La letteratura, il trauma, l’estremo

di Marco Rovelli

Comprendere il senso di una costellazione di narrazioni, a prescindere da ogni giudizio di valore e dalla costruzione di un possibile canone. Prendere in esame una serie di libri per decifrarne il senso complessivo, che avrà qualche omologia di forma con lo spirito del tempo. Capire in che rapporto sta una certa letteratura con il mondo di cui essa è prodotto. Così facendo si tralascerà la questione del valore da attribuire ai singoli testi, e in quest’opera di comprensione cartografica potrà accadere che libri scritti male siano più rilevanti di libri scritti bene. Perché non si tratta di dar vita a un canone. E’ è questo il caso di Daniele Giglioli, nel suo saggio Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, pp. 115, euro 12). Non che il canone non debba esistere più, sia chiaro: semplicemente, a Giglioli non interessa partecipare alla sua stesura. Con un atteggiamento spinoziano, fedele al motto “non ridere, non piangere e non detestare, ma comprendere”, Giglioli si concentra piuttosto sulla lettura dei testi della nuova narrativa italiana in quanto sintomi. La chiave per comprendere questa costellazione – nei due complementari corni della narrazione di genere e dell’autofinzione – è detta fin dal titolo: trauma. Il trauma è ciò che è troppo grande, smisurato, per essere tematizzato. E’ un evento che ci accade e che è eccede le nostra capacità di accoglierlo nel linguaggio. E’ quella dismisura, insomma, che negli anni recenti non abbiamo vissuto: guerre, epidemie, calamità, disastri. Qui è disinnescata dunque l’obiezione possibile alla tesi di Giglioli, quella che dice: “Ma chiunque continua ad avere traumi!”. Certo che sì. Ma qui stiamo parlando di traumi sociali, collettivi, non individuali: stiamo parlando di una condizione comune che abbia segnato un’epoca e dunque il modo in cui essa (si) pensa. La modernità – da cui la grande letteratura da Baudelaire a Beckett – è stata attraversata da una serie impressionante di traumi: “industrializzazione, inurbamento, secolarizzazione, modernizzazione tecnologica, guerre mondiali, armi di distruzione di massa.” Oggi non è più così. La televisione è stato il nostro Vietnam, dice Giglioli – dove l’aggettivo possessivo indica lo spossessamento di un’intera generazione (e questo è anche un libro autobiografico, come si percepisce anche dall’intensità cristallina della scrittura), la sua mancata presa sul mondo, e dunque la sua incapacità di agire. Già, perché non si comprende la tesi dell’autore se non si capisce che la nozione di trauma ha qui, come “correlativo soggettivo” necessario, l’impotenza del soggetto nei confronti della realtà, ovvero “l’inoperabilità” della realtà stessa. Dove realtà e rappresentazione tendono a coincidere, dove il mondo tende a venire requisito dall’immaginario, dove siamo spettatori passivi di un mondo che sembra fare a meno di noi, viene meno l’autonomia pratica dell’uomo, e la sua responsabilità. Viene meno, in una parola, la politica, nel senso ovviamente più ampio del termine. E’ lo stesso Giglioli, nella penultima pagina, come fosse un romanzo a chiave, a dirci che narrativa di genere e autofinzione “sono il parto gemellare di un difetto di politica”. In un mondo senza traumi e senza politica, come rispondiamo? Immaginando traumi, che ricorrono di continuo nell’immaginario collettivo, nel linguaggio comune, e nella letteratura. “Non vivendo traumi li immaginiamo ovunque”, scrive Giglioli. Di qui “la scrittura dell’estremo”, dove l’estremo è l’unico punto di fuga che si sa intravedere nell’assenza di mondo, quel “Reale” lacaniano che resiste a ogni tentativo di simbolizzazione, letteralmente impossibile. Dunque la predilezione per la violenza, il sangue, la morte, l’effrazione insomma, che dilagano nel genere e nell’autofinzione. Due modi di combattere la rappresentazione che ha requisito il mondo con le sue stesse armi. Il genere, da una parte, con la semplicità monologica della sua lingua da cui è bandita ogni ambiguità (non più la lingua in quanto luogo eminente, com’era per la grande narrativa novecentesca: oggi piuttosto la distinzione tra chi scrive bene e chi scrive male “tende a perdere pregnanza”), la subalternità alla pop culture (prestiti intertestuali, intermedialità), le controstorie e il complottismo universale, la paranoia come segno estremo di impotenza (Giglioli si concentra su De Cataldo, per esempio, sulla sua ideologia intrinsecamente reazionaria, ché leggere la storia d’Italia come un’ininterrotta guerra per bande significa ridurre a nulla un concetto fondamentale della nostra modernità, quello di individuo autonomo e responsabile). L’autofinzione, dall’altra parte, in cui si rileva “un rapporto con la realtà in cui il soggetto più parla di sé e più sembra farsi da parte a stilare il verbale della sua marginalità, della sua impotenza, della sua inesistenza.” E sotto il segno di questo “eccesso di Io” si succedono lucidissime letture delle opere di Saviano e Moresco (due casi esemplari di “macchina mitologica vittimaria”, posto che la vittima è il più grande vettore di strutturazione identitaria dell’epoca presente, come Giglioli crede analogamente ad Alain Badiou), Babsi Jones, Emanuele Trevi, Walter Siti, Francesco Pecoraro, Aldo Nove, Giuseppe Genna. La scrittura dell’estremo, dunque, “ci mostra quale sia il terreno su cui poggiamo il piede. Il piede sinistro, quello debole. Ora si tratta di decidere dove mettere l’altro.” E forse questo è il giudizio di valore decisivo.

(una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su l’Unità il 15-7-2011)

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7 Commenti

  1. Mi permetto una piccola integrazione alla recensione di Rovelli: tra le lucidissime letture offerte da Daniele Giglioli ci sono anche i due romanzi di di Helena Janeczeck.

  2. Il trauma è il rompere della vita, la frattura, l’impossibilità di fare incontrare presente e passato- o piuttosto il rischio è di stagnare nel passato- di vivere nel cuore della scrittura come fuggitivo della sua propria vita o come eterno ragazzo tornato verso la città mitica dell’infanzia, quando tutto era ancora
    innocente, limpido, chiaro.

    Il trauma è una brutale frattura dell’identità.

    La scrittura permette di ritrovare una parola che dà l’impressione di vivere, di essere. Il trauma crea impressione di morte, mentre la scrittura è un faro, ricompone il corpo o la mente in frammenti.
    Non credo che la scrittura del trauma sia “l’eccesso di io”,
    invece è un’ esperienza colletiva della frattura, un condividere della parola: la scittuara come salvezza di fronte al dolore muto.
    E’ un esempio di coraggio, ampio.

  3. Il saggio è molto interessante tuttavia ho alcune perplessità intorno alla questione del trauma. Chi non ha attraversato grandi guerre o gravi catastrofi collettive, concordiamo su questo, non è detto che sia sfuggito a qualche forma di trauma. Inoltre anche vi avesse partecipato, non necessariamente i traumatizzati sono bravi scrittori, anzi, proprio perché un fatto resta inenarrabile, inconcepibile per il soggetto, questi spesso non ne può parlare. Ciò che non si elabora, si riproduce, quindi un traumatizzato potrebbe risultare perfino troppo pesante alla lettura, infliggendo traumi agli altri. Il pubblico sì, o una sua parte, può desiderare di vivere traumi per interposta persona, come al cinema. Ma desidera appunto traumi ben dosati e controllati dagli artefici di molti romanzi noir e gialli. Quindi forse è più il pubblico che desidera veder scorrere il sangue, anche se finto; non l’autore che desidera essere ferito. Una volta c’erano le pubbliche esecuzioni ora c’è il cinema e qualche genere di romanzo. Voyeurismo, sadismo, cose sempre attuali. Quanto all’autore, come osserva Giglioli stesso, risulta spesso impegnato a fare un buon lavoro, a fare un lavoro ben fatto che non scontenti nessuno e, pur mostrando i morti ammazzati e anche di più, non scada nel cattivo gusto. Il pubblico desidera essere traumatizzato “per finta”, mentre l’autore non può desiderare di esserlo per davvero! Nessuno può invocare su di sé qualche terribile disgrazia, e se è tanto masochista per farlo non ha certo bisogno di una guerra per andare incontro a brutte esperienze. Non può esserci insomma il trauma-dell’assenza-di-trauma, perché se io non ho perso una gamba in un incendio, non per questo sento la mancanza di quel tipo di esperienza. Ognuno ha le sue esperienze e capita che uno scrittore sappia trasformarle in una forma interessante, pur non parlando di cose cruente, o che abbia elaborato talmente quelle traumatiche da trasformarle e non ripeterle ossessivamente. Ripeto, mi pare più un’esigenza del pubblico cinematografico, quella del “trauma”, che alcuni autori si sentono chiamati a soddisfare.
    Quanto all’esigenza di politica, mi pare un’altra cosa dall’esigenza del “trauma”. Innanzitutto fa appello al dinamismo e alla reattività piuttosto che alla passività, inoltre alla ragione più che al bisogno di emozioni.
    Probabilmente questo commento è troppo precipitoso e confuso. Devo rifletterci io per prima.

  4. Non concordo il punto di vista di Roberta Saldi. E’ vero; gli scrittori che hanno vissuto traumi non hanno propio la parola per dire il vuoto, la linea di fratura. C’è una soglia di impossibilità. Non è scrivere sul trauma la parte interessante , è piuttosto l’urto della parola contro la ferita, la ricerca di svelare una parola rotta.
    Credo anche nella felicità della scrittura. Non si puo essere prigioniero di un trauma. Uno scrittore poco talentuoso si chiude nel trauma, non ha uscita, perché la sua immaginazione rimane in questa stanza. Credo che la scrittura, quando si ispira dal trauma per creare un mondo immenso, ha il potere di portare lo scrittore nella felicità. La scrittura trasforma la vita, inventa un altro domani.

  5. Mi sa dire Veronique qual è il mio punto di vista? Non credo di averne espresso uno in modo ampio e dettagliato. Mi sono limitata ad accennare qualche dubbio sul termine “trauma”, termine oggi chiamato in causa spesso, come cita DG nella bibliografia (forse anche questo amore per questa parola è un segno dei tempi), ma per esempio abbandonato da Freud fin dall’inizio dei suoi studi sulle nevrosi. Secondo il padre della psicanalisi noi non siamo nevrotici e psicotici per un qualche trauma subito, ma per natura; perché l’uomo è un animale dalla lunga infanzia, perché una tappa ineliminabile della crescita è il complesso d’Edipo, perché siamo profondamente repressi o, per dirlo in maniera più moderna, divisi. Non essendo poi così importante un trauma, ne consegue che nemmeno si può sentirne la mancanza quando non si produce, ammesso che si possa desiderare qualcosa che non si conosce. L’esperienza è un’altra cosa. Al termine “esperienza” attribuisco personalmente molto più valore. Non so se esistono persone prive di esperienze. Mi viene da pensare che il lavoro, per esempio, sia una forte esperienza, soprattutto se protratto per molto tempo e se esteso per molte ore della giornata. Ecco, forse una persona che non ha mai lavorato è priva di un’esperienza fondamentale nella nostra epoca. Ma ne avrà delle altre magari altrettanto significative.
    (Quello che dico, soprattutto nei rapidi commenti qui o altrove, naturalmente può essere sbagliato, sbagliatissimo. Rivendico il diritto umano di sbagliare, anche perché l’intenzione vorrebbe essere dialogante, comunicativa e non aggressiva.)

  6. Roberta, ho frainteso. Avevo capito dal commento che i libri nati da un trauma erano di poco valore letterario. Mi è sembrato che il trauma sia sempre collegato a una scrittura della guarigione ( dal tuo commento) e dunque finalmente attraendo lettori che fissano la loro curiosità sulla vittima, la ferita, lasciando dietro la vitalità della scrittura.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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