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fu la raccolta dei fiori nel giardino di cemento

di Chiara Valerio

Affaticato ma soddisfatto, la osservò riversa sul pavimento tra i due piccoli letti sui quali gli venne in mente di adagiarla. Pareva appesa per i piedi, penzoloni. La più bella delle sue figlie era diventata l’impiccato delle carte magiche. Lui stesso provò un brivido di inquietudine a vederla, ma se ebbe quel sentimento fu per aver ottenuto un risultato migliore del previsto. Ebbe la conferma che le motivazioni di tenerla tutta per sé non erano maligne, ma antiche, appartenenti a un mondo che si credeva perduto e suo quale lui invece era riuscito a trovare un portale. Allora forse non avrebbe dovuto condurci Elisabeth, come credeva; forse quel mondo si sarebbe mosso verso loro due: un universo vivo che premeva per ricongiungersi agli umani, ai loro cuori, ai loro desideri, per tornare reale. Elisabeth (Einaudi, 2011) di Paolo Sortino racconta la storia di Elisabeth Fritzl, austriaca, segregata dal padre per ventiquattro anni in un bunker sotto la casa nella quale era vissuta fino ai diciotto anni.

Il padre è Josef Fritzl, elettrotecnico e molte altre cose. Quando Sortino comincia a raccontare, Josef è appena uscito dal carcere nel quale è stato rinchiuso per aver stuprato due donne, è forte e ossessionato dal pensiero che la figlia Elisabeth, amata e stuprata più volte, vada via, faccia come gli altri figli che una volta usciti dal suo universo perfetto e concentrazionario di violenza e ordine, sono diventati estranei. Quando Sortino comincia a raccontare, Elisabeth riempie una piccola sacca per una vacanza con un’amica, si prepara per un viaggio mancato che diventerà tutti i viaggi mancati per sempre. Dove per sempre significa molto tempo. E molto tempo significa ventiquattro anni trascorsi in un sotterraneo di pochi metri quadri senza sole, senza stelle ma con tutte le comodità di un appartamento. Letti, luce, acqua corrente, servizi sanitari, una cucina e, poco a poco, una ghiacciaia, un televisore, addirittura una piscina con la sabbia. Con tutte le eventualità di una relazione. Litigi, vacanze (solo di Josef), discussioni, riappacificazioni, pranzi, cene, figli. Negli anni aveva lavorato sodo per togliere la confusione che lì sotto annullava la differenza tra adulti e bambini, tra passato e futuro, e ora aveva raggiunto una solida certezza: per capire non bastava avere un’idea del mondo come lo intendevano gli esseri umani. Bisognava aver amato come loro si amavano.

Quando Sortino comincia a raccontare non esistono più le notizie di cronaca, i frammenti di processo, i ricordi di un altro giorno, l’indignazione, le immagini sfocate di Elisabeth, gli occhi allucinati di Josef, i nomi dei figli-fratelli, le vigliaccherie della madre-nonna, esiste solo il racconto, il desiderio potente di vedere dove va a finire la storia, gli echi di passato recente che mutano in premonizioni, i giudizi statistici o singolari che si affievoliscono come voci in un bosco di rovi. Esiste il bosco di rovi. Intrecciato dalle intenzioni e dalle possibilità di quei personaggi che, come Hansel e Gretel, come Rink Rank o Cappuccetto Rosso, sono persone. Senza speranza, ciascuna con il destino del proprio carattere, ciascuna che come Elisabeth viveva immersa nella passione per le storie. Desiderava sapere come sarebbe andata a finire la sua, ciascuna impegnata a ricostruire una versione dei fatti che renda la vita accettabile dunque raccontabile. Quando Sortino comincia a raccontare il mondo si capovolge, gli dei ctonii perdono l’aggettivo e se ne rimangono in piena luce, mentre la vita dei mortali continua sottoterra, e prosegue uguale alla superficie, come un esperimento a temperatura stabile e aria condizionata, si ripete identica, in una miniatura di mondo che lascia però la sicurezza che la miniatura sia il mondo intero e dunque la tranquillità di vivere da signori e padroni, di governare l’assoluto. L’assoluto bene e l’assoluto male, la vita e la morte, il tempo, lo spazio, le categorie. Nel vederlo lei sorrise di più. Il paradiso era forse il tempo in cui il padre non le avrebbe fatto più male.

In questo ribaltamento Paolo Sortino, con una prosa che è barocca e che, come il barocco, è millimetrica e parossistica nell’ostensione e nel controllo delle sensazioni di chi guarda, lascia incantati davanti a un amore che cerca di completare solo se stesso, a una violenza che si riproduce identica e invariata e alla quale gli anni impongono una requie che tuttavia è solo stanchezza, né ripensamento né redenzione. Davanti a ventiquattro anni che, per Elisabeth e i suoi figli-fratelli, oltre che un orrido, sono stati possibili e per Josef, oltre che un dolce fallimento, sono stati un paradiso terrestre. È una storia che conoscevamo, sulla quale forse abbiamo pensato e che la scrittura irriverente e sinuosa, di Paolo Sortino restituisce sotto forma di ossessione d’amore. Dove l’amore è sempre un punto di vista, perché la vita non ha attributi più oscuri, più convincenti e più epici della sopravvivenza. Dove la vita degli altri è sempre una avventura in fondo incomprensibile. Non vide le stelle fluorescenti incollate al soffitto nella stanza dei bambini. Non vide le ditate sui muri sporchi di carboncino e pennarelli, non vide le impronte sui bicchieri, le scritte infantili alla base delle pareti. Non vide i giochi da tavolo e i libri delle fiabe. (…) Vide una finestra disegnata col gesso sul muro ma non vi si affacciò.

P. Sortino, Elisabeth (Einaudi, 2011), pp. 224, 19,50 eu.

A latere

Lo scorso anno ho scritto di Cuori Infranti (nottetempo, 2010) di Rosetta Loy un dittico di favole nere, la prima sul delitto di Novi, la seconda sulla strage di Erba. Mentre leggevo Elisabeth non ho fatto che pensare, con una certa innaturale continuità, alla differenza tra la prosa lieve, paratattica, metaforica per difetto di Loy, e la narrazione per eccesso di Sortino, il suo far seguire a Le cataratte del cielo sbiancavano sul mondo, Il paesaggio si misurava in diottrie perdute, imponendo così oltre a una aberrazione, una quantificazione della stessa. Nonostante le differenze strutturali c’è qualcosa che li tiene vicini, qualcosa di immediato, tematico, musicale nel senso che ritmi differenti producono medesime eco, verbale nella misura in cui per entrambi i segreti sono sogni realizzati, per entrambi guardare e scrivere sono azioni che necessitano di occhi privi di giudizio ma pronti alla meraviglia e all’orrore. Ludovica Koch osservava nel suo Favole di tenebra (Donzelli, 1996) che Selma Lagerlof si propone di non rifuggire dalle grandi parole, dalle semplificazioni, dall’inverosimile, dal patetico. A costo di apparire gonfia, o velleitaria, o sentimentale, o puerile. Così ho capito di nuovo – come io capisco, attraverso le parole scritte – che il richiamo alla realtà in narrativa o il grido della critica che si lamenta che tutto/troppo ha forma di romanzo, non riguardano mai la letteratura, ma solo la produzione culturale coatta, di bassa lega e miseria immaginativa e dunque, essenzialmente, tolgono spazio e tempo ai libri. La letteratura non teme definizioni, artifici, occasioni, attesa, ombre. Non teme neppure il capriccio. Non teme la realtà e i suoi bisogni. Rosetta Loy e Paolo Sortino, in forma di autentico artificio, lontani dal reportage narrativo, con il bistrattato strumento del racconto – quasi orale, interrotto dai respiri, dallo sguardo di chi ascolta e chiede attesa – hanno dimostrato che la realtà è complessa in maniera asimmetrica e che per raccontarla è necessario tornare ai miti, alle favole, all’indice dei tipi, all’ossimoro barocco della tenebra che è luce. Se dunque una generazione esiste in letteratura è quella di coloro che scrivendo riproducono, incarnano con un pieno o un vuoto, l’aria di un certo tempo. Alla generazione di quest’aria – come altre arie ci sono, differenti o prossime – appartengono Loy e Sortino che, nel giro di un anno editoriale, hanno scritto delle sproporzioni magiche, violente ed egoiste, in mezzo alle quali cerchiamo la nostra normalità, pretendiamo il nostro non voler essere disturbati, la nostra realtà di mattoni e di aspettative, di lame e affezioni. La magia è realtà solo per chi sogna la vita che vive, la metafora è il mio richiamo al reale, le parole del mio tempo la mia generazione.

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9 Commenti

  1. e poi un altro paolo, (Di Stefano), e un’altra segregazione (Natasha), due anni fa: Nel cuore che ti cerca (e anche lì, un po’ di barocco, non foss’altro che per geni locali)…

  2. Sono stato vigliacco. La storia di Elisabeth m’interessa davvero. Nella sua versione giornalistica troverei troppo poco. Il libro di questo giovane scrittore italiano potrebbe essere una chiave sufficientemente seria per entrarvi. Eppure dopo averlo soppesato per qualche minuto in libreria, ho lasciato perdere, memore di parecchi bidoni della giovane narrativa italiana. Dopo quanto scritto da Chiara, vincero’ le paure.

  3. […] fior fiore di giornalisti e scrittori (Giorgio Vasta sul Manifesto, Walter Siti su La Stampa, Chiara Valerio su Nazione Indiana, etc…). Tutti d’accordo, ed io con loro, nell’esaltare lo stile del giovane Sortino: ciò che […]

  4. eccone un’altra che ha appreso le rudimentali tecniche giuseppegenniane: cinque citazioni, un “capolavoro” e un “ribaltamento” per spacciare un mediocrissimo e normalissimo testo italiano per qualcosa di “epocale”. le montagne continuano a partorire topolini.

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