, appunto, del tutto casuale).

  3. il problema dell’accuratezza & della precisione va tragicamente oltre il mondo delle parole e investe l’intero nostro italico universo, a partire dal marciapiedi sotto casa…

  4. “prima di mandare un testo al tuo committente lo dovresti rileggere almeno due volte (già alla prima ti accorgeresti dello scambio fra W e D, lettere che se le guardi non si possono confondere una con l’altra); infine dovresti fare una correzione guidata cliccando sull’icona abc di Word. (Se poi ti rileggerai una terza e ultima volta avrai fatto quel minimo per stare tranquillo).”

    ..nel frattempo mi si è scotta la pasta sul fuoco ^_-

  5. Concordo in pieno su tutto. Coniugare rigore e passione: questa è vera la sfida.
    Leggerò l’articolo ai miei studenti universitari che studiano la storia dell’editoria.

  6. La sciatteria editoriale è una conseguenza del funzionamento dell’industria editoriale, concentrata su diritti, distribuzione e marketing, che subappalta all’esterno il resto del lavoro. Bell’articolo o, meglio, appunti sparsi. Mi manca però il passaggio logico successivo: in quale tipo di organizzazione si possono fare libri “ben fatti”? aspettiamo che arrivi un editore coraggioso a salvarci (quando mai?), o inventiamo qualcosa di diverso?

  7. Questo difficile articolo, composto da appunti sparsi, come fa giustamente notare jan, mi è piaciuto, ma mi conferma nell’idea che mi vaga per la capa da qualche tempo, che il mondo è bello perché fa schifo (compreso quello editoriale?). non fosse così non ci sbattezzeremmo per cercare di migliorarlo, di riformarlo. però bisogna rimanere coscienti che si tratta sempre di misero mondo: la bellezza è un’altra cosa, ” la bellezza è difficile “… forse il vero paradosso, in questi tempi fintamente democratici, è voler stare al mondo e nello stesso tempo voler essere belli.

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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