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[mai] più soli

di Chiara Valerio

[Questa è la recensione che ho fatto tanti anni fa a Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Ero molto più giovane e i libri ancora mi sembravano formule magiche. Mi è capitato pochi mesi fa di rileggere Trilogia della città di K. e ancora adesso m’è sembrato un grimorio. E questo]

C’è una città di frontiera in una Europa di guerra e due bambini che parlano con una voce sola e solo col tono sottile intransigente e privo di pregiudizi della curiosità fanciulla. Quella che spinge a spalancare gli occhi sul sole. Lucas e Claus si confondono fin dal nome, si mischiano, incantano con la loro bellezza nella quale tutte le crudeltà le incongruenze bizzarre, gli appetiti sessuali della gente che vive di espedienti, si risolvono miracolosamente e senza giudizi etici. Nulla è disdicevole. Trilogia della città di K. di Agota Kristof è un libro  immorale. Non leggetelo se avete sentimenti che non potete dire vostri con assoluta sicumera. Ve li strapperebbe. Se fossero indotti da una qualche sociologia li estirperebbe lasciandovi senza sangue. È un libro immorale. Non ci sono le sfumature delle indecisioni, delle incertezze, mancano le consolazioni della fede e della letteratura, le persone non sono tetragone, non buone infinitamente buone o reiette definitivamente reiette. Stanno nel mezzo ma senza nessuna virtù. Si adagiano vuote di ragioni superiori, sopravvivono, si barcamenano. Claus e Lucas crescono uno e la loro separazione è l’aborto di una figura mitica con due teste e quattro gambe. Perfettamente stabile. E autosufficiente. La struttura della trilogia pure si sbilancia. Il grande quaderno, raccolta delle avventure nel paradiso terrestre dei due gemelli gemma in La prova e La terza menzogna che sono le cronache visionarie della vita dell’uno senza l’altro. Lucas è rimasto Claus partito, Lucas scrive ogni giorno sul quaderno affinché Claus al ritorno possa riconoscersi. Sembrano uomini fatti questi due personaggi che per due terzi del libro non arrivano a ventitré anni. Non hanno la barba ma il loro volto è ugualmente ombreggiato dalla maschera nera della disumanità degli uomini, dall’esattezza spavalda nell’intuire e spiare i desideri degli altri e dall’incredibile cameratismo con chi sta ai margini di qualsiasi certezza. Di qualsiasi punto fermo. Lo lecca, lo cavalca o ci piscia sopra. Lucas e Claus. Così. Esercizio di immobilità. Agota Kristof ha la scrittura scarna livida e tagliente della prosa senza aggettivi, priva di subordinate, con pochi cadenzati segni di interpunzione. Io che non so leggere la musica ho trovato ipnotica la successione di punti virgole trattini e una volta finito mi sono chiesta come ho fatto a stare senza. Duro e commovente.


A. Kristof, Trilogia della città di K. [1987], Einaudi Super ET (2005), pp. 384, € 10,50.


Agota Kristof

Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchatel, 27 Luglio 2011.

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7 Commenti

  1. «Claus scioglie il cordino con cui è legato il suo vecchi cappotto. Posa cinque quaderni sul tavolo. Peter li apre uno dopo l’altro: – Sono veramente curioso di sapere che cosa contengono questi quaderni. È una specie di diario?
    Claus dice:
    – No, sono delle menzogne.
    – Delle menzogne?
    – Sì, delle cose inventate. Delle storie che non sono vere, ma che potrebbero esserlo».
    (Agota Kristof, Trilogia della città di K.)

    Questo diceva la Kristof della sua scrittura:
    «So bene che i miei libri disorientano i lettori, non sono libri consolatori».
    «Non mi piacciono gli aggettivi, non amo le belle frasi poetiche: ho deciso di scrivere senza sentimenti».

    Ecco, mi piace ricordarla così. Con le sue parole asciutte la cui antiretorica coincideva con un’etica e una visione della vita.


  2.  

    Anche quando scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Le mie prime cose in francese, quelle per il teatro, erano scritte in una lingua normale, quotidiana. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere lo stile di un libro scritto da dei bambini , anche se un po’ speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari com’eravamo io e mio fratello. Per la verità chi mi ha messo definitivamente sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io l’osservavo molto scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio figlio.

  3. Cara piccola insetta
    che chiamavano kappa non so perché
    stasera quasi al buio
    mentre sfoglierò la Trilogia
    ricomparirai accanto a me
    ma non avrai occhiali
    non potrai vedermi
    né potrò io senza quel luccichìo
    conoscere te nell’oscuro foschìo.

  4. ho letto solo la trilogia: un capolavoro.
    ho letto una sua dichiarazione: “non leggo nulla, non leggo libri. mi interessa scrivere senza leggere nessuno”. spero che questa dichiarazione sia falsa oppure provocatoria. oppure rilasciata in un momento di grande sofferenza, in quanto lei era da tempo molto ma molto malata. comunque, di ciò che fu, chissenefrega. lessi la trilogia e dissi “oh cazzo!”. per me è questa la recensione autarchica che conta. e la feci anche dopo aver letto shakespeare.

  5. Bello: l’omaggio dedicato allo stile di Agota Kristof. Uno stile collegato alla narrazione: una matiera bruta: guerra, sessualità, violenza. Lo stile
    urta la solitudine. La punteggiatura – punti virgoli, trattini – non ferma la narrazione, l’idea, la sensazione traccia un percorso. E’ una tratto dell’infanzia: raccontare senza censura. La scrittura di Agota Kristof è una forma di scoperta della vita, un contatto fisico con la melma, la natura: impadronarsi del mondo con la scrittura: i libri ovviamente.

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