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Carla Benedetti, “Disumane lettere”

di Teo Lorini

Le Indagini sulla cultura della nostra epoca (così il sottotitolo) che compongono questo nuovo libro di Carla Benedetti hanno varia origine: atti di convegni, interventi in rivista, in rete e così via. Eppure esse compongono un testo che colpisce per compattezza e che si apre con la constatazione che mai, neppure nelle epoche più tenebrose del passato, l’uomo si è trovato a confrontarsi con la prospettiva dell’estinzione, oggi invece ritenuta un rischio concreto da parte degli scienziati che registrano la sovrappopolazione, il surriscaldamento del pianeta, la consumazione delle sue risorse ad opera della razza umana. Nel Tradimento dei critici (2002) Benedetti aveva descritto come, a partire dalla seconda metà del Novecento, la vita culturale era stata progressivamente invasa da cupe descrizioni che davano “tutto per liquidato”, fino a ripiegarsi su se stessa, autocondannandosi a una perenne epigonalità. Qui riparte da quella considerazione, constatando con stupore e amarezza che, persino in un orizzonte ogni anno più drammatico, le humanae litterae cui per secoli i grandi ingegni della nostra razza hanno attinto, facendone scaturire prospettive innovatrici e vivificanti, sembrano inerti e arrese al concetto mortificante e mistificatorio del “non possiamo farci nulla”.

Sarebbe però troppo facile liquidare il pensiero dell’autrice come “apocalittico”, ennesima idée acriticamente reçue dal Novecento e di gran moda in questi anni. La forma mentis qui è tutt’altro che richiusa e apocalittica. Al contrario Benedetti sottolinea come il “sentimento di emergenza” riapra anziché chiudere. Animata da tale percezione, la prospettiva delle humanities può – in certa misura deve – rimettersi in gioco e ritrovare la consonanza che esisteva in passato con un concetto più ampio di sapientia, entro il quale il letterato, l’artista il filosofo incontravano e assumevano lo sguardo propositivo dello scienziato (a cui, non a caso, nessuno si sogna di affibbiare l’etichetta di “apocalittico”): è solo entro tale ottica di ritrovata pienezza che la nostra cultura può ambire a cogliere soluzioni ancora impensate e proporzionate all’enormità dell’emergenza che l’umanità si trova ad affrontare.

Il saggio di Benedetti prende dunque in esame diverse “zone di frizione” dove la cultura moderna ha l’opportunità di sottrarsi agli schemi sclerotizzati e alle iperspecializzazioni, battendo piste nuove che attraversano suddivisioni precostituite e mettono in relazione ambiti (i Media, l’Arte, la Rete, la Politica, il Marketing culturale ecc…) che non sono “scatole chiuse” ma, anzi, risultano profondamente interconnessi. È illuminante, per fare solo un esempio, il raffronto cui Disumane lettere sottopone due territori apparentemente antitetici come il mercato d’élite del collezionismo d’arte contemporanea e quello di massa del libro, scoprendo come la logica che li governa sia la medesima, ovvero quella che vede trionfare il dato quantitativo (le copie vendute da un libro, le quotazioni di un’opera d’arte) su quello qualitativo, anche attraverso l’intervento e il moltiplicarsi di mediatori poco o nulla c’entrano con la libertà della creazione artistica: dai super-mercanti d’arte al crescente numero di editor e agenti capaci di spostare gli equilibri del mercato del libro.

È proprio toccando il tema della libertà creativa che Benedetti aggredisce un’altra mistificazione ricorrente, l’opposizione chiusa tra “la letteratura di genere e il genere letteratura” con la pletora di teorie formulate ad hoc nel corso del ’900, come quella per cui il successo popolare certifica il salutare rifiuto di atteggiamenti elitari. Teorie che vacillano appena si consideri che lo stesso successo popolare in passato è toccato a opere straordinarie per capacità sperimentale, coraggio e inventiva: come rientra nel “sano rifiuto dell’elitismo” la fortuna dei romanzi di Dickens? Della Comédie Humaine di Balzac? Dei Miserabili, che persino gli analfabeti si facevano recitare ad alta voce da chi sapeva leggere? Il pregio maggiore di questo volume è allora proprio quello di far piazza pulita delle categorie che contengono e recintano per riportare al centro del dibattito lo slancio agente (ciò che Benedetti chiama “forza verticale”) attraverso cui pensiero, immaginazione, sogno, prefigurazione sono (ancora) in grado di dar vita a un pensiero creativo, capace di far germinare tutto ciò che appariva inanimato e sterile.

Pubblicato su «Pulp libri» (n. 90)

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1 commento

  1. Ho trovato molte considerazioni interessanti e condivisibili in questo testo, a partire da quella, da cui il libro stesso scaturisce, sull’emergenza di specie, mai così attuale, coniugata a una forte volontà fondativa di nuovi discorsi e scritture non rassegnate all’apocalisse prefigurata da tanti pensatori di fine secolo. Mi fermo qui su questo punto perché ritengo molto utile anche il pensiero di tanti autori e pensatori nichilisti e apocalittici, nel senso che una posizione depressiva (il contrario, nell’analisi kleiniana, della posizione esaltata o psicotica) è pur sempre occasione di riflessione e ripensamento anche utile agli altri. Insomma, è da una posizione depressiva che spesso si parte per cambiare le cose o se non altro per non perdere del tutto il lume della ragione, mentre la posizione entusiasta ed esaltata ci farebbe andare avanti all’infinito nel cammino intrapreso. Non scendo nei particolari dell’analisi di Beckett o T. Bernhard che si dichiararono anti-narratori, rifiutando soprattutto la trama e l’intreccio, poiché qui l’argomento è solo sfiorato. Mi limito a un’affermazione molto generica: il rifiuto di forme precostituite ha aperto spesso nuove strade. E’ anche ingiusto tuttavia (e qui mi schiero decisamente con l’autrice) che alcuni scrittori arrivati a conclusioni estreme, si arroghino il diritto di affermare per tutti: “Après moi le déluge!”, affermazione che rivela perlomeno una certa presunzione e narcisismo. Niente può essere del tutto perduto finché c’è vita sulla Terra e finché ancora alcune persone scrivono e si pongono problemi etici.
    Condiviso e ormai riconosciuto da molti è poi il riferimento alle consorterie e “oligarchie di giro” che, come in tanti altri settori della società italiana, impediscono a nuove energie di svilupparsi ed emergere. Tuttavia non mi sento di sottoscrivere le parole qui citate di Moresco dalle “Lettere a nessuno”: “… stanno di guardia alle porte delle istituzioni giornalistico-culturali e delle case editrici a controllare che ogni cosa che passa sia veramente inoffensiva, cioè sia veramente e perfettamente morta.” Pur stimando molto le “Lettere a nessuno” come opera letteraria, su questo punto non sono d’accordo. Secondo il mio modesto parere, nessun tipo di società, nemmeno una totalitaria, può essere interessata a far nascere solo cose morte. Inoltre bisognerebbe stabilire con certezza quali sono i criteri che distinguono le produzioni morte da quelle vive e gli stessi critici non sarebbero sempre d’accordo. Se è vero che lector è in fabula, la creatività di un’opera è data anche dal lettore: siamo noi che diamo valore alle cose e qualunque libro di conseguenza può acquistare una vitalità inaspettata in diversi periodi storici o presso diversi lettori. Secondo me, ma qui usciamo un po’ fuori tema e finisco subito, la questione della barriera a pubblicare è più intrecciata con cause sovrapersonali di carattere socio-economico e non deriva da singole volontà conservatrici.
    Sempre per quanto attiene l’ambito editoriale, s’incontra l’interessante questione del “genere letteratura”. Qui si afferma che le opere molto letterarie appartengono al numero di quelle che ancora vengono lasciate passare dalla griglia della selezione, che ancora possono emergere, intendendosi per “letteratura” proprio un genere specifico in stile molto paludato e spalmato sopra. Sempre per quello che è il mio modesto parere, la letteratura non si può relegare in un genere a sé, in una piccola casella. Studiando la sua storia, constatiamo che si tratta di letterature, di correnti e di stili diversi,spesso opposti e varianti nel tempo. A questo proposito mi viene da citare De Sanctis, dal momento che siamo in clima risorgimentale: “La letteratura non è un ornamento sovrapposto alla persona, diverso da voi e che voi potete gettar via; essa è la vostra stessa persona, è il senso intimo che ciascuno ha di ciò che è nobile e bello, che vi fa rifuggire da ogni atto vile e brutto, e vi pone innanzi una perfezione ideale, a cui ogni anima ben nata studia di accostarsi” (A’ miei giovani). Proprio per la sua vastità, la letteratura oggi potrebbe offrire un’alternativa al condizionamento dei media e, per amor di completezza, per chi volesse approfondire, rimando anche all’appello all’essenziale di Ferroni in “Scritture a perdere” o al saggio di Jossa in “Dove siamo?”.
    Su una barchetta di salvataggio durante il diluvio, fosse per me, salverei anche la letteratura, in quanto ricerca dell’essenziale opposta alla retorica della sovrabbondanza, insieme coi vari nichilisti, apocalittici e sconvolti da come stanno andando le cose.

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