Dai cancelli d’acciaio

di Daniele Giglioli

Transita in questi giorni in libreria Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca (Luca Sossella, 591 pagg, 30 euro). Non so quanto ci resterà, ma verosimilmente non molto, come quasi ogni libro, e tanto più questo romanzo abnorme che è la summa di tutto quanto il suo autore è andato facendo, come poeta, saggista e narratore, in molti anni di lavoro. Più che una recensione, questo è un appello. Non è rivolto a chi già conosce l’opera di Frasca, con punte a volte di culto e fanatismo che temo gli nuocciano più di quanto non gli giovino. Ma a chi non l’ha mai letto, al lettore qualunque che si suppone (e Frasca stesso, sembrerebbe, suppone) a un testo del genere non si accosterebbe mai, o se ne distoglierebbe subito alle prime righe. E l’appello è: non sprecate questa possibilità, non fatevi respingere – se occorre anche contro il suo autore – dal suo esoterismo. Dai cancelli d’acciaio ha molti punti di accesso, e qualunque lettore può trovarvi il suo. Una volta dentro, non importa quanto possa sfuggirgli: ciò che gliene verrà sarà sempre e comunque in sovrappiù. Padroneggiarlo tutto è impossibile, e forse nemmeno Frasca ci è riuscito. E non è già questa una sfida, a differenza di quanto accade nell’ordinaria amministrazione senza ombre né residui cui con poche eccezioni ci ha abituato una romanzeria nazionale che non arriva nemmeno a lambire la possibilità del fallimento? Quelle in cui si fallisce sono le sole imprese che valeva di tentare. Da un libro del genere il lettore non può che uscire sconfitto; ma gloriosamente, e tanto più quanto più ci si appassiona. Basterebbe questo a raccomandarlo.
Proviamo allora a tirare dal romanzo di Frasca, che ne annoda parecchi, un filo con cui orientarci. Molti altri sarebbero possibili, ma questo è decisivo: il tema del tradimento, del rimorso e della liberazione. Col tradimento e le sue conseguenze hanno a che fare tutti i suoi personaggi. C’è in primo luogo il tradimento compiuto dal padre gesuita Saverio Juvarra ai danni del vescovo di Santa Mira, Cristoforo Bruno (di cui è segretario), studioso di copto, decifratore di manoscritti neotestamentari, che in un antico codice ha scoperto una versione del vangelo protogiovanneo, anteriore ai sinottici e vicina alla galassia del pensiero gnostico. Troppo pericoloso per la chiesa di Roma, che chiede al gesuita di eliminare il depositario del segreto somministrandogli un farmaco che lo farà sprofondare nella demenza. Ma traditore è lo stesso vescovo Bruno, che per tutta la vita ha tenuto nascosto per timore non un qualsiasi apocrifo ma un vero e proprio frammento della Rivelazione. E di che cosa parla questo vangelo se non del rapporto di complicità, necessità e coappartenza che lega la figura di Cristo a quello del suo traditore, Didimo Giuda, colui che lo consegna ai carnefici con l’assenso del suo maestro (quello che devi fare, fallo presto)? Anche Cristoforo Bruno d’altra parte sa benissimo che il suo discepolo lo sta tradendo, eppure non rinuncia a consegnargli, a sua volta, una verità che non ha avuto la forza di testimoniare in proprio.
E’ per espiare questa colpa che entrambi, prima il vescovo e poi il suo segretario, decidono di esporsi all’esperienza sconvolgente di farsi attaccare a una sorta di blasfema parodia della croce che costituisce l’attrazione clou della discoteca Il Cielo della luna, sorta di postmoderno oltremondo dantesco, ideato da quel precipitato di ogni possibile dark lady che è Regina Mori, in arte Moira, dove gli ospiti paganti sono insieme attori e spettatori di un catalogo di oscenità, dalla pornografia più soft agli snuff movies, che ricorda da vicino la drammaturgia sadiana delle Centoventi giornate di Sodoma. E colui che è appeso in croce è protagonista massimo dell’evento, costretto com’è a contemplare, e a essere visto mentre contempla, quella climax di turpitudini con addosso un raffinato congegno di telecamere e sensori attraverso cui i gestori della discoteca registrano tutto quello che lui vede e sente per riversarlo poi in un fortunatissimo circuito di Home Video.
Espiazione, liberazione, salvezza. E’ la via giusta, per loro e per i molti altri personaggi (psichiatri e psicotici, terroristi e affaristi, adolescenti e adulti equanimemente falliti) che ruotano attorno al Cielo della Luna? Certo non era questo l’intento di Regina Mori e del suo staff, che si prefiggono piuttosto di «aiutare le persone (…) a passare dalla cella d’isolamento della responsabilità individuale alla grande gabbia da circo del godimento collettivo». Disciplinamento attraverso il piacere, infrazione che conferma la legge: conosciamo l’argomento. Ma è così diversa da quella di tutti gli altri poveri cristi la redenzione gnostica che Saverio Juvarra e Cristoforo Bruno vanno scrutando oscuramente nel vangelo di cui sono testimoni e traditori? Se il tradimento è necessario a che l’evento si compia; se il male non è che l’ombra del bene; se «Dio è l’inferno con qualcosa di più»; se buona novella è solo quella che sospende il tempo così che il passato non abbia più bisogno del futuro per espiarsi e il dolore possa mutarsi in gioia senza fine; se all’interrogazione paranoica alla Philip Dick (di chi è la colpa?) si addiziona e si sovrappone la polemica di Gilles Deleuze (altro faro, insieme a Dick, di tutta l’opera di Frasca) contro il risentimento, il rimorso, la ripetizione reattiva che impedisce di sciogliersi nel flusso innocente del divenire: in che cosa divergono l’attitudine consumista dei frequentatori della discoteca e l’anelito soteriologico di Bruno e Juvarra? Non a caso ci sono andati anche loro. Se tra le due opzioni ci sia identità o differenza, e di quale natura siano questa identità e questa differenza, è forse la posta in gioco più importante del romanzo di Frasca, che sul punto non fornisce risposte definitive. Che tocchi al lettore cercarle è un fatto indubbio. Che riesca a trovarle è invece molto dubbio: sarebbe insieme la soluzione del mysterium iniquitatis e dell’arcano della società capitalistica. Ma arrivare a comprendere come e perché i due membri dell’equazione si illuminino e si rispecchino a vicenda è un esito che basta alla gloria del suo autore, e alla sua.
(pubblicato su Alias, 2/7/2011)
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21 Commenti

  1. Interessante e intrigante. La recensione gli rende giustizia, in un mix ben calibrato di racconto e interpretazione. Però vorrei invitare Giglioli a riflettere su questa frase:

    “Quelle in cui si fallisce sono le sole imprese che valeva di tentare. Da un libro del genere il lettore non può che uscire sconfitto; ma gloriosamente, e tanto più quanto più ci si appassiona. Basterebbe questo a raccomandarlo.”

    Io, come lettore non mi sento per nulla attratto da un’impresa che so già destinata al fallimento, e non trovo alcun fascino nell’uscire sconfitto.

  2. Condivido con Baldrati, e in specie con riferimento a qualche riga prima:
    “Padroneggiarlo tutto è impossibile, e forse nemmeno Frasca ci è riuscito. E non è già questa una sfida, a differenza di quanto accade nell’ordinaria amministrazione senza ombre né residui cui con poche eccezioni ci ha abituato una romanzeria nazionale che non arriva nemmeno a lambire la possibilità del fallimento?”.

    Da lettore, accetto sempre la sfida di essere sconfitto da un libro. Però, che a essere sconfitto dal libro, sia il suo stesso scrittore, beh: così diventa da subito un’opera di compianto.

    La “romanzeria nazionale” ha di certo tutte le sue meschintà, che però non si riscattano facendo i meschini svelatamente invece che implicitamente.

    Detto questo: che piacere leggere di scrittori, e italiani!, che con scrittura ingaggiano un corpo a corpo, gettandosi contro, per essere vivi, a corpo morto.

    Un saluto,
    Antonio Coda

  3. “””””””””Dal 2008 al 2010 ha pubblicato a fascicoli, solo per sottoscrizione, il suo terzo romanzo Dai cancelli d’acciaio (che apparirà in volume unico agli inizi del 2011).””””””””””””””””
    interessante! non lo sapevo!
    vgorrei sapere di più su questa iniziativa, come è nata, attraverso quali canali è stata proposta, quanti lettori hanno aderito.

  4. forse l’autore dell’articolo voleva dire che per fare buona letteratura, oggi, ci vuole coraggio, molto coraggio, soprattutto quando sei consapevole di rischiare di essere condannato alla sconfitta o al fallimento….come spesso diceva uno scrittore a me molto caro…………………

  5. “Essere un artista significa fallire”

    “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”

    Samuel Beckett

    Forse, il “fallimento” di cui parla Giglioli coincide con quello beckettiano; a maggior ragione se riferito a Frasca, che di Beckett è studioso e traduttore … È il fallimento della rappresentazione o, se si vuole, della stessa letteratura; si tratta sempre, in fondo, della difficoltà di dire il reale (“dire l’impossibilità di dire”, Beckett, ancora), in particolare se si ricorre al linguaggio più scontato e banale …

    NeGa

  6. Su Amazon.it si trova a 21 euro. E su Internet Slowbookfarm si trova a 24. Così, per informazione.

  7. sono andato a sbirciare nel sito della casa editrice…

    http://www.lucasossellaeditore.it/Catalogo/Mente/Dai-cancelli-d-acciaio-Frasca-Gabriele

    a 10 euro offrono l’audiolibro dell’intero romanzo letto dall’autore e il pdf de Il compagno d’acciaio (con i primi saggi critici sull’opera e tutti i disegni di cyop&kaf autori della copertina),

    inoltre c’e’ un file audio

    http://www.lucasossellaeditore.it/extra/mediaevo/viaggi_presentimentali/Frasca_Dacandacc.mp3

    per ascoltare il dialogo tra Gabriele Frasca e Luca Sossella su Dai cancelli d’acciaio.

    .

  8. Bisogna intendersi su fallimento e su sentirsi vincere.
    Ogni scrittore sano di mens sana sfrutta un corpore sano così così. Meno è sano, pieno, fedele, meglio è. Non fosse altro che più handicap e mortificazioni può vantare il corpo di uno scrittore, più via di fuga dalla Retorica-Antologia può adire.
    Il corpo può (non) comunicare anche attraverso la pagina. Ci vogliono i coglioni, e il pennello, ma ci si può fallire.
    Ma questo è un discorso vecchio e già sfiancato.
    Beckett gli è passato sopra come un tritacarne. Ha adoperato il corpo, in letteratura come in teatro, per fallire la comunicazione.
    Questo per dire che uno scrittore può avvicinarsi al vero, magari riproducendo una realtà linguistica medio-bassa, molto corporale e personale, ma è pur sempre un buco nell’oceano.
    Caro Baldrati, io odio quando uno scrittore pensa di esser vincitore. Perché allora o è in malafede, oppure è uno sprovveduto che farebbe bene a ragionare.
    Se uno scrittore si sa vinto fin dall’inizio, ma prova a mandare la pipì dove deve andare (anche quella è scrittura), io lo apprezzo.

    Da quegli scrittori, poi, così sconfitti e determinati a perdere meno, io mi sento vincere.

  9. Dinamo, non teorizzo vittorie, né sconfitte. E non scomodo Beckett, e a questo punto neanche Rimbaud, con la sconfitta del veggente. Respingo l’attrazione verso la sconfitta, l’etica del perdente, o la sua presunta forza, che non è tale. La forza e l’estetica del perdente sono quelle del bambino battuto, schiacciato dall’adulto. Quindi non ci tengo a essere un lettore sconfitto, e pure felice di esserlo. Non vado in una direzione perché so che mi aspetta la sconfitta. Cambio marciapiede.

  10. @Baldrati

    Non capisco cosa c’entri il bambino abbattuto dall’adulto-picadores.
    Comunque, lei se mi vede può anche cambiare marciapiede e strada, ma la sconfitta è nei mezzi della scrittura e nei limiti della creatività sul reale, e della creatività marginale contro la creatività in potenza (in quanto anche come “mondo non scritto”, per scomodare Calvino, dopo Beckett, che festa!).

    Il mezzo ha dei limiti, solo per questo si è in minoranza, per fortuna. Il mezzo schiaccia lo scrittore, basta saperlo. In questo penso la sconfitta, in quest’ottica.

    Sulla scrittura in sé, poi, si farebbe notte per dividere quelle purie da quelle spurie. Già le categorie vanno male.

  11. Baldrati, ha ragione lei, la letteratura bisogna farla, di contaballe ce ne son fin troppi, come di cattivi spacciatori, il parco ne scoppia

    vado, modestamente, a scoppiarmi

  12. Secondo me non si dovrebbe battere troppo sul tasto del fallimento, come se il successo, qualunque cosa sia, fosse alla portata dell’uomo. In ogni lettura, che è decodifica e ricodificazione da un idioletto all’altro, il lettore avrà perdite e guadagni, successi e fallimenti, per ogni libro che incontrerà. Credo che la recensione avrebbe dovuto ridimensionare quest’idea-totem del fallire esistenziale ed ermeneutico, troppo spesso confusa col fallibilismo. Il rischio è di rendere un cattivo servizio a un’opera che merita attenzione. Sarebbe stato assai meglio dire che la ricchezza del libro ne fa una miniera inesauribile. E magari porre l’accento sulla genesi di questo romanzo, nato quasi in collaborazione coi lettori, alla maniera di uno Sterne dell’era dell’informazione -e per Frasca stesso, che a suo tempo illustrò questa dinamica compositiva con l’arguzia che gli è propria, i lettori online di questo romanzo sarebbero da considerarsi molto più lettori di quelli che si presentano alle conferenze con libro da firmare alla mano (magari non letto). Troppo spesso ci si fissa su un cliché e ci si scorda di porre attenzione all’aspetto in apparenza più sfuggente e al contempo più importante.

  13. In altre parole, temo proprio che l’etica e l’estetica del perdente non siano nel libro, ma nel fin troppo intellettualistico esercizio del recensore.

  14. “””””nato quasi in collaborazione coi lettori, alla maniera di uno Sterne dell’era dell’informazione -e per Frasca stesso, che a suo tempo illustrò questa dinamica compositiva con l’arguzia che gli è propria,””””””

    mi piacerebbe saperne di più. Cosa vuol dire che il romanzo nasce dalla collaborazione dei lettori?
    Il lettore deve leggere e lo scrittore scrivere tra i due l’unico elemento che li avvicina è l’opera.

    ma forse non ho capito il senso della farse;

    non potrebbe l’autore intervenire per spiegare meglio questa cosa?
    grazie

  15. @Carmelo, che scrive:

    “Il lettore deve leggere e lo scrittore scrivere tra i due l’unico elemento che li avvicina è l’opera”

    cos’è, un’estetica dell’editto imperiale?

    un saluto,

    f.

  16. @fabio teti
    è la mia modesta opinione di lettore che appunto legge.
    ma la lettura in fondo è una riscrittura dell’opera.

    Adesso te la faccio io una domanda:
    perchè ti meraviglia tanto la mia banalissima affermazione ?
    sono molto curioso di leggere il tuo rivoluzionario pensiero riguardo la letteratura!

    ce ne sono parecchi che scrivono sotto dettatura: delle mode del mercato degli standard richiesti per vendere. sono gli scribacchini cosidetti, ovvero degli impiegati dotati di una tecnica standard in grado di produrre un prodotto standard.
    mi dispiace questa polemica che non c’entra niente con il libro ion questione.
    Mi dispiace anche che i libri vengano presentati in questo modo; non giovano certo all’autore ne tantomeno al lettore.

  17. caro Carmelo

    è il doppio “deve” della tua formulazione che non mi è andato troppo giù. e mi ha meravigliato perché presuppone un rapporto aristocratico e un vettore verticale autore-lettore che “potrebbe” a mio avviso non essere il solo ipotizzabile (da lì a “io produco tu compri” il passo è breve, e apre proprio all’attività degli “impiegati” che dici).

    ma che la mia fosse una “battuta” e non una polemica lo credevo chiaro. dimentico sempre che nei thread l’ironia passa male e malintesa, e allora mi scuso, anche con Giglioli e Frasca per la diversione.

    buona giornata,

    f.

  18. e vabbè io me lo sentivo che sarebbe venuta fuori la storia della democrazia e del rapporto orizzontale….. due concetti che vengono secondo me utilizzati a sproposito quando si parla di letteratura, o di chirurgia, o di ingegneria chimica, o di falegnameria, di qualsiasi disciplina o sapere che richiede delle competenze.

    Non lo trovo per niente aristocratico il rapporto tra l’autore e il lettore, ma semplicemente distinto.
    Anzi direi che leggere è più importante che scrivere, massima imperiale che tutti gli autori (i quali dovrebbero essere dei lettori che scrivono come dice Rodrigo fresan) dovrebbero tenere a mente.

  19. Carmelo,
    non mi pare di aver utilizzato in nessun punto dei miei commenti la parola “orizzontale” né tantomeno la parola “democrazia” però. sbaglio? non puoi dedurle senz’altro dal loro contrario.

    ho semplicemente detto che, rispetto alla totale “distinzione” dei due elementi e momenti, scrittore e lettore, scrittura e lettura, sono ipotizzabili (non: “obbligatorie”) “anche” altre strategie di lavoro, che il tuo “deve” mi è parso escludere categoricamente. il romanzo di Frasca, che non ho ancora letto, mi pare infatti di capire sia stato costruito a stretto contatto e confronto con i suoi primi lettori/sottoscrittori. io la trovo una cosa bellissima, semplicemente.

    tutto qui. un saluto,

    f.

  20. ok fabio, scusa se sono stato sgarbato; resto comunque dell’idea che lo scrittore è solo davanti al testo di cui è padrone assoluto finchè non termina l’opera. dopodichè del testo assume pieno imperio il lettore.
    che poi qualcuno tenti altre strade, nessun problema, ma io resto della mia opinione.
    Invece con l’occasione vorrei manifestare ancora una volta la mia delusione e meraviglia per il fatto che Nazione indiana non provi altre forme di comunciazione e di confronto autore-critici-lettore, utilizzando le tecnologie della rete
    ovvero:
    Se davvero si vuole promuovere la Letteratura, la redazione dovrebbe scegliere ogni mese un’opera degna di questo nome e proporla ai lettori
    per esempio in questo modo;
    una presentazione critica di alta qualità;
    l’annuncio della presenza dell’autore in diretta streaming (anche in differita) che oltre a presentare la sua opera risponde alle domende dei lettori (in diretta o in differita).
    qualcuno mi spiega perchè la redazione non ritiene di dover tentare una strada del genere ?

    Da lettore osservo che, presentare (in modo orizzantale mi viene da dire brrr) una caterva di libri (decien al mese), ovvero puntare sulla promozione quantitativa serve a ben poco, anzi a niente. Non serve all’autore nè serve ai lettori per fare fare una scxelta, compito complicatissimo di fronte a una produzione sterminata e spaventosa.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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