Restiamo uniti!

di Giuseppe Catozzella

Sono convinto sia profondamente sbagliato sottomettersi alla logica dell’audience che vuole sia la quantità di vendite a fare da amplificatore di una verità scritta nero su bianco. Solo se uno scrittore, un giornalista, un regista, un attore sono già arrivati a tantissima gente allora fa comodo ai grandi giornali o alle tv parlare di ciò che essi dicono nelle loro opere.

No, ciò che un libro, un’inchiesta giornalistica, un documentario, uno spettacolo teatrale, anche solo un articolo di cronaca giudiziaria racconta sta prima di quanto ha venduto. Bisognerebbe considerare l’oggetto e non il consenso che ne deriva e in quale quantità.
L’11 maggio 2011 è partito il maxi processo alla ‘ndrangheta in Lombardia, diviso tra rito abbreviato e rito ordinario (questo celebrato nell’aula bunker di via Ucelli di Nemi, a Ponte Lambro), sèguito delle maxi operazioni – Crimine e Infinito – di luglio 2010, in cui furono tratti in arresto più di 300 affiliati tra Lombardia e Calabria.
Un maxi processo di mafia è già di per se un evento che è necessario raccontare, far sapere ai cittadini. Un maxi processo di mafia al Nord, in Lombardia, il cuore economico del Paese, lo è ancora di più.
Ma così non è stato, non se ne sono occupati i telegiornali, nemmeno i giornali nazionali.
Se si raccontano le modalità con cui la mafia più potente del mondo da sessant’anni governa in silenzio la regione più ricca d’Europa e quindi d’Italia, il motore di tutto il Paese, ciò che gli consente di stare dentro il G8 per esempio, se si racconta che gran parte dei capitali prodotti in Lombardia – e quindi una buona fetta del Pil italiano – è frutto di accordi con l’economia criminale, questo è quello che non si può dire, che deve rimanere taciuto.
Se si raccontano i meccanismi con cui ciò avviene, i metodi, le strategie, le logiche del controllo del territorio, degli accordi con i politici locali, della partnership con gli imprenditori, il ruolo del commercio di cocaina nell’accumulo di liquidità che entra nelle casse delle imprese pulite, questo è proprio ciò che deve essere silenziato. Se si fa vedere il meccanismo che sta sotto la guaina di protezione e si racconta, si analizza, si mostra l’ingranaggio così com’è, perché tutti lo possano vedere nel luogo che guida la spinta economica dell’intero Paese, si deve essere messi al silenzio.
E invece solo questo è quello che andrebbe raccontato se si volessero comprendere le ragioni del sistematico crollo economico e morale italiano. Per comprendere lo stadio a cui siamo arrivati è necessario fare un passo indietro o un passo in dentro, e avere il coraggio di scovarne le ragioni. La grande floridezza dell’economia del nostro Paese è in gran parte sommersa, aiutata in questo dal tessuto imprenditoriale che è proprio del nostro territorio: un arcipelago di medie, piccole, piccolissime aziende. 300 miliardi di euro ogni anno vengono sottratti alle casse dello Stato tra fatturato mafioso (circa 130 miliardi) e corruzione ed evasione fiscale (i restanti 170 miliardi): dieci grandi finanziarie.
Per troppo tempo si è voluto far finta di credere che la mafia – il primo Male italiano, la prima cosa che abbiamo esportato nel mondo e che contemporaneamente si mangia la fiducia nel futuro, alimentata dai concetti di merito, di premio per lo sforzo personale, unico vero motore economico – fosse confinata al Sud: se solo una parte del corpo è malata, allora si può guarire, allora il tutto è sano, non c’è da preoccuparsi.
Le maxi operazioni in Lombardia e Piemonte, le grandi operazioni in Liguria, Emilia Romagna e Veneto gridano che così non è.
E in Lombardia, già negli anni Novanta, ci sono state decine di maxiprocessi, con condanne per circa tremila affiliati di ‘ndrangheta. Tutti nascosti sotto terra, insabbiati, per allontanare sempre più il giorno della consapevolezza, della resa dei conti.
Ma quel giorno è alle porte, è evidente a quasi tutti. Sembra essere alle porte il momento di scrivere sulle prime pagine dei giornali che l’Italia è malata. Che il germe della corruzione non è confinato in una precisa latitudine, ma che il modo più facile per creare capitale, quello illegale, ha da sempre tentato e fatto gola a un certo tipo di italiani, del Nord come del Sud. E che da sempre le nostre quattro mafie hanno fatto comodo al tessuto produttivo dell’intero Paese e alla maggior parte della classe politica, che è sempre sembrata fare di tutto per non combatterle.
Dobbiamo avere il coraggio di dirlo, altrimenti – come sempre più spesso succede per i giornali – la realtà, i movimenti, i venti, non solo superano ma scalzano totalmente la comprensione, che resta azzoppata, monca, muta: stupida.
Un Paese senza un’adeguata Ragione che lo rappresenta è cieco, guidato dagli istinti.
È l’ora del coraggio, invece, della presa di coscienza.
Voglio fare un appello, soprattutto ai giovani, ma rivolto a tutti. Soprattutto a coloro che hanno deciso di “metterci la faccia”, di raccontare con il proprio nome i meccanismi con cui agisce la mafia, con cui agisce la corruzione, nel nostro Paese, a quelli che hanno deciso di dedicare anni, tempo prezioso, alla comprensione e al racconto.
Scrittori, giornalisti, attori, giovani delle organizzazioni antimafia, magistrati, uomini delle forze dell’ordine, politici: mettiamoci insieme.
Superiamo le minuscole logiche di appartenenza ai diversi gruppi editoriali, la difesa delle piccole o grandi notorietà, le personalizzazioni e uniamo invece le nostre voci, appoggiamoci, spalleggiamoci, diamoci forza reciproca. Facciamo vincere la verità. Costringiamo i grandi giornali e i telegiornali a occuparsi seriamente di quello che ormai non è più un’ipotesi, mettendo la firma insieme sotto la nostra consapevolezza: la completa compresenza dell’economia criminale e di quella legale sull’intero corpo della Penisola. Aiutiamo il vento che già si è levato ad andare nella giusta direzione, urliamo insieme che siamo per la legalità, per il rispetto delle intelligenze, dei meriti, del lavoro altrui, della Verità, e che siamo contro le arroganze, le prepotenze, l’annichilimento del talento e della fiducia nel futuro, siamo contro le logiche familistiche di spartizione della ricchezza e del lavoro. Gridiamo che siamo pronti per riprenderci finalmente il nostro Paese dove i Padri Costituenti l’hanno lasciato.
Gridiamo insieme. Questo è il momento. Gridiamo con forza la Verità. Firmiamo articoli che la raccontano. Facciamoci sentire. Guidiamo la consapevolezza. Ma tutti insieme, finché non saremo tutti gli italiani.
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8 Commenti

  1. l’editoria ha iniziato un declino devastante…
    basta guardarsi intorno…
    l’unica logica è quella del profitto e dello spettacolo…
    saviano va bene perchè vende, ormai è un prodotto commerciale…

  2. no,non sono d’accordo.E’ la sindrome antica della sinistra.””Perdere è giusto”Dopo un pò è giusto che vengano un pò di dubbi su questo “sistema”.Anche perchè al sud,perdi male.Meglio farcela,ogni tanto.Lucia

  3. Una piccola riflessione.
    Forse sarebbe il caso davvero di provare a mettere insieme la consapevolezza diffusa propria del Sud (talmente diffusa che persino l’ex-governatore Cuffaro, oggi in galera per le sue relazioni con la criminalità organizzata, a un certo punto ha persino usato la strategia dell’antimafia, tapezzando la Sicilia di manifesti in cui si esprimeva il disprezzo della mafia) e le voci che oggi denunciano l’infiltrazione mafiosa nel Nord.
    Ho infatti l’impressione che, in fin dei conti, poco si sappia gli uni degli altri: il Sud che vuole riprendere il mano il proprio destino sa poco del Nord che ha consapevolezza di come le mafie stiano compromettendo il suo presente e il suo futuro, e vicerversa.

  4. E’ in atto un cambiamento nel “muro dei media”. Come hanno dimostrato i referendum e l’informazione orizzontale ostracizzare un tema dalla televisione non equivale più a cancellare quell’argomento dalla coscienza collettiva. Prendiamo il caso del poligono militare di Quirra, in Sardegna. Tre anni dopo l’uscita del romanzo di Massimo Carlotto e Mama Sabot, Perdas de fogu, la Procura di Lanusei ha aperto un’indagine per omicidio plurimo, omissione di atti di ufficio e inquinamento ambientale. Per stessa ammissione di Carlotto, prima di loro solo «un paio di giornalisti sardi» si erano occupati di questa faccenda (c’è un’intervista qui: http://www.goodthing.it/php/wordpress/?p=2900#more-2900). Questo è un caso. Ma sebbene il panorama in generale non induca troppo all’ottimismo, dobbiamo ricordarci che giornali, giornalisti e editori non sono tutti uguali. Generalizzare in questo senso vuol dire fare il gioco del più sporco, consentirgli di nascondersi dietro il “così fan tutti”, raccontare il falso dicendo che “c’è chi la pensa in un modo e chi la pensa in un altro”. Trasformando una bugia in una “visione di parte”. Che poi il valore di un articolo o di un libro o di un blog vada oltre a quanto ha venduto o a quanto è stato cliccato (insomma: letto), credo che questo trovi tutti d’accordo. Va oltre, va bene, ma non può ignorarlo. Perché quelle vendite sono lettori (ne hanno parlato diverse volte i Wu Ming che proprio in questi giorni hanno pubblicato su Giap i dati di vendita dei loro libri). E tornando a Perdas de fogu, che come esempio mi piace parecchio (se non s’era capito…), è fondamentale che i numeri in questo senso siano alti, perché più sono alti più sarà difficile mantenere intatto il silenzio.

  5. Evelina, concordo con quanto dici.
    Una declinazione della consapevolezza dell’unità d’Italia si può certo fondare su quella della presenza pervasiva, su tutto il territorio, della criminalità organizzata e della generazione illecita di gran parte del prodotto interno lordo.
    Non dimentichiamo che 300 miliardi l’anno (alcuni analisti dicono 400/450) sono sottratti allo Stato – tutto! – tra evasione fiscale, curruzione e “fatturato” mafioso. Se quanto sottratto ogni anno venisse invece riportato dentro le casse statali in 5 o 6 anni più o meno avremmo risanato il debito pubblico (uno dei maggiori al mondo) di 1800 miliardi di euro.
    E questa, di certo, è una cosa che ci accomuna aldilà delle latitudini, specie in periodi come questo in cui anche il nostro rating è a rischio (come Grecia, ecc…).

  6. Ma dove sei finito,Ares,commento al N 1.Che peccato.Scusami,sto sulla terrazza di casa,e ci sono dei pipistrelli.Non mi piacciono,me ne vado.Ciao,Lucia D.

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marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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