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Nina, il testo, la scrittura

di Daniele Giglioli

Tanti anni fa, in un’intervista, Cesare Garboli propose il seguente paradosso: bisognerebbe far sposare Niccolò Ammaniti e Isabella Santacroce, perché il primo sa raccontare ma non sa scrivere, la seconda sa scrivere ma non raccontare. Messi insieme farebbero scintille. La battuta è brillante, il retroterra in cui affonda un po’ meno: la sempiterna scissione tra scrittore e narratore, Balzac e Flaubert, Moravia e Gadda, e peggio ancora il lamento classico del critico secondo cui, maledizione, qui da noi chi ha qualcosa da dire non sa dirlo, e chi parla bene non ha nulla in testa. Ma mi è tornata in mente quando, finita la lettura di Nina dei lupi (Marsilio, 221 pagg., 18,50 euro, seconda prova di Alessandro Bertante), mi sono sorpreso a pensare: un bellissimo romanzo scritto male. Un paradosso ancora peggio di quello di Garboli. E non ci si aspetti che il recensore tiri fuori dal cappello una qualche sorta di coniglio dialettico per dimostrare che la contraddizione è solo apparente: no, la contraddizione è reale, specie per chi non crede affatto che un testo letterario possa essere scomposto in “livelli” (intreccio buono, storia appassionante, personaggi belli, stile così così…). Gli “aspetti del romanzo” possono essere distinti solo in via teorica. Nella pratica, il testo è uno, e cade o resta in piedi come tale. Quello di Bertante sta ampiamente in piedi, si legge con passione, ha una capacità porosa e quasi magnetica di includere il lettore nel mondo narrato, costringendolo a guardarlo con lo stesso sguardo dell’autore. Dunque funziona, e se funziona vuol dire che va bene anche la scrittura. Non “nonostante” i suoi difetti (ce ne sono a rigore anche di lingua, di grammatica perfino, e l’autore dovrebbe avere una franca spiegazione col suo editor, visto che di solito i peggiori pasticci capitano in fase di revisione); ma anche grazie a essi, il che resta ancora da spiegare.
Ricominciamo allora dalla trama. Come molti suoi contemporanei (Longo, Zanotti, per non citare che i più prossimi), e come tantissimo cinema, Bertante ha ambientato Nina dei lupi in un mondo post-catastrofico. Passata è sulla specie degli uomini “la sciagura”: prima le crisi finanziarie, poi un generale impazzimento (scandito e forse provocato dall’apparizione di sinistri segni in cielo che sembrano tracciati dalla mano di un bambino) che ha trasformato l’umanità civilizzata in un’accolita di razziatori. La post-storia ritorna alla preistoria. Niente elettricità, niente automobili, armi da fuoco a esaurimento, mazze e lame per contendersi le pochissime risorse disponibili. In un villaggio, Piedimulo, situato alle pendici di una catena montuosa non meglio identificata, una comunità si industria a sopravvivere puntando sull’isolamento. Fatta saltare la galleria che la connette al resto della terra abitata, si organizza sulla base di una meticolosa divisione del lavoro, mette in comune gli orti, le bestie e le provviste, e spera di cavarsela. Invano: dal mondo esterno penetra una banda di predoni che uccide la maggior parte degli abitanti del paese e riduce in schiavitù i pochi rimasti. Dalla catastrofe si salva Nina, dodicenne all’indomani delle sue prime mestruazioni, nipote del sindaco che aveva tentato di restaurare a Piedimulo una parvenza di ordine. Fugge sulla montagna, viene accolta da un uomo che vive solo con due lupi, sopravvive all’inverno, alle durezze estreme dell’ambiente alpino, al ripopolarsi senza freno della natura selvaggia – branchi di lupi, daini, misteriosi uccelli che l’uomo dice chiamarsi grifoni. Fino a lì i razziatori non arrivano. E saranno anzi Nina e l’uomo dei lupi, nel frattempo congiuntisi in una sorta di matrimonio primordiale, a riconquistare un giorno il villaggio, dando vita a un nuova umanità tenuta insieme dal racconto eziologico della loro leggenda.
Sul telaio di questa trama, Bertante intesse con grande icasticità un fitto arazzo di visioni, riflessioni, allucinazioni; ci fa assistere alla nascita di nuovi culti, contamina la sua post-storia con uno strato di leggende ancestrali legate alla montagna, confonde le mente dei suoi razziatori con una nebbia di paure e superstizioni che li conducono passo passo al disastro finale. Il suo universo è ricco, mosso, cangiante e rigoroso insieme; si ferma sempre un momento prima dell’allegoria, riesce a pieno nel compito difficile di conciliare natura e umanità come fattori di nascita e sviluppo di ogni possibile mitologia.
E lo fa, questo è il punto, tramite il ricorso a una lingua indiscutibilmente media; periodi brevi, sintassi elementare, un’aggettivazione che sembra voler fare a meno di ogni pretesa di sorprendere: in cambio, molto ritmo e un notevole senso musicale delle pause. E’ come se la lingua aspirasse a farsi trasparente, come se il libro non volesse essere in realtà un libro, ma comunicazione diretta da pensiero a pensiero, da un sogno a un altro sogno. Nessun dubbio che, di fronte a una tradizione novecentesca che ha collocato al primo posto la scrittura, un’opzione come questa risulti palesemente difettosa. Ma a praticarla sono in tanti. In tanti scrivono come se il medium scelto fosse una costrizione, una prigione che li limita, un surrogato infido della lingua dell’immagine e del sogno. La linea di confine tra lo scriver bene e male deve aver cambiato di posto. I parametri non sono più gli stessi. Non sarebbe la prima volta: che avranno pensato i lettori inglesi abituati alla grande ode neoclassica leggendo i ritmi da nursery di William Blake? Avanzo allora questa ipotesi: che alla condizione post-storica di cui molta letteratura dà testimonianza si congiunga e si sovrapponga una analoga condizione postmediale che si caratterizza appunto per la caduta in desuetudine dell’interesse nei confronti dello specifico del medium utilizzato. Di postmedialità nelle arti plastiche parlano da tempo storici dell’arte come Rosalind Krauss. Dovremmo chiederci se il fenomeno non interessi anche la letteratura. Se sì, molti dibattiti estenuanti su chi scrive bene o male potrebbero, se non cessare, quanto meno condursi in modo meno sterile.

(pubblicato su Alias, 19/3/2011)

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13 Commenti

  1. Non capisco bene. Leggo “scritto male” e poi capisco che intendi “scritto in tono medio”. Io questo (buon) romanzo l’ho letto in settimana, qualche difetto glielo trovo anche (per esempio l’aura mitologica che circonda le due protagoniste femminili è un po’ da manuale, non va oltre Ecate-Artemide) ma non certo quello di non sciacquare la lingua in arcaismi e barocchismi come fanno certi redattori di “Nuovi Argomenti”.
    Il tono medio è la salvezza della narrativa dalle pippe autoriali.

  2. mah.

    mi riferisco all’articolo.

    la lingua sia funzionale al dettato. se lo è, siamo a posto.

    ora, giglioli parla di “tono medio” (non è chiaro davvero cosa sia, almeno per me.) binaghi (un saluto, valter!) dice che no, la lingua usata da bertante non è scevra da arcaismi.

    e se il libro fosse stato scritto con un tono volutamente “medio” non scevro da arcaismi (che di medio, almeno loro, non hanno nulla?)

    non ho ancora letto il romanzo, a parte qualche pagina in libreria come “riscaldamento”, ma non mi pare che esso sia da ascrivere ai romanzi “sciacqua – poco – in arno” e getta.

  3. D’accordo, Daniele, per difendere la categoria ti sfido in singolar tenzone: il mio prossimo romanzo sarà una grande e avvincente narrazione scritta benissimo!!!
    ;-)

  4. Mi scuso (abbraccione a Franz e Gianni), nel mio commento c’è un “non” di troppo. La lingua del romanzo di Bertante è asciutta ed evocativa il giusto, come si deve scrivere oggi se si ha intenzione di narrare: niente arcaismi e barocchismi per fortuna (i limiti del romanzo, semmai, come dicevo, sono nel simbolico, un po’ troppo legato a mitolegemni tradizionali, poco differenziati dall’archetipo Ecate-Artemide). Buon romanzo, ripeto, incalzante e visionario.

  5. a VB e FK:

    Per la verità non ho parlato di tono medio ma di lingua media (idea che rubacchiavo dalla “lingua ipermedia” di cui ha parlato Giuseppe Antonelli giusto a proposito della letteratura degli ultimi anni). L’idea è più o meno questa: il secolo uscente ha privilegiato un tipo di lavoro sulla lingua che tendeva a rendere la lingua medesima il meno possibile “trasparente”, a trattenere l’attenzione del lettore sulla sostanza linguistica del testo, lasciandolo libero di andare a vedere “di cosa” si parlava solo dopo averlo sedotto e anche un po’ drogato. Barthes diceva qualcosa come cullarsi una frase, accarezzare una frase, perdersi in una frase, ora non ricordo bene. Il linguaggio sempre in scena, sempre in primo piano, anche quando diventa borborigmo come in Beckett o interiezione pura come in Celine. Ma è successo qualcosa di simile anche in pittura, con l’astrazione, ecc.; e in musica, a Vienna tra fine Ottocento e inizio Novecento. Mi sembra che per molti oggi la situazione si sia invertita: la lingua deve farsi il più possibile pellicola, non deve dare intralcio, è un servo zoppo della visione e del pensiero, al limite sarebbe meglio non ci fosse (il che è ovviamente un paradosso, una lett. senza lingua non si dà. Il romanzo di Alessandro è pieno di visioni, e ovviamente le ottiene con la lingua, mica può passarti dei funghi; per questo evocavo Blake). L’equivalente figurativo sarebbe non più il quadro ma la performance, l’installazione (che non può essere dipinta o scolpita “bene” – ed ecco perché dicevo “scritto male”), il découpage ecc. Se questo accade ci deve essere un motivo. La deprecatio temporis non mi convince. Però la ragione vera ancora non la vedo. Bisognerebbe rifletterci.

    a GB: sun chi

  6. questa osservazione «L’equivalente figurativo sarebbe non più il quadro ma la performance, l’installazione» mi trova in sintonia, l’anno scorso sono stata all’ armory show e sono rimasta impressionata dalla debolezza della pittura, dal suo epigonismo, almeno nei numeri, rispetto alle performance ecc.

  7. Ecco alcuni appunti e suggestioni.
    Questa recensione è molto, molto interessante. Descrive uno dei cambiamenti più evidenti della letteratura contemporanea, e forse quello che più è stato guardato con sufficienza da parte di alcuni critici. Oggi l’esperienza della lettura passa sempre meno attraverso la lingua e sempre più, per esempio, attraverso l’immagine. Non ho letto il libro di Bertante, conosco però Ammaniti. La scrittura che rinuncia all’incantamento per mezzo della lingua, per scelta o per un “limite” dello scrittore, nega in qualche modo la sua natura (almeno rispetto a quello che finora è stato detto della scrittura). In pratica, pretende di essere più vera, più reale. Trattiene il lettore sul piano della storia (e della “vita”) tenendolo lontano da quello del linguaggio. Mentre leggevo le prime pagine di un famoso libro di Ammaniti, mi è capitato più volte di pensare come suona male questa frase, accidenti, suona proprio male. Poi però, a poco a poco, l’attenzione si allontanava dalla superficie del testo per concentrarsi sulla “pura storia”. E a quel punto il linguaggio era ininfluente. L’esperienza era diretta, visiva, più immediata e “meno mediata”. Non so se questo sia un limite. Penso che si possano scrivere buoni libri concentrandosi sulla lingua, o ignorando in buona parte i suoni, le costruzioni, il lessico. Penso però che la definizione di “tono medio” non riguardi necessariamente questa caratteristica dello stile. Ci sono scrittori dal “tono medio” che ti inchiodano alla frase e pretendono di essere ascoltati soprattutto per le parole che hanno da dire, facendo insomma esattamente all’opposto rispetto a Ammaniti. Alcuni, in “tono medio” sanno comporre vere e proprie sinfonie con le parole. Invece altri, “in tono medio” aggirano le complessità e quindi anche i limiti insiti nello “scriver bene”. Perché non c’è dubbio che la cura della lingua imponga dei limiti. Scrivere senza cura per la lingua equivale a levarsi i paraocchi, le briglie, e andare avanti come cani sciolti ovunque ti porti la storia, o la fantasia. La lingua invece impone sempre le sue limitazioni: per quanto riguarda la tensione, l’atmosfera e il clima morale di un racconto. Almeno, questa è la mia percezione.

  8. @Giglioli
    Adesso capisco e sono daccordo, nel senso che questa dicotomia la vedo bene, anche se io sono più propenso a definirla nei termini dell’opposizione polare tra “letteratura” e “narrazione”. Credo che in questo come in altri casi l’oscillazione del gusto abbia qualcosa a che fare con quello che McLuhan definiva il carattere “visivo” o “auditivo” dei media, o meglio ancora con il “caldo” e “il freddo” dei medesimi.

  9. Argomento molto interessante. Però il commento esplicativo di Daniele sembra contrapporre la non-trasparenza della lingua nella letteratura del novecento all’aspetto immaginifico di molta letteratura contemporanea, come se questo fosse un risultato che si ottiene *solo* usando una “lingua media”.
    Invece io credo che una lingua non-trasparente possa avere la stessa capacità di narrare per immagini, e che casomai possa perdere in immediatezza. Per questo motivo, mantenendo la metafora delle arti visive, mi pare più opportuno un confronto tra la pittura ad es. impressionista e quella iper-realista (quadri che sembrano fotografie, per intenderci), dove la pennellata scompare e non è più un codice che si deve – per quanto inconsciamente – decifrare.

  10. Ciao Daniele,
    molto molto interessante. In particolare la questione del postmediale in letteratura e della sua pardossalità (paradossalità in un certo senso maggiore in letteratura che nelle altre arti). Mi puoi segnalare in quale libro della Krauss se ne parla? e un abbraccio

  11. Giovanni!
    Krauss ne parla in Reinventare il medium e in Inventario perpetuo, tutti e due da Bruno Mondadori. Sei a Parigi?

    Alexpardi: non è che la lett novecentesca “intransitiva” fosse aniconica, anzi: pensa a Joyce o a Faulkner. L’idea che mi sono fatto è che però ci volesse arrivare con i suoi mezzi specifici, in competizione con le altre arti (e lo stesso regime di rivalità vigeva con la musica). Oggi mi sembra tutto più collaborativo (e di transmedialità o intermedialità parlano in tanti); io, scrittore, accenno all’idea, con quali parole e frasi e ritmi non importa poi molto; e tu, lettore, ripeschi nella tua memoria una sequenza di immagini già note sia a te che a me, cinematografiche, televisive, che condividiamo come comune oggetto d’amore. E’, per capirci, come se Sofocle dicesse: la faccio breve, tanto la storia di Edipo la conosciamo e la amiamo tutti quanti. Forse è anche a questo che pensano i tanti che parlano di un ritorno del mito.

  12. grazie, me li procurerò (ed in effetti aveva fatto anche una lezione a Bergamo sulla questioe, se non mi dbaglio). Sì, Parigi!

  13. Cesare Garboli perché fa il paraninfo?
    Comunque.
    Non ha tutti i torti. Nel senso, quando parliamo di questa bassaplebe di romanzieri, della miriade di romanzieri, credo sia lecito fare discriminazioni tra i reparti della scrittura.
    Io questi codazzi non li leggo perché sento repulsa. Quindi non saprei ruffianare matrimonii. Ci vuole occhio per combinare le cose.
    Alchimist.

    Per la vera letteratura è difficile dire che un libro sia riuscito o no. Anche per questo Gadda li lasciava incompiuti.
    I critici si aggrappano ai canoni e alle proprie deludenti formazioni culturali.
    Per me l’arte ha da essere scivolosa. Chi offre troppe rocce aguzze facilita l’arrampicata. L’arte ha da essere una montagna unta di sapone. Niente messaggini da scodellare. Tantissimi porcoggiuda.

    Ma alla fine ognuno ha il suo stampo e non sarà un caso che i miei migliori non abbian beccato un Nobel

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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