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un test di italiano per la carta di soggiorno europea. A scuola.


di Paola Lodola

Il test è fissato per le 14.30. I lettore cd è pronto, le fotocopie delle prove pure. Ci abbiamo lavorato tanto perché fossero ragionevoli, non contenessero inghippi e non generassero equivoci. Nell’aula che ospiterà i candidati la bidella ha disposto i tavoli in assetto da prova d’esame: tutti staccati, come quando ci sono gli esami di terza media. Deve averglielo suggerito il coordinatore stamattina. Alle 14.25 i candidati presenti sono sette e comincio a prendere nota dei documenti. Due sono marito e moglie e hanno con sé tre figli piccoli. Mentre faccio firmare il foglio di presenza, arrivano preside e vicepreside. L’occasione è speciale. La nostra scuola è fra quelle incaricate dalla Prefettura di sottoporre a un test di italiano coloro che hanno richiesto la carta di soggiorno europea, quella a tempo indeterminato, che tutela per sempre dal rischio di ripiombare nella clandestinità. Ottenere questa carta comporta vantaggi importanti: per esempio perdere il lavoro senza perdere il permesso di soggiorno, non dover fare code per il rinnovo e accedere a una serie di provvigioni.

Per richiedere la carta di soggiorno di lungo periodo questi signori hanno aspettato cinque anni, hanno dimostrato di avere un reddito congruo, una casa idonea, nessuna pendenza giudiziaria e ora sono qui, chiamati a dimostrare di “possedere un livello di conoscenza della lingua italiana che consente di comprendere frasi ed espressioni di uso frequente in ambiti correnti, in corrispondenza al livello A2 del Quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue ”. Come prevede l’articolo 2 del Decreto ministeriale del 4 giugno 2010.

L’elenco degli esaminandi ci è arrivato giovedì scorso. Sono ventidue. Non ne conosciamo nessuno. Alle 14.40 i candidati presenti sono sempre sette. Per ammazzare il tempo la Preside chiede il nome a ciascuno e prova a ripeterlo. Alla fine informa che i bambini non possono stare in aula durante l’esame e mi guarda con occhi interrogativi indicando l’orologio che ha al polso. Suggerisco di aspettare ancora perché la scuola ha due entrate molto distanti l’una dall’altra, e per giunta siamo senza numero civico.
– La prossima volta dobbiamo mettere dei cartelli sul cancello che guidino nel percorso – suggerisce.
Giusto, non ci avevo pensato.

Mentre Loredana, impegnata come me nei test, cerca di imbastire una conversazione con i candidati che, irrigiditi dall’ansia, riescono solo a risponderle a monosillabi, io esco in strada sperando di intercettare chi magari non trova l’entrata, ma niente. Alle tre e un quarto torno dentro. La preside è dovuta andar via. Alcuni candidati ci invitano timidamente a cominciare perché al lavoro hanno chiesto un permesso e hanno paura di far tardi. Allora cominciamo. Con il fascicolo delle prove in mano, diamo le istruzioni per l’esame: ci saranno due registrazioni da ascoltare e delle domande a cui rispondere scegliendo fra tre possibilità per ciascuna domanda. Poi bisogna leggere due testi (350 parole in tutto) e segnare se le cinque frasi scritte sotto ciascun testo sono vere o false. Infine dovranno scrivere 30 parole per raccontare cosa fanno di solito durante la giornata. Tempo a disposizione: un’ora. Quando stiamo per accendere il lettore cd entrano di corsa due signori. Hanno il fiatone e ci impiegano un po’ a ritrovare le forze per presentarsi. Sono marito e moglie e il datore di lavoro di lei non la lasciava uscire perché c’era ancora da fare in magazzino. Lui con la macchina l’ha aspettata. Quando i candidati capiscono che il test è alla loro portata e che se giriamo fra i tavoli è per chiarire dei dubbi e non per vigilare, sembrano tranquillizzarsi. L’unica ancora in tensione è la signora egiziana i cui tre figli aspettano nell’aula accanto. Legge e scrive poco. Per fortuna i testi che abbiamo preparato sono pieni di numeri: prezzi, orari, numeri di telefono e disegni. Dunque, un po’ incoraggiata, riesce a fare anche lei quasi tutto. In prima fila c’è una signora nigeriana che per descrivere la sua giornata ha riempito due pagine, i due peruviani stanno facendo lo stesso, il ragazzo cinese si è limitato alle 30 parole ma non ha fatto neanche uno sbaglio. Anche il testo dei due bengalesi è quasi finito. Gli lancio un’occhiata e riconosco la grafia un po’ retrò dei miei corsisti del Bangladesh. Ora che ci faccio caso anche i due albanesi arrivati per ultimi sono in ambasce. Non mi ero curata di loro perché parlavano svelto e bene, ma evidentemente il problema è la scrittura. Mi avvicino un po’ e capisco che non è neanche la scrittura il punto, ma il test in sé. Il problema è la mancanza di dimestichezza con un questionario che prevede risposte vere o false e soluzioni da trovare in un elenco. Ci avevamo riflettuto tanto quando abbiamo preparato le prove: meglio far scrivere la risposta o far barrare? Meglio domande aperte o un vero e falso da compilare? “Meglio barrare e far scrivere il meno possibile”. Ma ora vedo che per loro sarebbe stato più naturale scrivere la risposta alla domanda e non doverla cercare in un elenco, (cosa che avrebbe invece paralizzato la signora egiziana). Hanno dita piene di calli, screpolature, tagli, arrossamenti. Raramente ho visto mani ridotte così. Pensando a cosa sto facendo in quest’aula mi vergogno come mai mi era successo nella vita.

Alle sei Loredana e io cominciamo la correzione. I testi raccontano giornate di lavoro e domeniche tranquille. Il punteggio richiesto dal decreto per superare la prova lo ottengono tutti. Mentre compiliamo i verbali il malessere non mi abbandona. La decisione di far parte di questa commissione era stata sofferta. I dipendenti di un CTP di Torino avevano chiesto ai colleghi di tutta Italia di non accettare l’incarico, di mettere in pratica una sorta di obiezione di coscienza per non avvallare una legge disgustosa. Invitavano i docenti a non far svolgere l’esame presso i CTP che le prefetture avevano invece individuato come sedi per i test. Poi un giorno Monica, perplessa pure lei all’idea di svolgere le prove da noi, mi ha raccontato che una signora che incontra spesso al supermercato, in procinto di chiedere la Carta di soggiorno, le era parsa sollevata quando aveva saputo che potrà fare l’esame nella scuola in cui lavora lei.

Intanto i sindacati parlavano di fantomatiche scuole di lingue nate in quattro e quattr’otto, pronte a proporsi come enti certificatori. Così alla fine non ho fatto niente, ho detto va bene, e ho pensato che in fondo avrei fatto fare un test con una prova pensata da noi, senza trabocchetti e difficoltà inutili, e alla fine noi le avremmo corrette e noi le avremmo valutate. Quindi, posto che la legge c’era e la possibilità che fosse cancellata no, mi sono detta meglio i CTP che strutture nate appositamente per selezionare chi sì e chi no.
Ma non lo so cosa è giusto fare.

Oltre a una copia dei verbali, il provveditorato ci chiedeva di inviare dei suggerimenti per le sessioni future. Noi abbiamo scritto che l’orario, le 14.30 di un martedì, non ci sembra adatto a persone con assillanti obblighi lavorativi. Pensando alla signora trattenuta in magazzino abbiamo dedotto che quello fosse il motivo delle tante assenze.

Il telegiornale regionale ha comunicato che a Milano su circa 600 candidati se ne sono presentati poco più di 200. Il cronista si congratulava con coloro che avevano superato la prova, “un incoraggiante 90%”, chiariva che il restate 10% avrebbe potuto ritentare una seconda volta e infine ipotizzava che le numerose assenze si dovessero al timore per una test di cui i più ignoravano le caratteristiche.
Ma perché uno farebbe tutta la trafila, pagherebbe 70 euro sapendo di dover fare un esame, per poi non andare?

Nelle settimane successive si è capito. Dal 15 febbraio sono arrivati a scuola due o tre candidati al giorno, di quelli assenti, con il foglio della convocazione per l’8 febbraio in una busta su cui era scritta a penna l’effettiva data di recapito: 15, 16, 17 febbraio.
Ma non c’è problema: i candidati potranno iscriversi di nuovo collegandosi all’apposito sito e presentarsi alla prossima sessione che la prefettura gli comunicherà.

Che la conoscenza dell’italiano sia necessaria per vivere in Italia lo sanno tutti gli stranieri che ci abitano. La fame di ore di scuola e di occasioni per comunicare in italiano è il tratto che accomuna tutti. Ma nei fatti può frequentare una scuola meno del 10% degli stranieri che abitano in Italia. Gli altri, quelli con orari di lavoro impossibili, con lunghe distanze da percorrere in zone poco servite dai mezzi, fanno quello che possono.

Imporre un esame di lingua è ingiusto, escludere una categoria di persone dalla possibilità di accedere alla carta di soggiorno e da tutti i diritti che garantisce, e farlo in nome della sicurezza, è vergognoso.

Questo test mette in difficoltà soprattutto due categorie di persone: chi lavora tantissimo e lontano dai centri urbani, e chi non ha frequentato la scuola, neanche nel proprio paese. Tutti si sono accorti che sono le donne egiziane, marocchine, pakistane quelle messe più in difficoltà da questa legge. Se una madre non avrà la carta di soggiorno, ciò non andrà a vantaggio della nostra sicurezza ma dei nostri bilanci. Quella donna, che fa la spesa in Italia e paga l’iva ogni volta che compra qualcosa, con un marito che lavora in Italia e in Italia paga le tasse, non potrà avere gli assegni per la maternità che le spetterebbero, neanche se suo marito la Carta di soggiorno ce l’ha.

Ci sono zone in Italia senza scuole di lingue e senza nemmeno una rete che dica agli stranieri dove si trovano i corsi che magari oratori e associazioni hanno messo in piedi da qualche parte.

In Francia quando uno straniero si presenta al municipio per i documenti, riceve l’elenco delle scuole gratuite, pubbliche o gestite da associazioni, vicine a dove andrà a risiedere, con orari, indirizzi, telefoni. In genere è un elenco lungo, che comprende le scuole della Croce Rossa e quelle degli oratori, quelle delle comunità di stranieri e delle associazioni di volontariato. Questo elenco è sempre aggiornato dai municipi che offrono il patrocinio e tengono i contatti con tutti coloro che operano sul territorio.

Inoltre la OFII, l’Office Français de l’immigration et de l’integration, offre agli stranieri che risiedono in Francia da un certo tempo e hanno perso il lavoro corsi gratuiti all’Alliance Française tutti i giorni, cinque ore al giorno, per quattro mesi. Le ore destinate ai corsi di italiano per stranieri nelle scuole sarà ridotto all’osso nei prossimi anni, per effetto della riforma. Un astrofisico triestino, intervistato da Alessandro Melazzini per un documentario sugli italiani a Monaco, ricordava che i primi mesi in Germania erano stati terribili. Usciva lo stretto necessario. Neppure nel giardino di casa si avventurava perché era terrorizzato all’idea che il suo vicino gli parlasse.

Se a questo governo stesse a cuore l’integrazione degli stranieri, con il Ministero dell’Istruzione farebbe accordi diversi da quello stretto l’11 novembre 2010, “volto a individuare le indicazioni tecnico-operative da trasmettere alle scuole coinvolte nei test”.

Penserebbe a come implementare la rete delle scuole, a come valorizzare quelle che ci sono. Inviterebbe le amministrazioni locali a fare altrettanto. Farebbe accordi con il direttore della Rai per destinare un paio d’ore la settimana a un corso di lingua su uno dei tanti canali televisivi disponibili. Solleciterebbe la free press, alla portata degli stranieri che si muovono sui mezzi, a dedicare una pagina al giorno all’apprendimento dell’italiano, riprendendo quella di un manuale di lingua o di un dizionario illustrato. Se a questo governo stesse a cuore l’integrazione degli stranieri il Ministro Gelmini e il Ministro Maroni bandirebbero un concorso di idee, invitando a immaginare metodi, canali, strategie per diffondere l’apprendimento dell’italiano fruttando tutti i media disponibili, a costi contenuti, anche più contenuti di quelli, assai cospicui per la verità, che la somministrazione dei test comporterà negli anni. Non chiederebbero alla scuola di esaminare e valutare ma la aiuterebbero a insegnare.

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10 Commenti

  1. E se a quel test sottoponessimo gli italiani? Ci sarebbe di che ridere, anzi di che piangere…

  2. Giovedì, nella mia scuola, per la quarta volta dal mese di febbraio, mi sono trovato nella stessa situazione di Paola. Quasi metà degli stranieri presenti per sostenere il test (soprattutto donne) sono analfebete anche nella loro lingua.
    E’ terribile vedere anziane signore piangere per l’umiliazione e la frustrazione. E’ una situazione inaccettabile. Grazie per aver pubblicato questo fedelissimo resoconto e spero che se continui a parlare.
    Giovanni Pannacci

  3. E’ un resoconto profondo e sensibile, grazie Paola, per avermi fatto capire meglio questa realtà. Ci vorrebbero tante persone come te, che portino avanti questa missione con così tanta passione e devozione.

  4. Bellissimo articolo e molto triste… hai fatto la scelta giusta; meglio i CTP che altre structure “pensate a posta” per far valere questa legge sadica

  5. Condivido al 100% quanto scritto nell’articolo. Insegno anch’io in un CTP, il CTP di Nereto, provincia di Teramo, e penso che tutto il malcontento diffuso verso un simile modo di intendere l’integrazione si dovrebbe cercare di raccoglierlo per arrivare quanto meno al potenziamento dei corsi di italiano L2 e all’introduzione di una prova orale nel test…
    A proposito di dissenso nei confronti del testo è possibile anche leggere questa: http://www.meltingpot.org/articolo16723.html

    Pierluigi Bandiera
    CTP Nereto

  6. Per completezza segnalo il documento critico nei confronti del test che abbiamo elaborato al CTP di Nereto, prov. di Teramo, e che è stato condiviso anche da altri CTP abruzzesi.
    Il documento è visibile sulla pagina Facebook del Centro Eda CTP Nereto.

    Pierluigi Bandiera
    CTP Nereto

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