La gaia scienza di Terrence Malick

di Lorenzo Esposito

In Malick l’immagine è sempre stata qualcosa a metà fra la grazia e il nulla, sottilissima e siderale, scintillante e smottante fra luce e tenebre, fra principio e fine.
Una vampa tesa e velocissima, che usa gli ostacoli terreni e ultraterreni come altri punti d’accensione, già e di nuovo incanalata e inoltrata nella miriade di deviazioni e derive che pure la generano.
Come se non fosse mai solo l’immagine, ma il residuo di vita sufficiente ad assorbire tutte le vite, sintomatiche e postume, passate e future.
Un nucleo assoluto, di cui forse non esiste immagine esatta, né narrazione concorde, ma solo il film che la cerca e talvolta la intravede.
Anche se l’elemento o gli elementi di cui si è alla ricerca, tanto per complicare la situazione, non abitano il film, ma è il film che vorrebbe essere la calamita di ciò gli è estraneo e che invece è così chiaro, in quanto irraggiungibile e incommensurabile calamità (e bellezza), all’umano. In pratica, pur partendo dal medesimo assunto, e cioè la disumanità del film, Malick è il contrario di Fritz Lang, che assumeva tutto il proprio sistema in ogni singola inquadratura: mentre in Malick ogni inquadratura (che va dai tre ai dieci secondi) rimanda a quello che del sistema non è mai completamente ricostruibile: frammento di una frantumazione più grande.
Dunque ecco perché il ricorso al Douglas Trumbull di 2001: A Space Odissey, cioè al progetto kubrickiano di inventare per l’immagine un’architettura in grado di contenere (paradosso assoluto) il suo automatico ed eterno dipanarsi, compreso l’itinerario liquido e striato di macchie, ombre, luccicanze, buchi neri dell’occhio. Malick sembra voler comprendere il dramma del grande salto finale che in 2001 (e sempre in Kubrick: si veda Barry Lyndon, altro evidente prequel di The Tree of Life) accentra tutta la Storia centrandone il fallimento, ma anche la necessità, essendone il racconto la vera entusiasmante avventura (per questo Kubrick parlava per 2001 di “documentario mitologico” e per questo i detrattori di Malick, apostrofando in negativo anche il secondo grande salto trumbulliano di The Tree of Life, “sembra un documentario del National Geographic”, non si accorgono di notarne semplicemente l’aspetto primario e più che motivato).
La storia che viene raccontata, come tutte le storie, è il nucleo oltre cui si nasconde la combustione vera del mondo, così bruciante che, appunto, serve una storia per ottenere la distanza adatta alla complessità della riflessione o delle domande poste. Serve una metafora o un’illusione che narri e insieme protegga la vita. Sia Malick che Kubrick toccano così il mistero del cinema e dell’immagine (Godard sarebbe d’accordo), quello slancio e quella saggezza per cui la storia (o le sceneggiature) non sono mai comunicazione (la dimostrazione, il fantomatico messaggio, giustamente aborrito da Rossellini e da Straub), quanto invece la scena prodigiosa di ciò per cui mancano le parole e talvolta anche le immagini (ed ecco perché in 2001 e in The Tree of Life il racconto si trasforma in pura illuminazione o in scenografica aria musicale).
The Tree of Life è dunque subito anche storia di tutto un cinema, nascita di una nazione e nascita della narrazione. Fra noi si enumerava inoltre: Rio Grande (Ford), Home from the Hill (Minnelli), East of Eden (Kazan), chiedendo a questo film-costellazione di accogliere, come accoglie, anche la nostra costellazione, il nostro lessico familiare, la nostra lista animale di anime. Consci che in questa richiesta c’è un’inquietudine che fa il paio col battito oscuro che attraversa il film, con la sua cosmogonia gassosa e fiammeggiante, tenera e irosa, leggera come l’aria e feroce come un fendente. La paura che l’anima, di una nazione, di un popolo, di una famiglia, di una persona, non siano solo i legami di sangue, o le immagini, o i solchi che tracciano confini, ma quella che Nietzsche chiamava parvenza, cioè la sembianza, l’apparenza di tutto questo.
“Qui tutto è parvenza e fuoco fatuo e danza degli spiriti”. Che cos’altro diciamo, della vita e della morte, del padre e della madre, se non ciò che ci appare della loro anima? C’è, come per l’immagine, un riflusso costante, una colata lenta e inesorabile, una rinuncia al centro e un rilancio ai bordi, ancora un mettere al centro il mistero (vicinissimo a The Tree of Life, quasi con la medesima struttura e intuizione – vita e morte/grande magma/vita familiare/ritorno al grande magma – Film Socialisme di Godard), moltiplicando soglie d’accesso e punti di smarrimento, dove ogni disorientamento, ogni anfratto, ogni punto luminoso sono altrettante possibilità d’esplorazione.
Non so se Malick intendeva fare un film su un’altra folgorazione di Nietzsche, quando parla di stare in uno stato intermedio assoluto, nel punto in cui non si è morti ma non si è neanche più in vita (come anche l’Eastwood di Hereafter), dove è proprio il girare eterno ed eterno ritornare – il divenire in sé – a costituire per drammatico paradosso la primaria fonte di vita. Ma certo The Tree of Life si arrischia nella repentina sutura, cercando della vita (e della storia) l’aspetto rituale, che però, ecco la difficoltà e l’utopia, accanto al novero incalcolabile di accadimenti e ripetizioni, conteggia altrettante faglie, cadute, precipizi, accecamenti.
L’albero. La casa. Il giardino. La madre. Il padre. I fratelli. I vicini. Il cielo. L’acqua. Gli uccelli. Le stelle. Il fuoco. Il ghiaccio. Il vento. La lettera. La morte. Il lavoro. La fabbrica. Il cibo. Le piante. Il fiume. La culla. Il cassetto. La chitarra. La sottoveste. I grattacieli. La mucca. (Inciso terribile: e se tutto il film, tutta la storia, non fosse altro che il sogno della bambina nella sequenza iniziale, cioè una visione e profezia formidabile e ruminante di tutta la vita giunta alla madre, poi protagonista, fin dall’infanzia, come accadeva, anche lì appena ambiguamente allusa, nell’incompresa saga familiare del Cronenberg di History of Violence?)
La concomitanza necessaria di tutto mantiene in vita l’illusione, cioè non solo il sogno, ma i sognatori (non per forza esseri umani: anche i dinosauri sognano).

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6 Commenti

  1. Ottima recensione di stampo cinefilo. Questo il mio punto di vista sul film – Lo zen e l’arte della regia cinematografica, fra grazia e naturahttp://www.atlantidezine.it/the-tree-of-life-terrence-malick.html

  2. I grattacieli sono molto belli, di quale città? Ma anche gli alberi, ma tutto solo che dipende da come uno sta; se si sta male, come Sean Penn quando guarda le immense vetrate sopra di sé, la natura l’architettura prendono una piega terribile, i rami si anneriscono nascondono il cielo, le vetrate sembrano gabbie…e la grande spiaggia della libertà c’è, ci sarà mai la grande riunificazione? Chi lo sa…il cinema deve far vedere anche l’impossibile e Malick ci ha provato alla grande.

  3. sono d’accordo con tutto quel che si è scritto e con tutti i commenti.

    ma si può dire che il capolavoro non è riuscito? che il “soggetto” era troppo pretenzioso e neanche il filosofo malick è riuscito nell’impresa, anche se ci ha regalato un bel film e un interessantissimo quasi-esperimento?

    per il resto: fotografia splendida, movimenti di macchina nel microcosmo familiare da applausi da spellar le mani. immagini documentaristiche meravigliose. il bambino ribelle bravissimo e dalla camminata irrequieta che vale un oscar

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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