La bella anoressia del cigno nero

di Marco Rovelli

“Il cigno nero è il mio film preferito di tutti i tempi”, scrive una ragazza su Pretty Thin, un forum pro-ana americano (pro-ana sono i siti che promuovono l’anoressia). E si capisce. “Il cigno nero” è un film geniale per la coerenza perfetta della sua iper-estetizzazione . Bello e immorale, nella misura in cui assume il punto di vista della “malattia” – quella di un’autolesionista anoressica allucinatoria –  trasfigurandola (e legittimandola) nei diversi livelli della favola e del mito. Anzitutto è un film implacabile, che esibisce subito il suo scheletro figurale, le stereotipie polari su cui gioca. Si prenda la madre che fa la torta e poi, quando la figlia Nina non la vuole mangiare, d’un tratto diventa una strega, quasi con un tratto cartoonico: quella non è una scivolata grottesca. La madre “deve” essere una strega, lei “è” la strega cattiva. Come dev’essere in una trasfigurazione favolistica-artistico-mitologica (nei rispettivi diversi e intrecciati livelli). Ma Aronofsky non riduce il mito alla materialità di un’anoressica autolesionista allucinatoria (come, che so, chi legge le mistiche medievali esclusivamente come anoressiche isteriche): piuttosto, al contrario, legge la vicenda mediante la chiave mitologica. Che finisce in tragedia, e sta qui “l’immoralità”: perché l’ottica tutta autoriferita del soggetto allucinatorio, “malato”, viene assunta senza incrinature nella sua pretesa assolutezza, fino al volo mortale. Si prenda l’elemento fondamentale che manca: il vomito. Che nel film non viene mostrato. Perché il sangue può essere romanticizzato, il vomito no. Il film fa questo infatti: assume il punto di vista estetizzante della “malata”. Come ha scritto un sito per la guarigione dall’anoressia, una moltitudine di anoressiche “glorificano il loro deperimento fino alla morte, vivendo le proprie vite con lo scopo della perfezione definitiva. Esse sono delle Nina nella vita vera”.

(pubblicato su l’Unità, 2/4/2011)

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30 Commenti

  1. L’arte non deve rendere conto della sua moralità, e il problema di questo film non è la sua immoralità. E’ difficile per me che non sono critica cinematografica spiegare perché, ma l’unica parola che mi è uscita dalla bocca appena finito il film è stata: ma che boiata. Ecco, secondo me è solo una boiata di film. L’incrocio tra un orror di categoria B e un dramma psicologico presentato con un livello di analisi da rivista per parrucchieri.

    Sullo stesso tema, e ampliamente citato nel film, il capolavoro di Polansky: Repulsion. Lì c’era l’allucinazione, quella vera.

  2. Marco, scusa, esattamente qual è la tua posizione rispetto al “punto di vista estetizzante della malata” assunto dal regista del film? grazie,
    stefano

  3. Non so capisco bene il senso della domanda…se intendi che cosa penso della scelta di Aronofsky di assumere il punto di vista estetizzante della malata, (L’arte può essere immorale?, è questo che mi chiedi?) penso che sia una scelta legittima, o meglio è legittima nella misura in cui produce un’opera dotata di un senso assolutamente compiuto come questo. Il cigno nero ci mostra la grammatica e la sintassi della visione del mondo da parte di una persona malata, lo fa senza giudizio, e questo è uno straordinario risultato artistico.

  4. Dopodiché, per capire che qui siamo a tutt’altro livello delle riviste per parrucchieri, basterebbe porre mente a come vengano rappresentate e trasfigurate nel film le modalità tipiche, clinicamente parlando, delle dinamiche relazionali di una persona di quel genere (i rapporti con la madre soprattutto, le sue proiezioni, i suoi rapporti intrapersonali in genere).

  5. Sono d’accordo sul film, che ho visto. E grazie della risposta, ora ho capito meglio la tua espressione di cui ti chiedevo conto

  6. Anch’io sono d’accordo con l’affermazione di principio di Anna C “L’arte non deve rendere conto della sua moralità”, ma oggi penso che se un’opera d’arte favorisce per così dire un disturbo psichico perché contribuisce a estetizzarlo, a trasfigurare un certo fascno del male, c’è qualcosa che non va, e finisce per creare una antimorale negativa che non è “rendere conto della sua moralità”. Un esempio che mi viene in mente è il film “i ragazzi dello zoo di Berlino”, che ha contabilizzato un numero impressionante di morti per overdose in sala di proiezione.

    Forse l’arte in fondo deve essere etica. C’è una frase di Raul Montanari: “se la scrittura non è etica, non è scrittura”.

  7. Ummm. Il film ti fa immergere nel punto di vista della protagonista, che è un punto di vista “malato”. La protagonista riesce a raggiungere, diciamo così, il suo scopo, non grazie alla sua malattia, ma liberandosi da essa. Vero che questa “liberazione” avviene in modo violento, ma avviene. Il suo volto non è più teso per l’ossessione del controllo di qualunque cosa intorno a lei. Lei è incapace di lasciarsi andare, ed il suo problema è proprio questo. E non è che il regista (dico, Cassel) non insista su questo punto. È la “guarigione” dalla malattia, che avviene in modo così violento, e non è grazie alla malattia che lei danza tanto bene. La malattia, anzi, è l’ostacolo. Questo mi sembra chiaro. Poi, non so.
    (nel titolo di questo pezzo c’è un refuso: Le invece di La)
    Ciao.

  8. “perché il sangue può essere romanticizzato, il vomito no” .Propio così.Anzi,credo di aver sempre pensato che tossire sangue(vomitarlo un po meno),e quindi respirare l’abisso che inesorabilmente ti si para davanti,sia una delle rappresentazioni più struggenti in circolazione,vendibile a 360 gradi.Ma evidentemente questi signori onon conoscevano la storia di Artaud(credo di ricordare bene),colui il quale di fronte a un pubblico eccitato all’idea che bissasse quanto fatto in uno spettacolo precedente interpretando una gag coprofaga deluse gli spettatori dichiarando “la cacca l’ho già mangiata.Andiamo avanti”

  9. “L’arte non deve rendere conto della sua moralità” è comunque un’affermazione che sottoscrivo, credo di averlo precisato nella risposta a Stefano.
    Andrea, la liberazione c’è, la morte però è l’unica liberazione possibile infatti per una persona tesa al compimento di sé nella distruzione di sé per una paradossale aderenza a un’immagine rovesciata di perfezione.
    Quanto a quelli che hanno pensato che il film fosse una boiata, ho la presunzione di pensare che non hanno compreso la logica interna del film. Perché “che boiata” è stata la cosa che ho pensato per i primi dieci minuti del film: poi mi si è fatta alla mente una struttura precisa, inesorabile. (E se si cita Repulsion, che genericamente è una discesa nella follia skizo, non si è colto la specificità di questo film)

  10. Infatti. Allora diciamo che la maggioranza dei pochi londinesi in sala hanno trovato quel film una cazzata. Esattamente come me. Ogni tanto fa piacere essere in buona compagnia. Comunque…

    Mi sembra ridicolo parlare di anoressia per una ballerina classica che lavora con e sul suo corpo. Auto-lesionista nella misura in cui e’ abituata a massacrarsi i piedini ballando volitiva per ore. Altro che pellicine morte e unghie spezzate…

    Di scene grottesche ne ho viste diverse. Alcune sequenze anche belle. Soprattutto quelle da reality show durante le audizioni. Quella del ditalino a letto la salverei solo perche’ mi ha strappato una risata sul finale…

    Comunque mi pare che il fim sia piaciuto a molti, no? Non si capisce perche’, ma la bella protagonista ha vinto anche l’Oscar, forse per tenere alte le sue quotazioni in borsa.

  11. Conosco le dinamiche dell’anoressia in quanto ho avuto relazioni molto strette con persone anoressiche o ex anoressiche, ho letto, ci ho scritto un romanzo. A me non pare affatto ridicolo.

  12. volevo dire che concordo con l’affermazione di Anna C. sul film e son contenta di essere in compagnia di AMA. Il film l’ho trovato autocompiaciuto e presuntuosamente conscio di essere importante e profondo e giustamente repulsivo, alcune scene molto belle, ma davvero non regge, di una fragilità inutilmente velleitaria.

  13. Le ballerine classiche non sono anoressiche: sono ballerine. Classiche. Non credo che il tema principale del film sia l’onoressia. Ma l’ossessione per la perfezione, l’incapacita’ di usare il proprio corpo per godere, e tante altre cose.

  14. Ama, non è realismo sociale, non trovi la storia di un’anoressica. La trasfigurazione è metaforica – ripeto: metaforica. E l’iperestetizzazione (che può apparire, certo, come autocompiacimento se non si coglie il senso complessivo dell’opera) è la restituzione esatta dell’ottica soggettiva della malata, assolutamente aderente ad essa. Certo non si pretende che venga studiato ciò che viene scritto, ma almeno letto con una minima attenzione sì: come dico in fondo all’articolo, ci sono siti dedicati all’analisi clinica dell’anoressia che hanno fatto un’analisi del film, passo passo, a riprova che la struttura psichica raffigurata è questa e regge benissimo.

  15. Marco, troviamo che il film non regga, non le analisi cliniche e le ottiche soggettive anche coerenti e aderenti.

  16. L’ho capito benissimo. Io dico invece che il film regge eccome proprio in quanto ha una sua logica serratissima, ed è una logica, per dirla all’antica, che fa procedere in un parallelismo compiuto e “perfetto” contenuto e forma.

  17. Non regge. E non vorrei scendere sul personale, ma una persona a me molto vicina era arrivata a pesare 38 kg.

    Trovo eccessivo spendere tante categorie retoriche per una BOIATA come questo film.

  18. solo una piccola puntualizzazione a livello formale: è vero che ci sono nel film delle affinità con il repulsion polanskiano ma i 2 modelli evidenti (e inconciliabili) del cigno nero sono la mosca di cronenberg (non dunque un horror di serie b ma di serie a, a meno che non si consideri, per quel che mi riguarda erroneamente, tutto il cinema horror un sottogenere) e scarpette rosse di powell e pressuburger. è proprio dallìinnesto o impossibile compresenza di questi 2 modelli che deriva la sua sgradevolezza. che poi tale sgradevolezza per qualcuno sia motivo di fascino e per qualcun’altro di fastidio ci può stare. a me comunque è piaciuto

  19. Mi sa che non si ha affatto chiara come si crede la dinamica anoressica se si dice che la tematica del film è l’ossessione per la perfezione e non l’anoressia.

  20. None. Che le ballerine classiche non mangino si darebbe quasi per scontato. Che siano auto-lesioniste e volitive e ambiziose anche. Che abbiano una madre ossessionante e irrealizzata che da piccine le portava a danza pure. Con diverse sequenze volutamente incongrue, questa boiata di film tratta del tentativo di far corrispondere a perfezione il soggetto con l’oggetto della rappresentazione…

    Quale sito pro-ana non promuoverebbe i film di un’attrice tendenzialmente anoressica come Natalie Portman? Per fortuna agli Oscar rotonda e in dolce attesa.

  21. E comunque la Portman non e’ assolutamente credibile nel ruolo, se non per la eccessiva magrezza, soprattutto quando le inquadrano spallucce e tettine. Credo non sappia neanche stare sulle punte. Ed effetti speciali o meno, la scarna e piu’ sana fisicita’ della sua controfigura che balla si nota. Il corpo da danzatrice non ti viene in un anno di digiuni e piroette.

    Senza contare che alcuni effetti speciali piu’ che all’Horror tendono al grottesco. Involontario. Forse per colpa del montaggio.

  22. Sei testardo eh ( tra l’altro pensavo di linkarti i siti – non di anoressiche – ma di organizzazioni che combattono l’anoressia clinicamente – che hanno analizzato la struttura del film – ma non te li meriti :-), prima dici chiudiamola, io dico ok, e poi continui, te rode eh… Be’ in chiusura – so che hai senso dell’umorismo – apprezzerai quel che mi ha scritto in mail un’amica che l’anoressia la conosce molto, troppo bene:
    “Secondo AMA è un refuso. Voleva firmarsi ANA, pro-ana. E alla base di tutto le sta sulle palle 1. di non avere il corpicino esile della Portman 2. che tutti abbiano guardato un film in cui lei non è la protagonista”
    :-)))

  23. Credo di conoscere la signorina in questione. L’anoressia non e’ il suo unico problema.

    Le organizzazioni che combattono l’anoressia hanno ragione: teoricamente la struttura del film – sulla carta – rappresenta a perfezione un’anoressica, ma il risultato tecnicamente di fatto non regge. Vacilla.

    Forse qui e altrove ci si concentra eccessivamente sul “paratesto”, sull’anoressia reale della Portman, da anni affetta da questo problema. Bellissima. Di quella magrezza volitiva che piace tanto alle cultrici del genere.

  24. A me della Portman non me ne frega niente e non c’entra una mazza col discorso che ho fatto e che tu non hai capito, ma sinceramente mi sono stufato. Anche perché non sai davvero di chi sto parlando, e tu sei inutilmente offensivo. Vogliamo piuttosto parlare dei tuoi problemi? Peccato, credevo avessi qualche senso dell’umorismo, mi sono sbagliato.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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