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[Dal 17 al 20 liglio si terrà a Roma la 6° Conferenza Mondiale sull’Aids. Maria Angela Spitella ha intervistato per Nazione Indiana Stefano Vella, coordinatore del gruppo di ricerca su HIV, epatiti e salute globale all’Istituto Superiore di Sanità, e Direttore del dipartimento del farmaco. E ha raccolto le storie di Marco e Alessandra. Perché il silenzio per l’Aids non è una cura]

di Maria Angela Spitella

La prima volta che ho sentito parlare di Aids avevo quindici anni, lo ricordo ancora come uno schiaffo. Il cuore che si ferma e la paura che si impadronisce di me. Ero al mare, sul Corriere della sera ho letto di questa malattia, ho visto la foto di un malato magro da far paura, con il viso scavato e sofferente. Di morti e di malati non ne avevo visti, ma davanti a quell’articolo mi sono ritrovata a pensare che forse sarebbe potuto accadere anche a me. Ero giovane, ma avevo già avuto i primi rapporti sessuali, e come si leggeva, la malattia si trasmetteva proprio per via sessuale.

La malattia della punizione, Sodoma e Gomorra, l’articolo aveva evocato in me paure ancestrali. È vero che si sottolineava che i più colpiti erano omosessuali e tossicodipendenti ma anche gli eterosessuali non venivano risparmiati. E poi i dettagli: il sarcoma di Kaposi, le continue diarree, le polmonite, le febbri, il deperimento, la morte. Né una cura né niente che potesse salvare dal virus del peccato.

Non sapevo come uscire da labirinto scuro nel quale mi ero infilata, continuavo a vedere l’immagine dell’uomo steso sul letto di un ospedale americano e coperto da quelle macchie nere che mi si erano insinuate in testa come tarli. Era il male del secolo, così lo definivano in molti. A trenta anni dal primo caso conclamato di Aids cosa è cambiato, cosa significa essere malati, o meglio i malati esistono ancora?

Non voglio fare qui una disanima scientifica e non potrei neppure, ma voglio raccontare due storie emblematiche che possono far capire come sia cambiato oggi il rapporto dei malati con la malattia, come siano stati fatti passi in avanti nella ricerca di una cura, che se pur non definitiva permette di avere una vita normale. Lo faccio alla vigilia della Conferenza Mondiale sull’Aids che si terrà a Roma dal 17 al 20 luglio. Prima di domandare a Marco e ad Alessandra, chiedo però a Stefano Vella, uno degli organizzatori della conferenza Mondiale che ha passato e passa la sua vita ad occuparsi di Aids.

La conferenza non nasce sotto buoni auspici, visto che l’Italia è tra i paesi Europei che ha subito i maggiori tagli alla ricerca scientifica e non solo, il nostro paese è l’unico dei G8 a non aver versato i contributi per il 2009 e il 2010 al Global Fund to Fight Aids, Tuberculosis and Malaria.

Stefano Vella ha un’ aria simpatica unita a una grinta intatta nonostante il passare degli anni. Pure ammettendo che sono tempi duri per la ricerca sull’HIV in Italia, per quest’anno non ci saranno nuovi fondi, continua il suo lavoro, è lui che coordina il gruppo di ricerca su HIV, epatiti e salute globale all’Istituto Superiore di Sanità, ed è Direttore del dipartimento del farmaco.
Superato l’impatto con le cattive notizie, che dovrebbe far riflettere sullo stato del nostro Paese, Stefano Vella ci racconta cosa significa aver portato a Roma la Conferenza Mondiale sull’Aids, malattia di cui nei paesi industrializzati oggi non si parla quasi più.

Non è una nota del tutto positiva nemmeno questa, perché non vuol dire che non parlandone l’HIV è sparito, ma semplicemente che si è abbassata la guardia.

“La Conferenza Mondiale in Italia, è molto importante, perché il nostro Paese fa da ponte tra Nord e Sud del mondo. In un mondo globalizzato non si può e non si deve più guardare agli interessi dei singoli paesi, ma ad un interesse complessivo che unisca gli estremi del pianeta”.
Una sfida che non fa paura a Vella e che dovrebbe essere intrapresa affinché i paesi più poveri, come l’Africa abbiano un calo della mortalità, e vengano aiutati dai così detti paesi ricchi. Qui i numeri servono per far capire qual è la situazione: nel Sud del mondo: sono otto milioni ad usufruire del trattamento per tenere il virus sotto controllo, ma oltre 10 milioni sono ancora privi di qualsiasi cura.

Dunque il fine ultimo è quello di far scendere nel Sud del mondo la curva di mortalità.
Le notizie non sono così disastrose per il nostro Paese. In Italia il numero di sieropositivi è di 150 mila, un paese, lo definisce Vella a bassa prevalenza di ammalati.

***

Marco è uno di questi, ha 39 anni e ha scoperto la sua sieropositività a novembre del 2009.
Lo incontro in un caffè dietro a piazza Vittorio, con me c’è mia figlia di due anni; arriva in scooter, ci studiamo per un attimo e appena iniziamo a parlare scatta l’empatia.
Ha gli occhi vividi Marco, e un bel sorriso. So che per lui l’intervista non è semplice. Convivere con la sieropositività non è cosa da poco, si è costretti a trasformare la normalità in un evento straordinario.

Mi racconta come è accaduto e io rimango di sale. Una relazione con il suo compagno che durava da quattro anni ma che negli ultimi mesi si stava sfilacciando.

“Io sono un uomo fedele”, precisa, “ma sì sa, quando le cose non vanno bene si cerca di capire, anche attraverso il tradimento, se è una crisi passeggera o se c’è una vera e propria rottura.
Il preservativo prima di tutto, a maggior ragione quando si hanno rapporti con persone di cui non si conoscono i comportamenti sessuali. Ma nel mio caso è stato un fatto particolare. Dello sperma mi è finito nell’occhio e in quel momento ho pensato al rischio che stavo correndo.

Rischio che mi è stato confermato quando sono andato a donare il sangue. “Mi hanno chiamato per dirmi che nelle mie analisi qualcosa non andava, ma lì per lì non ho pensato che poteva essere la sieropositività, non mi è passato nemmeno per la testa”.

Umori, paure, rabbia, stupore, condivisione, accettazione, questo passa per la testa di Marco quando scopre di essere sieropositivo; ma il primo pensiero è per il suo compagno. Ancora stanno insieme, e con la scoperta della sua nuova condizione, perché di malattia non si può parlare, Marco non è malato, deve confessare il suo tradimento, una prova ancora più difficile da superare.

Lo racconta con voce ferma, mi guarda negli occhi, ma ad un certo momento mi dice “scusa” e tra di noi cala il silenzio. Si sente il rumore martellante del coccodrillo di legno di mia figlia trascinato in mezzo ai tavolini del bar. E’ come un orologio rumoroso che segna il tempo, passano degli interminabili secondi, Marco non abbassa mai lo sguardo. Intravedo la sua fragilità, il dolore di aver fatto soffrire un’altra persona, improvvisamente l’Aids sparisce.
“Sarei voluto sprofondare, ricomincia con un filo di voce, è stato forte dover dire al mio compagno del tradimento, una persona che amo ancora, mi è stato accanto per alcuni mesi, senza mai farmi pesare la mia condizione, ma sapevamo entrambi che il nostro rapporto era giunto alla fine”.

La solitudine, la paura di ricominciare una nuova storia, il doversi confrontare con le altre persone, che chi per paura chi per ignoranza non accetta la sieropositività. “C’è stato un momento in cui mi sono sentito solo, sia fisicamente che psicologicamente” non passa giorno in cui Marco non pensi al suo stato. Nonostante infondo si senta fortunato. “Non mi sento malato, perché non lo sono, mi dice quasi contento, ho una viremia molto bassa, ancora non prendo farmaci”. Il colpo è stato duro da incassare, “spesso torno indietro con la mente, e a volte mi chiedo perché sia accaduto proprio a me, ma non trovo risposta”. La dottoressa che lo ha in “cura” lavora all’Ospedale San Giovanni, un grande nosocomio della Capitale, è stata lei a buttargli “l’ancora di salvezza, è bastata una frase: di AIDS muore oggi solo chi vuole morire”. Se ci si cura, se si fanno le analisi ogni tre mesi, e le visite di controllo, si può arrivare a 90 anni come ci arrivano le persone sane”. I momenti della visita di controllo per Marco sono i più duri, “il controllo dei linfonodi, dei polmoni, verificare come il tuo corpo sta reagendo al virus”.
Marco sorride quando gli chiedo se ha paura di morire, “no la morte non mi fa paura, ma la sofferenza sì”. Mi è piaciuta la definizione che ha trovato per il suo ospite indesiderato: “uno zainetto che mi porto sempre dietro, ogni tanto lo apro e vedo cosa c’è dentro e poi lo richiudo continuando la mia vita con un piccolo peso sulle spalle”.

Mia figlia dopo un’ora d’intervista ha cominciato a chiamare Marco per nome, quando lo salutiamo lei si protende per dargli un bacio. E mentre sale sullo scooter io non vedo più il suo piccolo zainetto sulle spalle.

***

Alessandra ha la voce roca, la raggiungo al telefono; è a Bologna, dal 2008 è la presidente della LILA Lega Italiana per la Lotta all’Aids; il suo forte accento bolognese le dà un’aria gioviale; la LILA è partnership della Conferenza mondiale di Roma sull’Aids che si terrà dal 17 al 20 luglio.
Ma Alessandra è anche una malata di Aids, la sua storia risale a molto tempo fa. Sono passati 26 anni da quando ha scoperto di essere sieropositiva; ora ne ha 51 e nonostante i cattivi pensieri che negli anni l’hanno accompagnata è qui ed è proprio il caso di dire che lotta insieme a noi e forse più di noi. Lotta per la sua “Lega”, che negli anni è diventata sempre più attiva, lei è dentro dal 1997, e lotta, sin dal primo giorno che le analisi hanno rivelato la presenza dell’HIV nel suo corpo, per la sua vita.

A parte l’accento bolognese che mi fa pensare ad una donna morbida, è una persona che definirei “tosta” , che ha “sconfitto” il male essendo rimasta in vita e superando prove che i malati di AIDS del 1984 spesso non superavano.

Caparbia, attaccata alla vita, ha dovuto affrontare non pochi passaggi delicati e difficili per arrivare a 51 anni. “Ho scoperto di essere sieropositiva nel 1986, ma penso di aver contratto il virus nel 1984”, date che fanno paura, tre anni prima il primo caso di AIDS nel mondo.
Le analisi Alessandra le ha fatte su consiglio di sua sorella, un medico, perché era incinta, e quando ha scoperto di essere sieropositiva ha anche deciso di abortire perché all’epoca, a differenza di oggi, che da una mamma sieropositiva può nascere un figlio sano, non si sapeva se madre e bambino sarebbero sopravvissuti.

“Quando ho scoperto la malattia, mi racconta con voce sicura, stavo ancora bene, nel tempo le difese immunitarie si sono abbassate”. Ed è da allora che Alessandra ha iniziato il faticoso percorso della terapia. Sono passati 24 anni: Oggi, come è lei stessa a spiegarci, per i malati è tutto più semplice, ma allora c’era un solo farmaco l’AZT.

Alessandra quando ha intrapreso il suo percorso non pensava di arrivare sino a questa età. In un primo momento ho continuato la mia vita di sempre, perché con addosso la paura di ammalarmi non ho modificato i miei stili di vita”. Ha continuato a vivere con il suo compagno che fortunatamente non si era ammalato, ma usando il profilattico durante i rapporti sessuali, e poi ha deciso di intraprendere la terapia.

Cosa non semplice, soprattutto perché non c’era nulla di certo. Si continuava a morire di AIDS, e “io aspettavo il mio momento”. Senza contare gli effetti collaterali del farmaco e la costanza e la fatica di dover prendere le medicine tre volte al giorno”.

Nel 1996 Alessandra viene devastata dalla polmonite da pneumocysti carinii, che significava AIDS conclamato. Le cure non c’erano, si era appena conclusa la conferenza di Vancouver in Canada ed era stato presentato uno studio ed una nuova terapia; con i polmoni devastati Alessandra si è vista rifiutare la possibilità di entrare nel protocollo che permetteva di accedere alle cure sperimentali. Era questione di tempo, e di tempo ce ne era veramente molto poco; mentre il farmaco aveva bisogno di tempo per arrivare negli scaffali degli ospedali Alessandra aveva bisogno di vivere.

Ma la storia ha un lieto fine ed è la stessa Alessandra a raccontarla. Nell’attesa dell’uscita in Italia del farmaco, un suo amico miliardario le ha permesso di comprare i flaconi di Norvir, che nel 1996, quando ancora c’erano le lire venivano un milione e si trovavano solo in Vaticano e a San Marino, flacone che era sufficiente per un solo mese. Ed eccola Alessandra che ha visto lo scorrere del tempo, il trasformarsi del suo corpo sotto le cure feroci per tenere a bada la malattia, che continua a lavorare part time in un’azienda metallurgica di Bologna. Il venerdì è dedicato giorno e notte, come il sabato e la domenica alla LILA. Famiglia, amici, tutti con lei, le sono stati vicino, la difficoltà più grande è stata quella di superare l’ignoranza di chi non conosce l’AIDS, ma attraverso la spiegazione delle cose, le persone non hanno paura, iniziano a capire e dunque ad accettare anche la tua condizione.

Un viaggio su doppio binario, quello della terapia e dell’accettazione. Ma l’allarme che oggi deve essere lanciato è soprattutto ai giovani e agli eterosessuali. Alessandra era una che scambiava le siringhe, che aveva insomma comportamenti a rischio. Ora che di AIDS non si parla più il pericolo è tra gli adolescenti, che usano il preservativo come contraccettivo e non come prevenzione.

Le campagne che una volta venivano fatte, anche se terroristiche, forse erano utili, per lo meno a far conoscere l’esistenza di questa malattia, ed è stato proprio Stefano Vella a dirmi che i malati di AIDS aumentano perché si scontano i “vecchi peccati di gioventù”, sono gli over 50 ed eterosessuali quelli che oggi si ammalano di più.

Ritorno con il pensiero alla fine degli anni ottanta, quando un usciere che lavorava al giornale dove allora ero redattrice improvvisamente sparì; venni a sapere qualche mese dopo che, abbandonato dalla famiglia era morto di AIDS in completa solitudine, lo chiamavamo Coccia.

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3 Commenti

  1. Maria Angela Spitella possiede un modo diretto e folgorante di arrivare alle cose di tutti i giorni con momenti di grande partecipazione altri di necessario distacco. La vera narraiva d’inchiesta che cerc di risolvere il problema senza prevaricare i soggetti che quel problema stanno vivendo…

  2. Maria Angela Spitella possiede un modo diretto e folgorante di arrivare alle cose di tutti i giorni con momenti di grande partecipazione altri di necessario distacco. La vera narrativa d’inchiesta che cerca di risolvere il problema senza prevaricare i soggetti che quel problema stanno vivendo…

  3. Raccontare è umanizzare: non coloro di cui si racconta, che devono già esserlo, umani, altrimenti non se ne potrebbe raccontare nulla: raccontare umanizza, dà una possibilità di umanizzarsi a chi legge e che quell’umanità troppo spesso la dimentica forse perché, disgrazia delle fortune, nella propria vita ha avuto scarso bisogno di ricorrerci, all’umanità, alla propria come a quella altrui.

    E in questo suo contributo Maria Angela Spitella ha raccontato.

    Un saluto,
    Antonio Coda

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