Playlist

di Nevio Gàmbula

“… niente di personale …”
Gianfranco Ciabatti

Signori,
sono felice di potervi sottoporre all’attenzione la mia personale playlist. La sua elaborazione ha richiesto molti anni: di disco in disco, di concerto in concerto, il piacere sottile dell’ascolto mi ha spinto verso una quantità incredibile di suoni e di ritmi. È stata l’unica vera mia ossessione: ascoltare, ascoltare, ascoltare … Il mio corpo esigeva una musica.
Vengo da una condizione dove la musica era un lusso. In casa, l’unico disco disponibile era la colonna sonora di Zorba il greco, di Mikis Theodorakis; c’erano anche alcune audio-cassette di Maria Carta e di ballo sardo. Mio padre, operaio Fiat, tra le pause del lavoro ascoltava le musiche della tradizione sarda; mia madre, invece, come la maggior parte delle casalinghe, si limitava a quelle trasmesse dalla radio. Le prime mi annoiavano, alle seconde non avevo alternativa: Gigliola Cinguetti, Claudio Villa, Bobby Solo, Raffaella Carrà, Ricchi e Poveri, Santo e California, Equipe 84, Iva Zanicchi … Tra i proletari la musica si manifesta nella sua povertà: è il sottofondo per eccellenza, la distrazione che ti conquista sublimando la propria standardizzazione. I proletari sono privati della musica. A loro è riservato un ascolto passivo, una sorta di “messa in scacco” della percezione. Non è il soggetto a gravitare intorno alla musica, è piuttosto la musica a suonare il soggetto: la musica è la “miserabile gloria” dell’esclusione. Quali altre musiche esistevano? Al proletario non è dato saperlo. La musica era un lusso.
Il mio corpo, però, esigeva una sua musica. E allora la cercavo; la cercavo al di là della mia condizione. La cercavo là dove stavo costruendo la mia vita, tra i compagni di strada e di discussione, nel ribellismo giovanile pronto a tutto; la cercavo insieme ad altri, nella confusione dei corpi, tra i lacrimogeni e gli orifizi, anche dentro un libro. Il mio primo disco fu un singolo, White Riot (The Clash, 1977). Lo sforzo laborioso per appropriarmi della musica cominciò così, da quell’arte primitiva che si ribellava al patrimonio culturale ereditato. Cominciava da qualcosa che non avrei più abbandonato: il suono come vettore di alterità. Passarono due anni prima di poter vedere i Clash dal vivo, in occasione dell’uscita del doppio London Calling (The Clash, 1979). Un concerto memorabile; cominciai a capire che il corpo è straniero all’autorità e che la musica ha una speciale relazione con l’ambiente che l’ha prodotta. Cominciavo a concepire l’ascolto come atto militante.
La mia vita fu inghiottita dalla musica. Entrare e ascoltare, uno dopo l’altro, un’enciclopedia di suoni, molti i brani con cui riempire la topografia del mio corpo, ormai invaso dalla musica. Punti di riferimento sparsi, ancora incerti, ogni brano una nuova partenza: Suicide (Suicide, 1977), Rocket to Russia (Ramones, 1977), Radio Ethiopia (Patti Smith, 1976), 77 (Talking Heads, 1977), 154 (Wire, 1979), Unknown Pleasures (Joy Division, 1979), Modern Dance (Pere Ubu, 1978), Ultravox (Ultravox, 1977), White Music (XTC, 1978), Mix-Up (Cabaret Voltaire, 1978), Stations of the Crass (Crass, 1979), Are We Not man (Devo, 1978), Live at Witch Trials (The Fall, 1979), Van Halen (Van Halen, 1978), Y (Pop Group, 1979), GI (Germs, 1979), Second Edition (Public Image Ltd, 1979) … Ogni musica è una vertigine. Attraverso questa vertigine si accede a uno spazio vuoto, da riempire con altra musica; e non c’è musica che non riveli qualche segreto. Questa era ormai la condizione della mia vita: la vertigine della scoperta. Un proletario, anche se non lo sa, è sempre disponibile alla scoperta di ciò che lo strappa all’ignoranza.
Fin dal principio, ho sempre pensato che l’esperienza dell’ascolto, e dell’ascolto attivo in particolare, è un processo di produzione di senso: il suono risuona dentro di me e mi sollecita a interrogarlo, nell’interfacciarsi costante di ciò che gli sta dentro e di ciò che gli è esterno. L’ascolto arricchisce chi ascolta. Il problema è capire quale percorso di ascolto, nella coerenza con la propria storia personale, può suscitare innovative “associazioni semantiche” in grado di disarticolare le risposte precostituite; il problema è capire quale ascolto è in grado di esaltare l’intelligenza corporale di chi ascolta. Col tempo, ho compreso che non ci sono soluzioni definitive. L’ascolto, al pari della composizione, è un processo che riporta a un’identità particolare un insieme di “entità indipendenti”: il gusto, però, che è il risultato di quel processo, non è un ordine fisso, non rinuncia, cioè, a una sua trasformabilità. L’ascolto genera altro ascolto. Qualcosa del genere è successo a me, nel passaggio dall’impazienza ribellistica di White Riot alla complessità epica della Sinfonia n. 2 “Ottobre” (op. 14, 1927) di Dimitri Shostakovich, disco che mi attrasse per il titolo e che, non potendo permettermi, sottrassi illegalmente (un esproprio proletario, nel vero senso della parola). La lentezza del primo movimento mi spiazzò completamente. Abituato all’irruenza del punk, quei suoni opachi, quasi sordi, mi facevano scoprire la forza vitale della vibrazione: l’incandescenza poteva ben mostrarsi con altre forme; quei suoni mi facevano scoprire un’altra qualità della musica. E ciò che era sino allora estraneo, cominciava a diventare familiare. Ascoltai quel disco sino a consumarlo, sino a quando, in occasione del mio diciottesimo compleanno, mi regalarono la Sinfonia n. 10, un altro dei tanti capolavori di Shostakovich. Nessuno è ignorante di natura, tanto meno un proletario. E ognuno può essere messo di fronte ad altre musiche. Anche un proletario può imparare ad ascoltare.
A un certo punto, il desiderio di ascoltare diventava il desiderio di essere musica: cominciai a cantare. La voce è fuggente: è oltre la parola, eppure qualcosa significa; è una manifestazione sonora labile, eppure diffonde il suo peso specifico di materia corporea. Il mio corpo, ora, produceva la sua musica. Da dilettante, certo; quale proletario è uscito dalla prigione solo con la volontà? E, infatti, la voce mi usciva così, come rumore: dentro e oltre la melodia. Ai margini di ogni idioma codificato. Intagliata sulla pelle. Intenta a ridere, a danzare, a straziare il suono, a portare lontano l’immaginazione, a moltiplicare le possibilità del linguaggio. Un canto inquieto e frattale, che non avrei mai più abbandonato. Da lì a breve “acquistai” un disco profetico: Cantare la voce (Demetrio Stratos, 1978). E cantai la mia prima canzone in pubblico: La ballata di Mackie Messer (Kurt Weill-Bertolt Brecht, 1928/1979).
Nella mia relazione con la musica, riservo un posto di rilievo ai cantautori; in negativo, però. Erano gli anni del proliferare della canzone pseudo-impegnata: Finardi, De Gregori, Battiato, Rino Gaetano, Bertoli … Il fenomeno mi stancò fin da subito; le cose peggiorarono quando, nel giro di due giorni, mi capitò di essere trascinato (col miraggio del sesso, lo ammetto) ai concerti di Claudio Lolli e di Francesco Guccini. Nulla sorgeva, da quelle trame; o meglio: solo una grande noia. Il cantautorato (tutti, nessuno escluso e De André compreso) mi pareva l’ideologia del mercato messa in musica. Il “tamburo della merce” assumeva le sembianze del “tamburo del santone”: una sorta di contenutismo organico, dove l’alterità rimandava al gusto pubblico da assecondare. D’altra parte, come scrive Franco Fabbri (musicologo e chitarrista degli Stormy Six), il cantautorato è servito “a creare un mondo diverso, contrapponibile al commercialismo della ‘musica leggera’ ma al tempo stesso radicato nell’industria, differente (e qualche volta anche contrapponibile) rispetto alla canzone impegnata, di protesta, legata per vocazione alle tradizioni popolari. ‘Cantautore’, insomma, è un termine ideologico: sotto l’apparenza tecnica nasconde – nel suo piccolo – una visione del mondo”. (Franco Fabbri, L’ascolto tabù, Il Saggiatore). La mia avversione, in realtà, era primariamente musicale. Troppo poco eccitanti, quelle canzoni; troppo poco infette e orgasmiche. Troppo incorporee. In fondo, mi ero appena imbattuto nei dischi della svolta: Hot Rats (Frank Zappa, 1969) e In the Court of the Crimson King (King Crimson, 1969).
Siamo nel 1980. Il rumore della storia sta preoccupandosi di decretare conclusa la Grande Utopia. I corpi sono spinti nei recinti. L’autismo del riflusso inventa la New Wave. La splendida follia della giovinezza è nella testardaggine: non rientravo nei ranghi e, quasi morbosamente, continuavo ad ascoltare musica tenendomi a distanza dalle mode più compromesse: ascoltavo Frank Zappa e i Van der Graaf Generator, Albert Ayler e Karlheinz Stockhausen, John Coltrane e Sun Ra, Henry Partch e i Gong, i Popol Vuh e Boulez, i Caravan e Picchio dal Pozzo … E cantavo, cantavo ancora, da solo, qualche volta in gruppo, come quella volta davanti ai cancelli della Fiat, prima della sconfitta operaia. La coralità mi affascinò fin da subito, fin da quando, giovanissimo, entrai nel coro più emozionante e strampalato mai esistito: la Curva Maratona. Anni dopo, entrato a far parte di un coro lirico, preparando la Cantata Mirjams di Schubert mi accorsi di quanto sia immensamente più ubriacante la condivisione di un piacere che vada al di là della sola musica. Cantare L’Internazionale, così come cantare un coro allo stadio, non esaurisce il canto in se stesso: la partecipazione al collettivo è più importante della precisione con cui si esegue la partitura. L’ultrà, quando canta battendo il tamburo, pur cercando la precisione (perché sa che la qualità del suono conferisce più forza al richiamo), attribuisce senso alla comunità. Il mio corpo esigeva una musica del senso.
A questo punto, nel momento in cui la rivoluzione è accantonata, mi capita di collegare la complessità di Shostakovich a quella di Zappa e giungo, forse anche per reagire al riflusso, nei pressi di un “altrove” del rock e, più precisamente, alla sua versione più elevata, sia in senso propriamente musicale sia dal punto di vista della sua coerenza politica: Rock in Opposition. La musica si fa antinomia, antitesi, conflitto, ripensamento delle funzioni e del ruolo del musicista, anche della propria organizzazione distributiva: Western Culture (Henry Cow, 1979), Macchina Maccheronica (Stormy Six, 1980), Heresie (Univers Zero, 1979) sono i tre dischi con cui mi avvicino al piacere dell’enunciazione radicale. Musica del rifiuto. Rock come negazione. Cadenza che dispiega una negatività ritmica. Improvvisazione come strategia di lotta. Opposizione come auto-organizzazione. Rock come uso pratico-politico eversivo di tutte le note disponibili, nel superamento dello stesso rock (e dei generi musicali). Non a caso, il movimento di Rock in Opposition, in una continua messa in discussione della musica, si lega alla pluralità delle avanguardie. In esso, la fase della rivolta selvaggia convive con la composizione rigorosa; la fase della pulsione erotica con l’elaborazione politica; la trasgressione con la convivialità; il carattere “straziante” della composizione con le sue “virtù rigeneranti”; le misure del classico con le manipolazioni avanguardistiche; la dizione poetica con le forme “in destructio” della canzone; la profezia con l’ortodossia; il tumulto surreale con l’accordo polemico; le patate fritte con la nutella: nella storia, nel senso profondo della reciprocità, nella complicità di classe, nel sogno di rivoluzione. La musica si riafferma in contraddizione.
Se il “rito schernitore” di Frank Zappa è la consapevolezza iniziale, la contaminazione dei materiali e la minuziosa esaltazione dell’amalgama degli Henry Cow è un approdo ulteriore del processo di liberazione della musica rock. Le tecniche del montaggio, della manipolazione, della deformazione sono radicalizzate. La poliritmia diventa un modo raffinato di rompere con lo schema della canzone, così come l’evocazione, tramite citazioni, della musica popolare o classica, segna la continuità nella rottura. Politonalità, innovazione timbrica, sconnessione anarchica tra le parti, visionarietà nell’intreccio di materiali disparati, corporeità esaltata nell’esecuzione, combinazione di tonalismo e atonalismo, deformazione timbrica di strumenti classici (violino, arpa, etc.), uso creativo dell’amplificazione … In quest’ambito, si possono riconoscere ulteriori apporti: la parodia e l’irrisione in Meet the Residents (The Residents, 1974), la perizia decostruttiva del jazz di Third (Soft Machine, 1970), la psichedelia rumoristica di Parable Of Arable Land (Red Crayola, 1967), l’euforia brutale di Faust (Faust, 1971) … In fondo, come bene comprese lo stesso Zappa, Edgard Varèse (in particolare Désert, del 1954, e Poème életronique del 1958) diede un apporto fondamentale per andare nella direzione di una musica non convenzionale.
In occasione di un’iniziativa di Settembre Musica a lui dedicata (Torino, 1984?), ho l’opportunità di approfondire l’ascolto di John Cage. Completamente a digiuno, ma incuriosito, e in particolare attratto dall’idea di aleatorietà, assisto a una serie di concerti e acquisto una decina di dischi (no, per meglio dire: rubo; un proletario non ha libero accesso alla musica, e allora se la procura come può), compresa la pubblicazione della Cramps Record (John Cage, 1974) che conteneva, tra le altre, Sixty-two mesostics Re Merce Cunningham interpretata da Demetrio Stratos. Le sensazioni che ne ricavai non furono positive. Ero reduce, tra l’altro, dall’ascolto di Intolleranza di Luigi Nono (1960), di Per Massimiliano Roberspierre di Giacomo Manzoni (1975) e dell’opera monumentale Escalator Over The Hill di Carla Bley (1971), e per tanto i giochi gratuiti di Cage mi parevano accomodanti rispetto allo status quo. Lo choc cedeva il passo al non-sense, l’asemantico diventava l’ideologia dell’a-ideologico messa in musica; il supposto trionfo del gratuito mascherava in realtà un godimento estetico consolatorio. Tanto clamore per nulla, pensai. In seguito, la sensazione negativa è appena mitigata dall’ascolto di Singing Through nell’interpretazione di Joan La Barbara (1990), una composizione che ha il pregio di esaltare la vocalità della performer.
Ed ecco che, all’improvviso, mentre sono preso dal gusto della contaminazione, e sempre più refrattario all’anarchismo grande-borghese di Cage, odo un rombo potente provenire da una bocca ubriaca, tanto aggressiva quanto solitaria. È la voce di Captain Beefheart, sino allora conosciuta solo indirettamente (in Hot Rats canta Willie the Pimp). Sono letteralmente rapito da quella voce barbara, da “lupo mannaro”, e comprendo che in quella voce, in quella voce così triviale, c’è qualcosa che va al di là della dialettica arte-merce; quella voce, del resto, sembra privilegiare la dissonanza e sembra godere della propria estenuazione. L’ascolto di Trout Mask Replica (Captain Beefheart, 1967) mi porta a pensare che la musica non sia solo “un’esperienza fantastica della molteplicità”: è anche la rapacità dell’irregolare che si dimentica del galateo; è la coscienza dell’autodidatta che irrompe, con la sua congiura, negli istituti e nelle convenzioni; è l’invenzione che si esalta nella confutazione, senza chiedere ospitalità. Captain Beefheart è, per me, un compositore tra i più importanti del Novecento, che solo l’ottusità dell’accademia non riconosce tale. Mentre l’avanguardia diventa mainstream, il fracasso di Captain Beefheart apre mondi. E la sua energia vocale trascina l’ascoltatore in un clima di “dolce dissolutezza”; il corpo esplode, si rende poetico attraverso la voce, riuscendo a realizzare ciò che Artaud aveva solo intravisto. Pochi altri “vocalist” saranno in grado di trovare un equilibrio estetico tra il canto e l’urlo: David Thomas, cantante dei Pere Ubu, e Carmelo Bene. Tutto il resto è … “bel canto” …
No, non tutto il resto è “bel canto”. Esiste, spesso costretta ai margini, una vocalità che si allontana dalle strutture chiuse del canto lirico o da quelle accomodanti del pop, capace di includere nelle opere tutti gli aspetti del processo vocale, rumori compresi. È la voce, ad esempio, di Cathy Berberian: Thema (Omaggio a Joyce), Circles, Sequenza III, Armenian Folk Songs … Una voce che apre altre strade all’invenzione vocale; voce come esperienza di libertà, come anticipazione di una società futura. Frequentavo, in quel periodo (siamo alla fine degli anni 80), la scuola d’arte drammatica. Ai bordi di una città ormai ridotta a dormitorio, c’erano bocche urlanti che cercavano di resistere, e c’erano corpi che soffiavano nella cavità del teatro. Ora, le relazioni della ricerca vocale in ambito musicale con quella teatrale sono evidenti; da qui il mio interesse per le invenzioni vocali, tanto sul piano della tecnica (dalla regolazione del fiato sino all’invenzione di sonorità inusuali) che su quello compositivo. Il presupposto di tali ricerche è lo sviluppo del corpo sonoro a partire dalla sua evidenza principale: la voce, appunto. La mia discografia sulla vocalità è sterminata. Se dovessi isolare alcuni dischi, direi: Aventures (Gyorgy Ligeti, 1962), per il disagio nei confronti del significato; Defixiones, Will and Testament (Diamanda Gàlas, 2003), per la sua radicalità inquieta; Voice (Maja Ratkje, 2002), per la sua significanza totale in assenza di linguaggio; Mona Zul (Mona Zul, 2003), per il recupero non scontato della melodia popolare; Spears Into Hook (Meira Asher, 1999), per l’uso politico dell’eccesso vocale; The Big Bubble (The Residents, 1985), perché dimostra l’assoluta superiorità del canto underground; Brecht Abende (Ekkehard Schall, 2006), per la dimostrazione pratica di cosa può un attore; Canti del Capricorno (Michiko Hirayama/Giacinto Scelsi, 1972), per l’estensione vocale come esplosione di sessualità; The last days of inhumanity (Francesca della Monica, 2006), per il magico equilibrio tra canto e recitazione; Mercy (Meredith Monk, 2002), per dare un fondamento narrativo alla frantumazione del verbale; Circle Song (Bobby McFerrin, 1997), perché anche un vocalist commerciale può farmi godere; A Delay Is Better (Pamela Z, 2005), per riprendermi dall’ascolto del vocalist commerciale; Winter Songs (Dagmar Krause/Art Bears, 1979), per il risveglio epico e talvolta catastrofico della voce; Loengrin (Daisy Lumini/Salvatore Sciarrino, 1980), per la dolcezza fuori-riga; White Rabbit (Grace Slick, 1967), perché anche un’unica canzone può donarti una gioia immensa; Stimmung (Karlheinz Stockhausen, 1968), per la ripetitività ossessiva di un’idea; Befreiung (Christoph Anders/Heiner Goebbels, 1989), per l’abbandono di ogni forma di ripetitività; Les Chants de l’Amour (Gérard Grisey, 1982), per la ripetitività controllata; Intonos (Tenores di Bitti, 1994), per la gioia del recupero di ciò che ascoltava mio padre; La creatora (Giovanna Marini, 1972), perché strappa il canto popolare alla volgarità delle frasi fatte; Voicespace (Philip Larson/Roger Reynolds, 1992), per le emozioni che è in grado di offrire la disposizione spaziale delle voci; Empy Words (John Cage, live 1977), perché la liturgia può essere più forte del rumore; Quattro modi diversi di morire in versi (Carmelo Bene, 1980), perché la voce è finalmente liberata dal giogo del canto e della recitazione, al di là di ogni liturgia e di ogni rumore … Sì, il mio corpo cercava la voce come vivente desiderio di essere altrove. Una voce della discrepanza.
Un amico, un giorno, mi mise di fronte alla mia ignoranza abissale della musica classica. E si prodigò in incontri educativi, tra bicchieri di vino e ascolti in serie di compositori, per così dire, museificati. Cominciò da Mozart, quindi passò a Bach e Beethoven, non dimentivando Chopin, Debussy, Handel, Haydn, e su fino a Mahler (che è, probabilmente, quello che amo di più) e l’opera lirica. Conservo ancora, in cantina, una cospicua discografia, ormai corrosa dalla polvere. Ho riflettuto molto sulla mia “avversione” alla musica classica. L’impressione è che si tratti di una musica fuori dal mio tempo. Il tempo che quelle note scandiscono non è lo stesso che scandisce il mio orologio. Oh, intendiamoci: niente di scientifico in tutto ciò. Non sono un musicologo, ma un semplice ascoltatore; e non ho, per di più, molto tempo a disposizione. Trovo logico dedicarmi a quanto la mia epoca mi propone. L’ascolto, proprio perché inteso come atto militante, non può che scegliere l’oggetto della sua stessa esistenza. Non si tratta, beninteso, di negare il rapporto del contemporaneo con quanto l’ha preceduto; si tratta di problematizzare il presente. Quale musica può permetterlo? Di qui il mio privilegiare l’ascolto della musica “sperimentale”, nella sua varietà di esperienze: dalle avanguardie al rock, passando per il jazz fuori-forma e la musica “colta”, senza disdegnare l’ascolto di quanto, nell’ambito del pop, è sintomo della volontà di andare oltre (Medulla di Bjork, ad esempio).
Della musica classica, per così dire, ascolto la sua messa in crisi, a partire da quel Pierrot Lunaire (Arnorld Schoenberg, 1912) che, per primo, puntò a una recitazione “musicale”, non più costretta ai limiti del parlato. Qui ribadisco una ovvietà: l’ascolto che mi costruivo aveva anche a che fare, oltre che con il piacere fisico, con l’affinamento del lavoro teatrale, al quale ormai mi dedicavo quotidianamente. E non a caso arrivo a prediligere, tra i compositori “colti”, quanti lavorano al rinnovamento del teatro musicale: Sur Scène (Mauricio Kagel, 1959), Passaggio di Luciano Berio (1962), Atomtod (Giacomo Manzoni, 1965), Le Grand Macabre (Gyorgy Ligeti, 1978), Atalanta. Act of God (Robert Ashley, 1985), gli Horstuke di Heiner Goebbels (1994), Hölderlin-Gesänge (Gyorgy Kurtag, 1998), The Civils Wars (Philip Glass, 1999), HamletMaschine oratorio (George Aperghis, 2001), Der Tod und das Madchen II (Olga Neuwirth, 2007), Dionysus-Dithyrambs (Wolfang Rihm, 2010) … Ci vorrebbe una vita intera, e forse neanche basterebbe, per dare conto del bagaglio immenso che offre, in termini di ascolto, la contemporaneità. Naturalmente, si tratta di scegliere. Ho scelto di ascoltare quanto, mostrandomi sonoramente il fallimento di una civiltà, allo stesso tempo ne rende presente un’altra. L’unico ascolto possibile è quello militante.
È difficile dire fino a che punto il mercato determina l’esclusione o la messa ai margini di opere immense. Eppure, mi sento di dire che la presenza, ai limiti dell’ossessivo, di nullità assolute (gli U2, tanto per fare un esempio) offusca ciò che meriterebbe essere messo in luce; lo fa, certo, in forma indiretta, ad esempio creando un insieme di attese che porta l’ascoltatore a ritenere troppo “strana” una data opera, ai limiti dell’ascoltabile (un estimatore degli U2 troverà indigesto Drum are not dead dei Liars, 2006); e lo fa semplicemente facendo in modo che quella stessa opera non si offra all’ascolto. È così che il “tamburo della merce” si riproduce e diventa, in fondo, l’unica autentica produzione di musica del nostro tempo. Solo che il mercato è un’entità contraddittoria: nel momento in cui esclude, in realtà offre la possibilità di far proliferare ciò che lo nega. Oggi, in particolare grazie al file sharing, la democratizzazione delle arti auspicata dalle avanguardie è realtà: è possibile la massima condivisione delle esperienze, al di là delle forme di proprietà. Ma allora perché la stragrande maggioranza delle persone insiste ad ascoltare musica “di consumo”? Forse perché la democratizzazione non è davvero compiuta: posso, almeno potenzialmente, raggiungere tutto quanto è prodotto, ma non lo conosco, non so cosa raggiungere e quindi imparare ad apprezzare. È il circuito culturale a escludere, non l’impersonale mercato. O meglio: la gestione della politica culturale (che è, è bene non dimenticarlo, una forma particolare di gestione del potere) non si pone in contrasto con quanto il mercato punta, con la sua logica perversa, ad esaltare; la cultura non compie quel lavoro che dovrebbe spettarle: educare all’ascolto. Si provi a verificare quest’assunto ascoltando la programmazione dei programmi radiofonici della RAI. Non ascolterete i poliritmi vertiginosi di Atomizer (Big Black, 1986), così come non avrete modo di ascoltare le suite geniali di Millions Now Living Will Never Die (Tortoise, 1996), oppure l’ipnotico canto di La Novia (Acid Mothers Temple, 2000), non ascolterete le schizofreniche sonate per pianoforte di Sonic Vision (Carolyn Yarnell, 2003), né il collage collassato di File under futurism (Dj Spooky, 2004), né, tanto meno, la sinfonia cacofonica, una vera e propria esaltazione del rapporto tra corpo e strumento, di Rend Each Other Like Wild Beasts … (Gnaw Their Tongues, 2009), non vi capiterà di ascoltare le energiche improvvisazioni di T For Teresa (Artichaut Orkestra, 2011), così come mancherete gli Exercices Spirituels di George Lewis (2011) … Insomma, per farla breve, tutti conoscono Let it be dei Beatles (1970); quanti conoscono uno dei più grandi capolavori musicali del secolo scorso, quel Rock Bottom di Robert Wyatt (1976)? È presumibile che le vendite del primo disco siano immensamente maggiori del secondo; quale, tra queste opere, libera, al contempo, l’ascolto e la musica? È inutile: senza cambiare la politica culturale, l’ascolto di qualità è destinato a rimanere marginale. La musica è ancora un lusso.
Ma un proletario, specie se consapevole, riesce a educare il proprio ascolto. Così si accorge, a un certo punto del suo percorso, di preferire il mistilinguismo e tutto ciò che si pone fuori da ogni gerarchia (generi, mainstream, moda, etc.); si accorge di preferire tutto ciò che, in un certo qual modo, disobbedisce o diserta o che mantiene un’esemplarità che gli deriva dalla sua forma particolare. E riesce quindi a passare, questo proletario in ascolto, e vi riesce tranquillamente, dal Macbeth di Sciarrino (2002) ai collage folk di The Lemon of Pink (The Books, 2003), dalla Sinfonia n. 4 di Arvo Part (2008) alle Compositions 175 & 126 di Anthony Braxton (1995), dal minimalista Varde (Elegi, 2009) al massimalista Horde (Mnemonists, 1981), dai collages irridenti di Escape from Noise (Negativland, 1987) a quelli geniali di Plunderphonics (John Oswald, 1989), dalla voce diplofonica di Out of Tuva (Sainkho Namtchylak, 1993) a quella blues di Rid of Me (Pj Harvey, 1993), dal grezzo Confusion is Sex (Sonic Youth, 1983) al biologico Before We Were Born (Bill Frisel, 1989), da Vernal Equinox (Jon Hassel, 1977) al suo contrario Scrabbling at the Lock (The Ex & Tom Cora, 1991), da dileguamento d’ogni gentilezza di The Country of Blinds (Skeleton Crew, 1986) alla gentilezza confusa di Do Ya Sa Di Do (Anna Homler, 1992), dalla free Jewish music di Melt Zonk Rewire (Klezmer Trio, 1995) alla filosofia solare di An Mathilde (Luigi Dallapiccola, 1955), dal fuori significato Der Wein (Alan Berg, 1929), al senso univoco di I treni per Reggio Calabria (Giovanna Marini, 1975), dal funky-jazz di Soul Machine (Fima Ephron, 2001) al neo-progressive di Primosfera (Stereokimono, 2003), dalla splendida voce di Lorca (Tim Buckley, 1970) a quella altrettanto splendida di Music for a new society (John Cale, 1978), dalla convulsione programmatica di Live at Rock in Opposition (Present, 2009) all’angoscia del soffocamento in O-Mega (Iannis Xenakis, 1997), dal gesto glorioso e indefinito di Purr (Chien-Yin Chen, 2003) alla voce senza tempo di VOCAbuLarieS (Bobby McFerrin, 2010), dalla plastica gioiosa di Libertango (Astor Piazzolla, 1974) alla trasfigurazione di Multitude Solitude (Ergo, 2009), dalla monumentale rap in forma di samba di ArchAndroid (Janelle Monae, 2010) alla presunzione infinita e, quindi, affascinante di Native Speaker (Braids, 2011), da tutte le semiologie, tutte le mitologie, tutte le estetiche negative che tendono a sostituire la creazione divina esaltando il corpo umano inventivo in Cicciput (Elio e le Storie Tese, 2003) al divino incedere della voce in Desertshore (Nico, 1970), dai progressi della scienza compositiva nella Salomé (Terry Riley/Kronos Quartet, 2005) ai grovigli della carne di Deceit (This Heat, 1981), dall’evento che rende possibile la seduzione malata in Gelateria Sconsacrate (Virginiana Miller, 1997) all’infinito dispendio di tenerezza in Pink Moon (Nick Drake, 1972), dalla chance data all’innovazione in Bedrock (Uri Caine, 2002) all’acido disordine di Verso (Ossatura, 2002), dalle canzoni infinitamente belle di Downtime (Peter Blegvad, 1988) a quelle altrettanto belle di Likes … (Dani Siciliano, 2005), dalle sincopi orchestrali di Hidden (These New Puritans, 2010) alla contratta architettura di Oltre il deserto spazio (Nicola Sani, 2002), dalla sinfonia negativa di Kardia (Domenico Gueccero, 1976) a quella che non delude di Six Celan Songs (Michael Nyman, 2008) … per fermarsi poi, come ulteriore sosta di un percorso che non avrà mai fine, nei pressi di quel compositore che rappresenta la sintesi perfetta di tutte le opere e di tutti i nomi fatti fin qui: John Zorn. Locus Solus (1983), The Big Gundown (1986), Spillane (1987), Kristallnacht (1993), Angelus Novus (1998), Chimeras (2003), Six Litanies for Heliogabalus (2007), O’o (2009), Interzone (2010), oltre che i suoi lavori con i Naked City, con Masada, con i Painkiller, sono alcune delle opere più significative di Zorn. Per quanto possa sembrare ambiguo il suo operare, e anche, dal punto di vista della produzione, decorativo e talvolta esagerato (posseggo qualcosa come 113 sue opere!), Zorn ha il merito di precisare il plurilinguismo indicato dalle avanguardie (e da Frank Zappa) come tratto preponderante di quelle che sono state definite musiche eterodosse, musiche, cioè, che si discostano dalla tradizionale divisione in generi, all’interno delle quali convivono il rock con il jazz, il serialismo con l’improvvisazione, la musica popolare con quella “colta”, la canzone con il rumore … Musiche, insomma, che si sottraggono alle imposizioni dell’epoca per diventarne il suo significato ulteriore; musiche non imprigionate nella crisi della nostra civiltà.
Signori,
ho terminato. L’ascolto non deve smettere di sollecitare la musica, così come la musica non deve smettere di spingere avanti l’ascolto. Sottrarsi alle imposizioni dell’epoca non è facile. E tuttavia, la musica “di consumo” non è un corpo compatto; si possono scorgere, ai suoi lati, là dove Luigi Nono impara finalmente a conoscere Frank Zappa, altre opzioni, altri cataloghi, altre interpretazioni del senso della musica. Qua e là, statene certi, c’è qualcuno che sta suonando un’altra musica.

Giugno 2011

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31 Commenti

  1. E’ un articolo molto bello, Nevio, con alcuni passaggi “incandescenti” anche dal punto di vista di tante (possibili) implicazioni teoriche.

    Mi colpisce, comunque, in un percorso così tratteggiato, l’assoluta (o quasi) mancanza di riferimenti al blues e al jazz – musiche che, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, stanno alla “corporeità” nella stessa misura in cui la pelle sta alle ossa…

    fm

    p.s.

    Se ti interessa, il mio primo (di una lunga serie) “esproprio” proletario musicale è stato “Escalator over the hill” di Carla Bley.

  2. Complimenti anche per la scelta del video: quel disco è un capolavoro assoluto e “lui” è stato, e sarà sempre, uno dei più grandi.

    fm

  3. Fui miracolato dal vivo da Sun Ra e Roberto Murolo, non da Anthony Braxton, noiosissimo; né da Patty Smith, Cathy Berberian o Diamanda Galas; nemmeno dal virtuoso Demetrio Stratos. Più recentemente fulminato dall’ascolto di Rossini, Mozart, Piero Ciampi e Matteo Salvatore. Amai profondamente amai, e amo, la canzonetta italiana: Cesare Cremonini era un grande anche quando era un ragazzino per nulla intellettuale. Ma gente come Buscaglione, Bindi, Modugno, Endrigo, Herbert Pagani, Battisti, la Equipé 84, la stessa Gigliola Cinquetti a me come colonna sonora quotidiana andavano benissimo. Più recentemente Rino Gaetano, Fabrizio de André, Vinico Capossella ecc. Dell’estero mericano direi Elvis, Otis Redding, lo stesso Sinatra. Non so, l’elenco è lungo per tutti, Susan Vega, Leo Ferré, Nina Simone, Leonard Cohen, Nick Cave… Gusti.

    Quello che non mi torna, comunque, di questo tuo legittimissimo infinito repertorio, è quando mostri disprezzo per i gusti musicali del popolo, dei proletari, che sarebbero ” privati della musica ” (da chi?). Penso che è un’aberrazione. Il cosiddetto popolo italiano su una cosa sola probabilmente non ha colpa, il suo gusto musicale, che ha permesso tanta tanta arte, a volte oscurata dai gestori della cultura, quelli sì nocivi. Davvero i proletari sbagliano ad ascoltare Maria Carta, quel folk testimonianza delle proprie radici sonore, o le canzonette della radio? So che Nietzsche alla fine della sua vita amava le canzonette assai più quanto amasse Wagner, che l’aveva notoriamente deluso. Ma so anche che – prima che prendesse il potere la cultura musicale che tu sbandieri come unica progressiva, quella contemporanea e pop rock, meglio se con venature avanguardistiche – il popolo italiano oltre che nelle rilassanti canzonette e nei canzonettari si riconosceva in Donizetti, Rossini, Verdi, Puccini, Enrico Caruso, Giuseppe di Stefano (amatissimo da Carmelo Bene!), Renata Tebaldi, Maria Callas.

    Vabbè, volevo solo dire che non mi torna il disprezzo che mostri di avere per il gusto musicale della povera gente, che spero non sia una maschera per nascondere il disprezzo tout court per la povera gente (amico mio, ti provoco).

    Ps: Gigliola Cinquetti che per far rabbia ai benascoltanti sto ora ascoltando cantare Cielito Lindo, canta da Dea…

  4. @ Larry Massino

    Murolo, Modugno, Ciampi, Endrigo (per restare in Italia) sono dei giganti: arte, con la “A” maiuscola. Ci aggiungerei i più dimenticati di tutti, dei veri maestri, musicisti eccezionali: Sergio Bruni e Fausto Cigliano.

    fm

  5. @ fm
    In realtà, di jazz ne ascolto parecchio (Uri Caine, per dire, è jazz, anche se non è solo jazz, così come lo stesso Zorn). Sul blues, è vero: mi manca. Tieni conto che parto dal punk-rock, che aveva già fatto i conti col blues, distaccandosene …

    @ Larry
    Forse stai facendo confusione. Io non disprezzo i “gusti” dei proletari (tanto meno i proletari!). Disprezzo il fatto che non possano arrivare a conoscere altre musiche (e quindi scegliere cosa ascoltare). Punto.

    Chi li priva della musica? Gli stessi che indichi tu: i gestori della cultura.

    Se uno ama ascoltare il rock e si limita a ciò che passa il convento (U2, Radiohead, Vasco Rossi, etc.), e non conosce, poniamo, i Liars o i Tortoise, in realtà non ama il rock: ama assecondare il gusto di chi dirige il convento … Non credi che sia un problema?

    Prova a fare lo stesso esercizio con il teatro …

    Sui nomi, poi, che dire? Di ognuno si potrebbe stilare la lista dei pregi e dei difetti. Il punto, però, è un altro … Non è una questione di “gusto”. Forse sto parlando, per l’appunto, di altro … In quell’ALTRO ha sede il senso del mio articolo …

    [Però, se vuoi, possiamo aprire un confronto sui nomi. Così, per mero divertimento:

    * Cesare Cremonini un grande?! No, dai, ti prego, Larry … Mi stai prendendo in giro? In ogni caso, mi tengo Captain Beefheart.
    * Vinicio Caposela è musica per bambini: i miei tre l’hanno ascoltato sino alla nausea. Poi si cresce.
    * Herbert Pagani è un grande. Rino Gaetano è la sua ombra sbagliata.
    * Sul cedimento di De André alle esigenze dei produttori, modificando, ad esempio, il timbro della voce, consiglio la lettura di Franco Fabbri (op. cit). Io salvo solo “Tutti morimmo a stento” e alcune canzoni quà-e-là; il resto è noia. Al limite, anche De André è musica per bambini.
    * Capisco che possa piacere Battisti, ma come si faccia ad ascoltarlo resta per me un mistero.
    * Endrigo me gusta, al pari di Ciampi, Ferré, Cohen, Nick Cave. Ma, davvero, Robert Wyatt è un’altra cosa. È come confrontare Saviano con Gadda.
    * Alla Cinquetti preferisco di gran lunga la Zanicchi: la sua versione di “La riva bianca e la riva nera” è grandiosa]

    Alla fine, permettimi: che la musica che io sbandiero abbia preso il potere è una palla colossale; ma è un dato facilmente verificabile …

    NeGa

  6. Grazie, ng, il mio riferimento al blues era un po’ “provocatorio”, ma solo in ragione di un percorso di ricerca e di scoperta “diverso”: di solito, quando una “cosa” mi prendeva, andavo a dare un’occhiata anche al “rimosso” da cui quelle esperienze musicali si originavano. Poi, volendo, di matrici e linee blues – più o meno camuffate, dissimulate e stravolte – i Clash, per dire, abbondano.

    Intanto ti controfirmo questa:

    Herbert Pagani è un grande. Rino Gaetano è la sua ombra sbagliata.

    Sul tuo “parlare d’altro” e sul “senso” dell’articolo – quelli mi erano chiari fin dalla prima lettura.

    fm

  7. > ..la mia personale playlist. La sua elaborazione ha richiesto molti anni: di disco in disco, di concerto in concerto, il piacere sottile dell’ascolto mi ha spinto verso una quantità incredibile di suoni e di ritmi. È stata l’unica vera mia ossessione: ascoltare, ascoltare, ascoltare …

    Ma questo ossessivo tirocinio di un corpo.. ovviamente lo allontana progressivamente dal “gregge” di coloro che permangono su dosi più moderate e scelte meno consapevoli nel gran massa dell’offerta. E’ ovvio che gradualmente si sedimenta tutta una differenza di risposte automatiche e disposizioni più generali, ovvero un “gusto”. Ora qual’è lo scopo di valutare a parole, ovvero attraverso un riflesso superficiale, astratto, questa differenza che si annida nelle profondità viscerali? Non rappresenterà questo atto una fonte inevitabile di malinteso?
    Il violinista di norma non ci racconta il suo arduo tirocinio, ma ci suona qualcosa, qualcosa che non si rivolge soltanto agli altri violinisti (che certamente lo potranno capire più a fondo) ma punta invece a una certa universalità. Simili esternazioni di preferenze, per quanto descrittivamente interessanti, puntano invece a stabilire una superiorità, trasformando “un” gusto, “nel” gusto, quello dell’eroe che è riuscito, nonostante imponenti ostacoli, a mettersi in contatto con lo spirito dei suoi tempi.

  8. @ng

    così, si fa pe’ chiacchierare… quando dici ” è come confrontare Saviano con Gadda “, dici una cosa giusta, ma fuorviante. Io credo che una volta intrapresa la strada della letteratura, da aspiranti lettori o da navigati scrittori, si debba in tutti i modi carteggiare Gadda (se possibile trascurando Saviano). Ma credo anche che una volta saputolo, conquistatolo, si debba lasciare l’ingegnere al suo quotidiano affanno e leggersi Sciascia, sopraditutto suggerire agli altri la lettura di Sciascia (anche dei ROMANZI di Simenon, che non delusero mai nessuno): ne va della nostra salute, giacché frequentare il laboratorio dell’alchimista è oltremodo pericoloso, intossica… Gadda-Robert Wyatt può aver contribuito in maniera DECISIVA a dare al ” mio corpo una sua musica “, ma questo non mi qualifica come essere superiore a chi – come i nostri poveri genitori, emigranti per dare a noi la possibilità di una vita migliore della loro, fondamentalmente più istruita – ha dovuto rinunciare ad avere una musica sua propria, restringendosi nel recinto sonoro della musica di tutti gli altri, e anche, spesso, in doloroso silenzio, forse a seguito di profonda delusione proprio per la nostra istruzione, per la quale si sono battuti ed hanno abbandonato le loro terre, la quale, si sono accorti ben presto, nu sèrv a nu cazz!

    Sempre rispetto al poeta on the road Robert Wyatt, e per un minimo di rispetto al mio emigrante padre, mi tengo stretto ai suoni del poeta analfabeta Matteo Salvatore.

    Ps: non sono del resto affatto sicuro che ESSI, i nostri sciagurati genitori, avessero rinunciato a dare al loro corpo una loro musica.

  9. @ Fabio Teti
    hours struggling with this:

    http://www.youtube.com/watch?v=ClKqNZOCAzs

    @ diamonds
    “Costretti a sanguinare” si ferma però al punto di partenza …

    @ elio_c
    Non so se ho capito bene quanto scrivi.

    I “gusti” sono tanti. Nessuno di essi è immune da forzature o pretese di superiorità. Non tutti i “gusti”, però, sono “buoni”. L’apologia della non discutibilità dei gusti maschera l’omologazione.

    Tutti i “gusti”, inoltre, sono consapevoli, nascono cioè da un percorso di crescita. Chi si limita a riprendere ciò che passa il convento è alienato dentro un gusto non suo: è privato del gusto (“coscienza da gregge”, per dirla con Marx).

    Il mio gusto è “il” gusto. È l’unico “giusto” PER ME. Non ha la pretesa di porsi come “universale” (non ne ha le caratteristiche), così come non mira ad assumere il primato della “superiorità”. Mira, questo sì, ad affermare una “diversità” (la sua radicale alterità, se preferisci, o, più esattamente, la sua contraddittorietà). Il mio gusto non è solo mio.

    Allontanarsi dal gregge è uscire dall’omologazione. Ma il problema è l’esistenza stessa del gregge.

    @ Larry
    Ti rispondo con un esempio “teatrale” … Ai miei allievi di recitazione non suggerisco di andare a vedere Lavia o Branciaroli; le notizie gli arrivano lo stesso. Gli suggerisco, invece, di andare a vedere Morganti o Danio Manfredini, che non conoscono e che non avrebbero modo di conoscere senza la mia mediazione. Dopodiché, una volta visti gli spettacoli entro nello specifico, mostrando come il lavoro dei secondi sia immensamente più importante e interessante. Non dico meglio o peggio; semplicemente “diverso” … Chissà perché (m’è capitato di recente nel confronto tra il “Caino” con Manfredini e “Trilogia della villeggiatura” con Servillo) le loro preferenze vanno poi allo spettacolo meno scontato, più energico, diversamente teatrale, per così dire … Insomma, non è, davvero, una questione di “superiorità”, ma di “diversità” (e anche, per certi casi, di differente qualità) … Quando feci ascoltare i Tenores di Bitti a mio padre, ne rimase estasiato; da quel momento accantonò Maria Carta (dignitosissima, tra l’altro) e mi chiese di procurargli altri dischi del genere. Prima di morire stava ascoltando, sempre su mio suggerimento, il jazz sardo di Enzo Favata, dove la tradizione non è annullata o tradita, semplicemente spinta in avanti, mischiata ad altro, ibridata con un qualcosa che non è parte di quella stessa tradizione. Quando mi disse che il disco gli piaceva, sorridendo pensai: ogni proletario può davvero imparare ad ascoltare … Il “gregge”, purtroppo, legge Saviano ed evita Gadda, così come ascolta gli U2 o Vasco e neanche conosce chi siano i This Heat o Nono … Continuo a pensare con disprezzo a questa situazione …

    NeGa

  10. @ng

    Non giocare scorretto: Lavia e Branciaroli non sono Sciascia e Simenon… sono Saviano e Veronesi… lo so anche io che Claudio Morganti e Danio Manfredini… però loro stessi, ti garantisco, consiglierebbero ai loro allievi di andare a vedere la farsa (se ci fosse…), in subordine Carlo Cecchi, ormai spurio da qualunque pretesa ricercativa, ma perfetto esempio di attore contemporaneo.

    Non mi convince nemmeno il disprezzo verso il gregge… perché chi non può scegliere non può avere colpa… piuttosto bisogna avercela con il tipo gregario di Nietzsche, colui che potendo scegliere sceglie ciò che più gli conviene. Lo stesso Nietzsche che si rodeva in dubbi di questo genere, vado a memoria: ” sono o no colpevole se godo dell’arte di cui la classe povera è priva? “

  11. Caino della Valdoca non mi è piaciuto, secondo me a Milano non ha funzionato il luogo, il palazzo del ghiaccio; la regia: troppo piccola per uno spazio così grande e bianco; gli interpreti da brivido. Raffaella Giordano e Danio Manfredini… ipnotici.

    E’ colpevole chi gode e non diffonde, non chi gode del godibile.

  12. ti ho letto, qui, nega, con interesse e fastidio :)

    ci ho in testa un repertorio di canzonette che ti farebbe rizzare “l’aristocratico” pelo :)

    ti lascio questo:

    “in noi portiamo tutta la musica: essa giace negli strati più profondi del ricordo. tutto ciò che è musicale è reminiscenza. al tempo in cui non avevamo nome, abbiamo, probabilmente, udito tutto”

    con tanti baci nè:)

    la fu

  13. Stations of the Crass (Crass, 1979) e Second Edition (Public Image Ltd, 1979), solo per averli citati ti perdono tanto trinciapollo ideologico, nevio

  14. @ng
    Credo che si possa facilmente distinguere un gusto sviluppato da uno rimasto rudimentale (per varie cause, magari un’ossessività riversata in altri campi). Più difficile è capire il rumoroso cozzo fra gusti sviluppati in direzioni differenti. Per qualche motivo, forse neanche tanto misterioso, si avverte sempre la necessità di “assolutizzare” le proprie direzioni e genealogie svalutando le altre senza grande discriminazione. Forse senza il cozzo non c’è divertimento, forse è anche in questo modo che si selezionano infine i “memi” di questi particolari campi, però, razionalmente, rimane un cozzo senza senso, trattandosi di “cose” evidentemente irrapportabili. Ma forse mi concentro troppo su particolari inessenziali. Comunque:

    > Il problema è capire quale percorso di ascolto, nella coerenza con la propria storia personale, può suscitare innovative “associazioni semantiche” in grado di disarticolare le risposte precostituite; il problema è capire quale ascolto è in grado di esaltare l’intelligenza corporale di chi ascolta.

    Questo è un problema che presuppone molti sviluppi positivi per la persona che ascolta. Se è questo che auspichi ed indichi anche per i “proletari”, si tratta certamente un posizione che si pone all’opposto dello snobismo che di solito caratterizza le esternazioni di gusto.

    Ciao

  15. @ la funambola
    Non farti ingannare dal tuo “repertorio di canzonette” …

    Ricambio i baci con questo bacio

    @ Andrea Inglese
    Non è che confondi tutto ciò che è “poeticamente orientato” con l’ideologia? A ogni buon conto, se mi perdoni solo per la presenza dei Crass e dei PIL, be’, forse le tue conoscenze musicali sono, oltre che molto limitate, anche – come dire? – sì, dai, diciamolo così: ideologiche …

    A te, invece, un bacio rumoroso, questo sì colmo di ideologia, ma di quella bella&vera

    @ elio_c
    Sì, hai ragione: “senza il cozzo non c’è divertimento”. E hai ragione anche quando segnali gli “sviluppi positivi”, che certamente auspico PER TUTTI, proletari in primis.

    Forse nessuno l’ha notato, ma la stragrande maggioranza dei nomi che faccio appartengono alla cosiddetta “popular music” … Lo “snobismo”, di solito, appartiene a chi si limita ad ascoltare solo musica “contemporanea” (altrimenti detta “colta”, e non a caso) o solo musica “classica” … Non fare gerarchia tra i “generi” è il contrario dello “snobismo”; al limite, faccio una gerarchia tra le qualità. Il problema non è NG che non apprezza, poniamo, un De André; il problema è che chi ascolta De André raramente arriva ad ascoltare Peter Blegvad. Possono convivere? Certo, e infatti in me convivono (al punto da fare ascoltare De André ai miei figli), purché si riconoscano le differenze … E purché ci si interroghi sul perché di De André si sa tutto e di molti altri, anche di levatura superiore, poco o nulla …

    Un altro bacio, questo di consapevolezza

    @ fm
    Aspetto la playlist vegetariana deideologizzata … Ho l’impressione che farai fatica a stilarla, visto la musicaccia che ascolti …

    A te un bacio affogato nel barbera, a te e alla bella gente

    @ Larry
    Non disprezzo il “gregge”, ma ciò che lo rende tale!
    E figurati se non suggerisco Cecchi!

    Con affetto, un bacio dalla mia maestra

    @ Ares
    Il “Caino” della Valdoca è debole, sotto molti punti di vista. Ma è splendidamente recitato, e di questi tempi è tanto.

    Un altro bacio ancora, questo “al presente”

    @ Fabio Teti
    Il mio preferito dei GYBE è “Infinity” …

    Comunque, ci tengo a finire questa sfacciata esposizione di un “orientamento” regalandovi un bacio corale

    NeGa

  16. Ottimo, mi sono copiata la lista.
    Sono un po’ perplessa su questo «Ho riflettuto molto sulla mia “avversione” alla musica classica. L’impressione è che si tratti di una musica fuori dal mio tempo. Il tempo che quelle note scandiscono non è lo stesso che scandisce il mio orologio.»
    Cioè, mi è chiaro, ma al tempo stesso mi pare che una daga tagli di netto il legame con la tradizione.
    In compenso io sono debole sulla musica del mio tempo, perciò ho tutto da imparare.

  17. caro nevio,

    evidentemente a parte i PIL e i CRASS non ho mai ascoltato null’altro nella vita, ma grazie a te ho ancora trenta quarant’anni di vita per rifarmi con la tua playlist (uh… ma questo franco zappa è il tipo che ha esordito un po’ di tempo fa al festival del cantatutore zoppo a Viterbo?)

    no, il tuo trinciapollo ideologico, è quello che usi in altri trhead: qui, invece, ti ho trovato in splendida forma

  18. (cmq archandroid è una bomba, ci corro su. quoto anche dj spooky e galas. nonché buona parte della stempiata compagnia, cantante. quanto agli assenti direi i transglobal underground & natasha atlas, ma anche amon tobin)

  19. per gli Ultravox questa in questa specifica versione

    [http://www.youtube.com/watch?v=EX2prYi2SQI]

    tra i “compositori colti” inserirei Max Richter, con ad esempio questo testo di Marina Tsvetaeva (ma c’è tantissimo da ascoltare e scoprire di Max)

    [http://www.youtube.com/watch?v=UpLEXq7Ke1I]

    poi, alla fine, credo che ognuno segua anche un proprio percorso personale, ad esempio io gradisco e condivido molto il tuo, ma ci sono delle grandi assenze per me che probabilmente per te saranno insignificanti, come a dire “zero” agli U2 in modo categorico, quando appunto io li ho amati soprattutto in anni di cambiamenti e crescita, che ad altro mi hanno condotta spingendmi ad andare oltre amando The other side of Mt. Heart Attack, dei Liars, ad esempio :)

    [http://www.youtube.com/watch?v=jwhiXr7Xr_Y]

    ciao, grazie per il viaggio.
    n.

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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