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Il portavoce

Il portavoce  / Ugo Coppari

Già da ragazzi tutti e tre avevano le idee ben chiare. Matteo voleva fare il calciatore, Giovanni l’astronauta e invece Luca voleva fare il portavoce. Ma non si era mai chiesto di chi o di che cosa.

Continuava a raccontare di un politico che una volta si era messo nei guai, e che per risolvere questi guai aveva mandato in televisione un portavoce che parlasse al posto suo. Questo portavoce aveva dei modi di parlare e di gesticolare affabili, riusciva a convincere chiunque che le sue affermazioni non fossero punti di vista sul mondo ma veri e propri sillogismi logici. Ad esempio Luca diceva che è normale supporre che se uno va veloce con la macchina lungo una strada di campagna, e che se tutti quelli che vanno veloci possono mettere a rischio la vita altrui, tutti quelli che vanno in campagna possono mettere in pericolo la vita altrui. Ma i suoi amici continuavano a credere che in realtà Luca fosse proprio scemo, perché continuava a parlare coi sillogismi logici che gli avevano messo in testa i portavoce dei politici che si erano messi nei guai.

In fondo nessuno aveva chiesto a Luca cosa trovasse di bello nel fare il portavoce: se il togliere le persone fuori dai guai, o il fare della parola uno strumento di stravolgimento della realtà. Ma poco importava, Luca era pronto a qualsiasi cosa pur di diventare il portavoce di qualcuno di importante che si era messo nei guai. Così si mise a cercare dei bandi di concorso per diventare portavoce di politici importanti: ma si accorse ben presto che non esistevano bandi del genere. Tutti i consulenti a cui si rivolgeva tenevano a precisare che per diventare il portavoce di qualcuno bisognava prima di tutto guadagnarne la fiducia, e non c’era un modo preciso per riuscirci, un percorso mirato di studi o chissà quale altra bizzarria del genere. Era qualcosa che si imparava semplicemente dalla strada. Così cercò di andare per strada e capire come le persone fanno a meritarsi la fiducia degli altri. Passava tutto il tempo accovacciato tra le siepi dei giardinetti del suo quartiere: ad esempio c’era un signore che se ne stava da mattina a sera seduto su una panchina a leggere il giornale, di tanto in tanto alzava lo sguardo al cielo e tirava un sospiro. Ogni persona che passava di lì gli rivolgeva la parola dicendo buongiorno e buonasera, a seconda dell’ora del giorno. Ma forse non era quella la fiducia di cui gli avevano parlato più volte. Allora comprò una rivista specializzata, in cui si parlava di scuole di formazione per uomini di successo.

Dicevano ad esempio che bisogna sempre sorridere e che quando qualcuno ci stringe la mano noi dobbiamo dimostrare la nostra personalità con una stretta forte e decisa. Dicevano anche che molti ragazzi si sono fatti le ossa a forza di stare vicino a persone importanti e influenti, emulandone le strategie retoriche e cinesiche. Fu proprio nel chiedersi cosa significasse la parola “cinesiche”, che una sera Luca si addormentò in cucina. Al risveglio si ritrovò esausto a cercar di capire chi fosse davvero importante da poter essere emulato. Accese la televisione, guardò diversi programmi di intrattenimento culinario, poi scrutò i volti dei politici che apparivano nei telegiornali di metà mattinata. Ma era già mezzogiorno e da tre anni non era ancora riuscito ad avvicinare nessun uomo importante che fosse talmente importante da potergli insegnare come meritarsi la fiducia per poter diventare un portavoce. E così, nell’attesa che l’acqua in pentola bollisse, gli venne in mente un’idea: di inventarsi una persona di cui essere il portavoce.

Una persona che avrebbe spacciato per importante. Doveva prima trovargli un nome che sembrasse importante, poi un lavoro che sembrasse talmente importante da necessitare di un portavoce. Doveva immaginarsi anche una località di residenza che non fosse né troppo piccola né troppo grande. Se fosse stata troppo piccola, chiunque avrebbe potuto smentire l’esistenza di uno dei pochi membri appartenenti alla comunità. Se fosse stata troppo grande, nessuno si sarebbe interessato di lui. Così, preso dallo sconforto, si convinse che un progetto del genere sarebbe stato troppo faticoso. E, dopo aver mangiato, se ne tornò a letto.

Si risvegliò il giorno dopo, con un gran mal di testa: fuori pioveva. Uscendo di casa si accorse di non aver alcun motivo valido per uscire di casa. E allora, invece di diventare il portavoce di una persona viva e immaginata, pensò bene di uscire di casa con l’intento di diventare il portavoce di persone morte e immaginate. Si convinse che in questo modo la gente del quartiere avrebbe finalmente trovato interesse in lui, perlomeno nelle sue comunicazioni. La pioggia aveva fatto rintanare tutti i vecchi del quartiere nei bar, e visto che era Sabato pomeriggio anche i giovani non ne volevano sapere di stare al freddo e al gelo. Pian piano il Bar Centrale si affollò al punto tale che non ci si poteva più muovere. E fu lì che gli venne in mente di avvicinare Saverio, un uomo sula sessantina, e di dirgli che sua moglie ci teneva a comunicargli che nell’aldilà andava tutto a gonfie vele. Infatti la moglie di Saverio era morta in un incidente stradale pochi anni prima, e da quel giorno Saverio aveva smesso di parlare. D’un tratto si girò verso il nostro Luca per chiedergli se davvero riusciva ad entrare in contatto con sua moglie. L’affollamento del locale rese istantaneo il coinvolgimento della folla a quel grande evento: Saverio aveva ripreso a parlare. E allo stesso tempo sembrava che Luca avesse cominciato a parlare coi morti.

C’era chi gli chiedeva di sapere se anche i morti soffrivano di reumatismi o di osteoporosi, o se anche nell’aldilà ci fossero il freddo delle gelide alzatacce invernali o il caldo infernale dei matrimoni di ferragosto, o se la povera mamma morta ce l’avesse ancora coi figli scapestrati che erano ancora senza una donna e senza un lavoro, o sapere dove il nonno tenesse il tanto discusso tesoretto di famiglia, o se prima o poi avrebbero le loro figlie avrebbero trovato marito di buon partito, o se quella brutta polmonite o quella terribile influenza fossero guaribili a breve, o se prima o poi sarebbero riusciti ad estinguere tutti i debiti contratti, o se Dio li guardava da lassù.

Così Luca dispensava risposte a chi gli veniva incontro, ce n’era per tutti. Gli abitanti del suo paese non facevano che parlare di questo giovane portavoce delle voci dall’aldilà, così bravo da non avere alcun dubbio su cosa avrebbe riservato il futuro all’intera comunità: felicità e benessere, senz’ombra di dubbio. Ecco che un giorno però, mentre stava pensando a cosa gli avrebbe potuto riservare il futuro e a quanto sarebbe potuto andare avanti con quella farsa delle voci dall’aldilà, Luca sente qualcuno che gli dice che “la pasta è cotta”. Si fiondò verso i fornelli e scolò in fretta quella manciata di rigatoni che s’era preparato per pranzo. Aggiunse il sugo, e poi cominciò a mangiare. Il ronzio del frigorifero accompagnava i pensieri del povero Luca, che tutto ad un tratto raggelò, chiedendosi chi fosse stato ad avvertirlo che la pasta era ormai cotta. La forchetta a mezz’aria, la bocca aperta, ci pensò su. Ma poi la paura scivolò via, insieme ai rigatoni del mercoledì.

Passarono altre settimane e altri mesi. Luca continuava a  dispensare consigli ai poveri e impauriti abitanti del suo quartiere. Quando una voce irruppe nella sua mente, dicendo che “gli anziani del quartiere si approfittano delle giovani nipotine”. Quelle parole, come le altre che arrivarono nei mesi successivi, gli arrivarono dritte dritte all’orecchio, come se qualcuno gliele stesse sussurrando da vicino. “Ma valla un po’ a raccontare, una cosa del genere”, si disse. Così si tenne tutto per sé, senza palesare alcun cambiamento d’umore. Nella paura di perdere la fiducia e la stima degli abitanti del quartiere, che ormai lo avevano eletto portavoce ufficiale dell’aldilà, ecco che Luca fece finta che quelle voci non esistessero. Ma senza tregua continuavano a comunicargli informazioni delicate sulla comunità, cose che avrebbero scatenato il putiferio. Ci pensò su più volte, se fosse giusto dirle o tenersele per sé. Quando un giorno decise di farsi avanti e di raccontare a Gilberto una storia che gli era arrivata all’orecchio dall’alto. Gilberto, che era il barista, si mise a ridere: cominciò a chiedergli come fosse possibile una cosa del genere, e poi confidò il segreto a tutti quelli che erano lì presenti. Francesco diede uno scappellotto al nostro povero Luca, gli consigliò di non mettere in giro voci del genere, se non voleva finir male.

Più andava avanti, più Luca soffriva per l’impossibilità di dire quel che gli diceva quella voce: una volta gli confidò come era stato ucciso un magrebino che lavorava al cantiere della Marchetti Costruzioni, un’altra volta gli fece sapere come la droga entrava in paese passando per le mani del maresciallo Repetti, un’altra volta gli spiegò il modo in cui al Bar Centrale truccavano le Slot Machine. Ma nessuno aveva intenzione di starsene ad ascoltare quelle idiozie, così gli dicevano: “Stattene un po’ zitto, non se ne può più”. Così tutti quelli che prima si rivolgevano a Luca per saperne di più sul loro futuro, ora andavano in chiesa la Domenica o magari telefonavano agli astrologi che passavano ogni sera sulle reti televisive locali. E Luca, rintanato in casa, spiava il quartiere dal suo quarto piano. La trasparenza delle tende in organza lasciava filtrare nella stanza la luce fioca di un inverno interminabile. Luca piangeva, perseguitato da quella voce.

Il 28 Dicembre Luca uscì di casa con l’intento di non tornarsene più. Stanco di quel quartiere così inospitale, se ne fuggì nella speranza di non udire più quell’insopportabile voce. Era ben coperto e aveva con sé un bel mucchio di soldini, che aveva messo da parte con le laute ricompense ricevute dai vecchi beneficiari dei suoi falsi messaggi dall’aldilà. E allora si incamminò, attraversò montagne e pianure, valici e trafori, fiumi e cascate, affrontò precipizi e strade scoscese. Fin quando, camminando senza tregua, si ritrovò in Tibet. Arrivato alle pendici dell’Everest, alzò gli occhi e senza chiedersi come fosse finito fin lì, riprese a camminare, nella speranza di lasciarsi alle spalle quella voce fastidiosa. Quei pochi che l’hanno potuto vedere parlare tra sé e sé lo avranno sicuramente scambiato per uno scemo di primo livello. La barba gli arrivava fin giù le ginocchia, ed era tutta congelata. I capillari del volto stavano per scoppiare, i piedi erano ormai un unico tozzo di ghiaccio. E così, arrivato a metà del sentiero che portava fin su la cime, svenne di colpo. Quando si svegliò continuò a parlare tra sé e sé, in risposta a quella voce che non ne voleva proprio sapere di lasciarlo stare.

Fu proprio in quel momento che una piccola volpe dal colore fulvo, sgranò gli occhi. Stava girando con la zampetta un sugo di lepre, che aveva preparato per il pranzo domenicale della famigliola, riunita per l’occasione. Il nostro povero Luca s’era accasciato sopra la tana di queste piccole volpi, che non avevano mai visto ne sentito un uomo. La piccola volpe che stava girando il sugo, emise un grido. Disse alle altre volpi di raggiungerla immediatamente, ché aveva sentito una voce. Ma quando la raggiunsero, non si sentiva più niente: ché Luca era di nuovo svenuto. “Vi giuro che l’ho sentita”, precisò la povera volpettina ai fornelli. Passarono le ore, e la volpettina sgranò più volte gli occhi: quella voce, di tanto in tanto, continuava a dire frasi sconnesse, a brontolare qualcosa su chissà chi o cosa. Ma quando le altre volpi, che se ne stavano riposando un po’ più in là, in fondo alla grande tana ricavata nella roccia, le chiesero cosa dicesse quella voce, ecco che lei non sapeva dire nulla di preciso: “ma sono pur sempre voci nuove”, continuava a ripetere.

Passarono i giorni e Luca morì di freddo, senza gloria né memoria dei cari. Lontano da casa, una fine infausta. E la volpettina, rammaricata, già rimpiangeva quelle voci: nessuno le aveva creduto, proprio ora che aveva cominciato a capirci qualcosa. Ma continuavano a prenderla per matta, ferendola nell’orgoglio e relegandola esclusivamente ai fornelli. Ma un giorno decise che era ora di farla finita, di emanciparsi da quel ruolo così poco gratificante, e così si mise in testa di udire voci che gli confidavano dei segreti che riguardano la sorte delle altre volpi che abitavano in quella grande tana. Un giorno infatti predisse che se qualcuno si fosse inoltrato nei ghiacci alla ricerca di cibo, sarebbe sicuramente morta. E così accadde. Poi azzeccò anche un’altra previsione, disse che pochi giorni dopo sarebbe rimasta in cinta. E così accadde. E pian piano la sua fama crebbe, di pari passo con la paura che le povere volpi impararono a riporre nel futuro.

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4 Commenti

  1. Chissà come sarebhbe potuta finire se la Volpettina (e anche Luca) avesse cominciato a scrivere. Le parole avrebbero finito di cadere o di passare da abisso in abisso, da una testa all’altra?

  2. Che bella sorpresa! Ugo Coppari su Nazione Indiana. Uno dei nuovi narratori, con all’attivo una raccolta di racconti (Nove anoressiche) e un romanzo (Limbo mobile), che hanno sapore raro da gustare nella bassa cucina della letteratura industriale. Evviva!

  3. @valerio: ugo in effetti ha già calcato i post di ni:

    https://www.nazioneindiana.com/2009/10/07/limbo-mobile/

    tra l’altro, colgo l’occasione per consigliare a tutti la lettura di “limbo mobile”, che è davvero un testo estremamente interessante. riprende la linea celatiana ma ha in più un talento particolare negli effetti di straniamento. per quel che mi riguarda, le cose che mi sono piaciute di più (oltre ad alcune considerazioni veramente fulminanti) sono certe descrizioni di situazioni o oggetti (tra tutte: il carrello della spesa con i surgelati all’inizio del romanzo, se non ricordo male) in cui la descrizione si focalizza su un singolo aspetto, un unico particolare facendolo diventare la leva per un’operazione di decostruzione radicale: di colpo la realtà si disfa sotto gli occhi o si stravolge. un altro esempio bellissimo è il black out al supermercato che c’è nel post di cui sopra.

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