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di Helena Janeczek

Si scrive “default”, si legge “fallimento”. E’ quanto è stato appena evitato, ma per le borse il re è rimasto nudo nell’equazione elementare Stato = debito statale. La bancarotta degli Stati Uniti: apparsa all’orizzonte con l’ineluttabilità delle notizie che tocca dare, quasi un sogno di mezz’estate che all’ultimo istante deve svanire come il vascello di Pirati dei Caraibi. Invece non è un sortilegio malefico, una chimera da scrollarsi di dosso con un ”non è successo niente”. Stiamo pagando, abbiamo già pagato, pagheremo ancora, anche per quel che è accaduto tra il Congresso e il governo USA. Il presidente Obama ha calato le brache. Questa è la sintesi di quanto hanno scritto i giornali americani. Tutti tagli, non un centesimo in più di tasse, per tirare avanti senza soluzione e senza prospettive di ripresa economica. Per una volta, non siamo tacitabili di sbruffoneria mediterranea, se affermiamo che siamo uguali agli Stati Uniti. Il “New York Times” commenta lapidario: “quest’episodio dimostra l’efficacia dell’estorsione” – altro termine fin troppo familiare. Bastano un tot di quelli che vogliono restare padroni in casa propria, a Monza come nel Minnesota, e il capo della superpotenza democratica finisce per cedere quasi su tutto. Esercitano un potere capace di ricatto, la destra più estrema con il suo elettorato effettivo e potenziale, i media, le agenzie di rating, le istituzioni economiche sovranazionali, le borse. Se vuole farsi avanti qualcun altro, basta guardare al nostro paese, c’è ancora spazio. Intanto, per l’impossibilità provata di governare in modo sovrano, i mercati finanziari, origine del disastro, restano l’unico mistero oracolare da cui tutti pendiamo. Forse, a questo punto, ci sentiremmo più sicuri sulla nave di Capitan Barbossa che non esiste.

pubblicato su L’Unità, 2 agosto 2011

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22 Commenti

  1. E allora perché non prendere atto – finalmente! – che è il “sistema” che va cambiato, non questo o quel governo? Perché non dirsi, così, molto semplicemente, che l’alternativa non è tra questo o quel partito, ma tra la barbarie e il … Il … Ops! … Il computer mi censura la parola … Chissà, forse quella parola, quella soluzione che manca dall’orizzonte politico, proprio perché radicale, potrebbe permetterci, riportandola in auge, di politicizzare la crisi, chissà … Le risposte che gli Stati – che ogni Stato! – sta dando alla crisi sono di “classe” … E se ricominciassimo a pensare come una “classe” anche noi? O la sinistra recupera se stessa in quanto rappresentanza dei “senza proprietà”, o il default sarà totale: socialismo o barbarie, appunto ….

    NeGa

  2. Gli speculatori dovrebbero finire davanti un giudice e subito dopo in galera…non solo per attaccare le economie della Grecia (dove c’è un 40% più di suicidi che prima dell’inizio della crisi…), Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia eppure il Belgio…ma anche perché sono loro i responsabili delle speculazioni nei prezzi del cibo…a questo punto…ne parliamo dei morti in Somalia? sì…c’è la siccità…ma loro approffitano come avvoltoi felici della morte di altri…

  3. il ragionamento potrebbe essere rigirato: la borsa non ha mai creduto a una default americano perché trattavasi non di default de facto, come quello greco, ma di default tecnico, sùbito contenuto alzando l’asticella del debito, e per questo abbiamo in questi giorni le borse in picchiata, perché l’attuale malessere dei mercati finanziari è da ricercare nell’economia reale. e non dimentichiamoci che non è avvenuta ancora la detossificazione dai cosiddetti titoli tossici. che tutto sia stato sfruttato dalla destra america, rientra nella dialettica politica del quid pro quo cui obama ha dovuto sottostare, e ricade anche, come dice Helena, nel tentativo mai esausto dell’attuale politica di usare lo spauracchio del debito o, appunto, del fallimento per contenere o diminuire le spese sociali.

  4. Da come si è configurato l’assetto del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti sono giunti ad essere l’unico paese detentore del monopolio. Gli altri paesi sono stati costretti a un ruolo in subordine. E siccome l’esigenza fondamentale del Capitale è sempre, e per tutti i capitalisti o paesi, la differenza positiva tra il capitale anticipato e quello ricavato, per i paesi in posizione subordinata è giocoforza fare di necessità virtù: se non si può lottare contro gli Stati Uniti per spartirsi il mondo come ai vecchi tempi, invece di esportare nelle colonie merci e capitali per un plusvalore di ritorno, e magari materie prime, si esportano merci e capitali direttamente negli Stati Uniti.

    È un meccanismo perverso che genera una pericolosa situazione: per la prima volta nella storia s’inverte il flusso di capitali fra il paese dominante e i suoi subordinati senza che questi possano aspirare a un ricambio nella leadership. Pur non rinunciando del tutto alla penetrazione in proprio nelle varie aree del mondo, i paesi subordinati lottano fra di loro proprio per questo, ma nessuno di essi può rinunciare, seppure a pagamento, a quella grassissima vacca da mungere che è il mercato americano. Ciò spiega almeno in parte la facilità con cui gli Stati Uniti balcanizzano gli altri e rinsaldano il proprio fronte interno, predicano per gli altri la deregolazione liberistica e si rivelano addirittura sovietici nel controllo interno e internazionale dell’economia, accendono guerre in proprio e ottengono l’aiuto da altri paesi, addirittura da quelli che hanno da perdere di più in termini di “sovranità nazionale”, come ad esempio nel caso delle coalizioni per le due Guerre del Golfo e per l’Afghanistan.

    In una tale situazione, l’enorme forza dispiegata dagli Stati Uniti diventa la loro principale debolezza. Al di là del “declino dell’impero americano”, reale ma sbandierato un po’ troppo frettolosamente da varie fonti, la questione del futuro rapporto tra gli stati va vista non in termini assoluti ma in relazione alla dinamica del sistema attuale, in un certo senso inedita. Se infatti la struttura è sempre la stessa, e così è, le relazioni fra i paesi sono cambiate. Gli avversari di un tempo, i “briganti che si spartivano il mondo”, non si sono affatto coalizzati in un cartello imperialistico mondiale, ma sono diventati complementari, e questo non era previsto se non nei modi descritti da Marx nei suoi articoli sul commercio britannico (il paese imperialista era costretto a finanziare i propri concorrenti).

    Ciò comporta alcune difficoltà nel valutare il possibile esito di un accresciuto contrasto fra paesi che rimangono concorrenti ma legati l’uno all’altro da una situazione di complementarità che li ingessa. Vediamo ad esempio la Cina, costretta a finanziare il deficit americano, proprio come i creditori finanziano il debitore insolvente nella speranza di non perdere tutto con il suo fallimento. In un contesto del genere, nel momento in cui il capitalismo mondiale mostra di avere un urgente bisogno di uno sbocco bellico generalizzato, non è affatto chiaro come potrebbe configurarsi uno schieramento di guerra (cioè il formarsi di due blocchi contrapposti di alleanze). Non stiamo parlando di quali paesi si schiereranno o meno con quali altri, ma della possibilità stessa che si formino degli schieramenti come quelli della Prima o Seconda Guerra Mondiale.

    Un paese che dipende dal mondo come l’America non può fare guerra a un mondo che dipende dall’America per la propria salvezza. Deve succedere qualcosa. Devono rompersi – e per forza si romperanno – gli attuali fragili equilibri in modo che l’attuale massa di capitale fittizio che soffoca l’industria non sia più garantita dalla sicurezza di un plusvalore a venire. La contraddizione è enorme perché l’unica garanzia che questi equilibri non si rompano viene dagli Stati Uniti, ma essi, nello stesso tempo, avranno bisogno di guerra, quindi di rompere ogni vincolo risalente a un’epoca completamente diversa.

    A proposito di declino degli Stati Uniti è utile ricordare che è vero, questo paese produceva all’inizio degli anni ’50 circa la metà del PIL mondiale e oggi ne produce meno di un quarto, ma al momento è il solo in grado di fornire un futuro al capitalismo. Solo la potenza politico-militare americana può garantire la fiducia necessaria per mantenere in piedi il sistema mondiale del capitale fittizio. È vero che non si può tirare la corda in eterno, ma per ora è nell’ambiente del mondo “americano” che detto capitale trova le garanzie per accrescersi, ipotecare lavoro futuro, rapinare risorse alle popolazioni e al pianeta, subire senza scossoni sociali vaste cancellazioni per migliaia di miliardollari creati dal niente. È in questo mondo che, basandosi sull’ipotesi fasulla che il capitale totale sia garantito dal solo capitale reale (beh, le portaerei aiutano), “zone” di fermento del capitale fittizio hanno dato plusvalenze anche del 30-40%, come nel caso di alcuni fondi chiusi, attirando capitale reale da tutto il mondo. Come si diceva, una dinamica del genere non può essere eterna. Non si può drogare per sempre l’economia dell’intero pianeta e qualcosa deve esplodere.

    Ma è fin troppo facile immaginare gli effetti devastanti che deriverebbero/deriveranno da una eventuale perdita di controllo del sistema da parte degli Stati Uniti e dei paesi complementari, in primo luogo la Cina, seguita a ruota dal disunito insieme europeo. Tenendo presente la condizione di “sovranità zero” in cui si trova la maggior parte dei paesi del mondo, si scatenerebbe una reazione a catena planetaria. Per cui la forza/debolezza del maggior paese imperialista rappresenta un elemento di instabilità, un incubo che farà da sfondo a tutti i summit che saranno organizzati di qui a quando salterà definitivamente il capitalismo. E siccome l’imperialismo è la fase in cui il dominio del lavoro morto (capitale, immobili, beni durevoli prodotti da lavoro passato) giunge alla sua massima espressione, si può immaginare a quale pressione sarà sottoposto il proletariato e quindi l’umanità intera.

  5. @ diamonds: magari!

    @ dl: potresti spiegare alcune cose che hai scritto in modo più articolato? Fino a che punto la questione debito è una “finzione” funzionale, e perché alcune economie reali precoccupano più di altre?

  6. in questo articolo l’economista emiliano brancaccio affronta in modo critico la questione del debito su cui si fondano le politiche restrittive degli stati europei e dell’unione. Credo che helena ed altri potranno trovare alcuni chiarimenti.
    maria

    http://www.emilianobrancaccio.it/2011/07/06/il-vero-problema-e-il-deficit-commerciale-2/#more-2131
    Mercoledì 6 Luglio 2011

    Il Sole 24 Ore – 6 luglio 2011

    La stabilità dei conti nazionali, e più in generale il profilo di rischio finanziario dell’Italia e di tutta la zona euro, non dipendono solo e semplicemente dall’andamento dei disavanzi pubblici. Un ruolo almeno altrettanto importante, e forse decisivo, è giocato dall’andamento dei disavanzi verso l’estero, sia pubblici che privati.

    di Emiliano Brancaccio

    I differenziali tra i tassi d’interesse sui titoli tedeschi e quelli dell’Italia e degli altri paesi “periferici” dell’Unione monetaria europea continuano ad aumentare. E’ questo il sintomo più evidente di una crisi dell’unità europea che le politiche finora poste in essere non sembrano in grado di risolvere. Ma quali sono le cause delle attuali difficoltà della zona euro? L’opinione prevalente individua negli eccessi di indebitamento pubblico l’origine di tutti i mali. Paesi come la Grecia, caratterizzati da una elevata spesa pubblica rispetto alle entrate fiscali e quindi da ingenti disavanzi statali, starebbero mettendo in pericolo la tenuta dell’Unione monetaria. E’ noto che nel dibattito politico tale opinione non viene quasi mai criticata. Nel campo dell’analisi economica, invece, crescono i dubbi intorno alla sua validità. Già ai primordi della moneta unica alcuni economisti eterodossi avevano avanzato il sospetto che il vero tallone d’Achille dell’euro potesse risiedere non tanto nella crescita dei debiti pubblici quanto piuttosto nell’accumulo di debiti verso l’estero, sia pubblici che privati, da parte di alcuni paesi membri, e di corrispondenti crediti verso l’estero da parte di altri. I dati sembrano in effetti avere più volte confermato questa tesi alternativa. Per giunta, dopo la grande recessione mondiale, la sensibilità degli spreads all’andamento dei disavanzi esteri pare essersi addirittura accentuata. L’attenzione verso gli squilibri nei conti con l’estero è dunque cresciuta, anche tra gli esponenti della cosiddetta ortodossia economica. L’economista tedesco Daniel Gros, per esempio, ha fatto notare che tra l’andamento dei conti esteri dei paesi membri dell’Unione nel periodo 2007-2009 e gli spreads del febbraio 2011 esiste una correlazione elevata.

    In effetti, a pensarci bene, sono numerose le ragioni per cui il rischio di insolvenza può essere associato più facilmente all’accumulo di debiti verso l’estero che alla crescita del solo debito pubblico. Gros per esempio fa notare che se il debito pubblico è in prevalenza nelle mani dei residenti, il governo potrebbe costringerli a pagare una imposta per coprire il pagamento delle cedole che essi si attendono dal possesso dei titoli. Applicata anche solo parzialmente, questa ricetta può in effetti tutelare uno stato dal rischio di insolvenza. Essa tuttavia non è praticabile qualora il debito sia nelle mani di possessori stranieri, i quali non ricadono sotto la giurisdizione fiscale dello stato di cui sono creditori. Uno stato indebitato verso l’estero dispone dunque di una possibilità in meno per coprire i pagamenti dovuti, e risulta quindi maggiormente esposto all’eventualità del fallimento. Ma vi sono spiegazioni anche più profonde della maggiore rischiosità dell’indebitamento estero. Ad esempio, è importante notare che un paese tende al deficit commerciale verso l’estero quando vende poco agli altri paesi e compra molto da essi. Il disavanzo con l’estero può quindi esser visto come una spia della scarsa competitività del sistema produttivo nazionale. Oltre un certo limite, allora, la crescita dei debiti esteri potrebbe costringere le autorità del paese in questione ad abbandonare la moneta unica e ad effettuare una svalutazione per recuperare margini di competitività. Per quanto improbabile, questa eventualità induce i creditori a chiedere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro il rischio che in futuro si verifichi un deprezzamento della valuta nazionale, e che questo sia accompagnato da una riduzione del valore dei titoli di cui sono in possesso. Ancora una volta, al debito estero, pubblico e privato, si attribuisce la maggiore rischiosità.

    Il dibattito di politica economica di questi anni, europeo e nazionale, sembra dunque essersi soffermato troppo sui pericoli derivanti dall’indebitamento pubblico mentre pare aver trascurato le minacce provenienti dagli squilibri nei conti esteri, e in particolare nei rapporti di debito e credito tra i paesi membri dell’Unione monetaria. Ciò è tanto più grave se si considera che nel corso dell’ultimo decennio gli squilibri commerciali tra i paesi della zona euro hanno raggiunto dimensioni senza precedenti, e non si sono quasi per nulla attenuati dopo la grande recessione. In particolare, nonostante una crescita del reddito modestissima, nel 2010 l’Italia ha fatto registrare un deficit verso l’estero in rapporto al Pil del 4,2%; la Spagna del 4,5%, il Portogallo del 9,8%, la Grecia dell’11,8%. Di contro, la Germania ha conseguito un surplus verso l’estero del 5,1%. Le politiche economiche, nazionali ed europee, dovrebbero iniziare ad affrontare questo problema, più grave e logicamente prioritario rispetto al tema della stabilità dei soli conti pubblici.

  7. L’oscena maschera funeraria che guida la baracca ha appena finito di dire che siamo uno dei paesi più ricchi e prosperi del mondo. Il lecchino di turno in camicia verde e vuoto pneumatico all’altezza dei capelli ha aggiunto che, se problemi economico-finanziari esistono, essi sono legati esclusivamente alle spese che sosteniamo per gli immigrati…

    Al posto di discutere, qui e altrove, dei massimi sistemi, quand’è che riempiamo le piazze una buona volta e li mandiamo definitivamente a farsi fottere?

  8. Malgrado il ragionamento di Brancaccio abbia una sua logica ed interesse, sarebbero numerose le obiezioni che ad esso potrebbero essere sollevate. Lo stesso potrebbe dirsi dello stimolante intervento dell’anonimo collettivo, anch’esso certo interessante, ma soggetto anch’esso a obiezioni varie.
    Secondo me, il punto cruciale sta nel fatto che la scienza economica non è nei fatti in grado di affrontare in maniera esauriente la presente situazione perchè banalmente i mercati finanziari si costruiscono da sè le proprie regole interne di funzionamento, ed allo stesso modo si danno da sè i criteri per giudicare la solvibilità dei soggetti implicati. In tal modo, la loro evoluzione è come un cantiere sempre aperto, incapace di fissare un quadro, fosse pure schematico, di riferimento.
    In verità, il problema non sembra risiedere nelle grandi società finaziarie che dominano il mondo, in quanto esse fanno semplicemente il loro mestiere, speculare risiede nella permanente pusillanimità di intere classi dirigenti degli stati che, senza battere ciglio, hanno di fatto accettato il sequestro della propria sovranità nazionale. Sia chiaro che per me neanche gli USA fanno eccezione.
    A me pare insomma che si sia di colpo attuato nel mondo una marginalizzazione della democrazia, ormai chiaramente divenuta un semplice e vuoto schema formale, perchè la politica è ormai divenuta essenzialmente politica economica, e proprio su questa materia è evidente che nessuno stato conta più nulla, prigioniero di obbedire ad una logica che viene dettata da un mercato finanziario che la fa e la disfa continuamente secondo una propria autonoma decisione.
    Gli stati i9n effetti avrebbero tutti i mezzi per intervenire, ma non lo fanno perchè ormai il tratto più distintivo delle democrazie è un certo atteggimento di compiacimento del proprio elettorato, visto che i rappresentanti vogliono ad ogni costo continuare a rappresentare, e perfino gli stessi semplici elettori sono prigionieri della paura di perdere quei meschini privilegi che credono di avere.
    C’è insomma in definitiva un problema culturale enorme che richiede necessariamente una rivoluzione culturale mondiale che nello stesso tempo richiede una dinamica veloce a causa dei noti vincoli ambientali che certo non aspettano noi.

  9. Mandarli definitivamente a casa o ai caraibi o a cagare, d’accordo. Ma il problema di capire i “massimi sistemi” secondo me non viene meno. Per questo mi avrebbe fatto piacere che chi sembra masticare qualcosa in più di economia, condividesse la sua analisi e la sua conoscenza con un linguaggio più capace di “parlare come si mangia” (o non si mangia più, appunto). C’è uno scollamento tra l’idioletto scientifico con cui comunicano gli economisti e il modo in cui l’economia ci investe tutti che avverto come assai problematico – e non innocente. Posso leggere e capire gli articoli qui postati e altri, ma non posso interpellare i loro autori con domande che mettano le loro analisi al confronto.
    Posso usare la mia testa e la mia formazione per cogliere come dei mercati si parla come di un’entità animata, guidata non da leggi razionali, ma da istinti, pulsioni, intuizioni, spinte immaginifiche, emozioni (i mercati “credono”, i mercati “hanno – o non hanno fiducia”, per esempio).
    Per cui, tornando all’esempio da qui siamo partiti, il default USA, penso possa in qualche modo aver contato, creando ricadute reali, non la minaccia reale del fallimento, ma la materializzazione del fantasma, il fatto stesso che fosse diventato amissibile raffigurare la bancarotta degli Stati Uniti. E proprio questo mi sembra davvero inquietante.

  10. dei personaggi ritratti nel quadro politico che ci sovvrasta(natura morta sotto cieli minacciosi)ciò che continua a turbare è l’assenza di spessore.Tra un’opposizione che fa gagliardamente il suo mestiere solo a telecamere rigorosamente accese,o similari,e una maggioranza che ha fatto dell’analfabetismo emotivo uno style life capace solo di compiere analisi talmente superficiali da far impallidire quelle di Magdi allam sull’islam,non c’è che da sentirsi orfani cresciuti in numerifici con l’unico cesso nel cortile perpetuamente ostruito e sperare che qualcuno un giorno riesca a ricostruire confidando nella virtù degli spiriti delle rovine

    http://mike.komanda.net/mp3/08%20-%20The%20Who%20-%20Baba%20O%20Reilly.mp3

  11. MI trovo costretto a riintervenire perchè un commentatore ha riportato articoli tipo quello di Bisin su “La stampa” che mi paiono del tutto fuorvianti.
    Il ragionamento di Bisin si svolge secondo la seguente logica.
    E’ vero, gli USA rischiano il default perchè non ci si è messi d’accordo, per motivi eminentemente elettorali, tra repubblicani e democratici. Visto che si tratta di schermaglie politiche, non si potrebbe trattare di un vero default.
    A dimostrazione di ciò, egli cita i bassi tassi sul debito USA rispetto a quelli sul debito greco.
    A parte il fatto che i tassi dipendono anche da scelte di politiche monetarie (se la Federal Reserve per asurdo domani portasse il tasso di sconto al 7%, i tassi sui titoli si adeguerebbero a questo livello) il punto essenziale è di tipo ideologico: per Bisin, il mercato e quindi anche i tassi e i valori azionari sono la realtà più vera, l’economia reale è solo una quisquilia, una pinzallacchera, direbbe Totò.
    Forse sarebbe utile ricordare che i termini dell’accordo che è stato trovato tra Parlamento e Casa Bianca, al contrario di quanto crede Bisin, sono le cose più importanti. Stabiliscono innazitutto che si taglia, determinando un drastico ridimensionamento dello stato sociale, non intaccano minimamente le grandio ricchezze, ancora sottratte a una tassazione adeguata, e infine fissano il limite di indebitamento.
    Questa è la vera economia, i tassi sui titoli USA sono il risultato non di un calcolo finanziario, ma essenzialmente politico. Come solvenza, gli USA stanno a zero, nessuna prospettiva che il debito possa essere colmato, ma piuttosto andrà ad incrementarsi. Però, l’unica superpotenza residua non può fallire, per gli enormi interessi coinvolti scoppierebbe un nuovo conflitto mondiale. Il risultato è che in questa economia globale abbiamo un problema irresolvibile e i soldi che gli speculatori non possono esigere dagli USA li chiedono al resto del mondo, ed in questo momento in primis ai paesi dell’area dell’euro.
    Il vero problema è il colossale debito USA, che in realtà ha molto a che fare con la bolla speculativa recentemente scoppiata, e più la crisi finanziaria danneggia l’economia, più essa si aggrava, e nessuno, credetemi, sa come uscirne.
    Per queste ragioni, io continuo a sostenere che bisogna uscire da questo circo senza speranza in cui faremo necessariamwente la parte delle vittime, uscire dall’euro, imporre una politica protezionistica, e costruire una economia compatibile con l’ambiente. Si può fare, anche l’Italia da sola ce la farebbe, ma certo sarebbe più facile se coionvolgesse più paesi. Restare soggetti ai capricci del mercato non si può.
    Su8 questo, l’analisi di Sechi è corretta, con 610 milioni di dollari di titoli in giro, contro un PIL di 61, non se ne può uscire4 se non uscendo dal mercato. Le varie ricette di Bersani o di Draghi non portano da nessuna parte, la fine sarà inevitabilmente l’uscita dall’euro dopo avere pagato un prezzo così alto da affossare un’intera generazione, ci vogliono scelte ben più drastiche.
    Naturlamente, sono certo che questi pusillanimi di politicanti non faranno nulla di tutto questo, e ci porteranno salla rovina dopo una lunga agonia.
    sU QUESTO, L’ANALISI DI bERLUSCONI, COME QUELLA DEL DIRETTORE DEL tEMPO è CORRETTA

  12. L’attacco ha avuto inizio a marzo 2010, quando 1 euro valeva 1,5 dollari, è proseguito mimetizzandosi con la crisi libica e del terremoto in Giappone, ha poi addentato il ventre molle dello scacchiere europeo, Grecia e Portogallo, (tipico scopo diversivo per nascondere l’obbiettivo primario, ma chi di voevre cominciava a intuire) e in agosto ha sfiorato l’Italia, che non può andare in default in virtù della sua solidità finanziaria ( strano ma è così), il cui timone è in mano a gente ricattabile e di impervia presentabilità. A questo punto il direttorio franco tedesco ha deciso di intervenire su una Roma annichilita (sia perchè indirettamente minacciato, il direttorio, sia perchè il salvataggio per pararsi il culo di un paese che rappresenta il 16% del pil europeo è inattuabile) di fatto commissariandone il governo. Questi gli antefatti, che visti nell’ottica giusti parlano di un obbiettivo che ha per nome il capitalismo renano con una forza d’urto di 100 bilioni di dollari. Ma qual è questo obbiettivo? semplice, il capitalismo renano e il suo prodotto più vistoso: l’euro (o il vecchio marco, fa lo stesso). Dico marco perchè la moneta unica fu l’estremo tentativo francese di ingabbiare il vitalismo tedesco degli inizi 90. Una sorta di camicia di forza per la Germania di Khol fresca tributaria verso i partner occidentali, Francia in primis ma anche Andreottilandia, della sua riunificazione. Khol fu costretto a far buon viso, ponendo però come pregiudiziale il travaso dei principi renani nella nuova formazione. Vale a dire: moneta forte, bassa inflazione ( i tedeschi il ricordo del biglietto del tram a 1 milione di marchi ce l’hanno nel dna) e conti pubblici a posto. Ora una moneta forte può apparire come antitetico a un progetto di sviluppo basato sull’interscambio con l’estero, ma non è così. Moneta forte significa anche e soprattutto captazione di capitali con i quali finanziare, ad esempio, il risanamento dei lander orientali. Durante il decennio passato questa politica ha costretto un’america impegnata in due guerre e indebolita da politiche economiche ultraliberiste a stampare moneta e a produrre debito. Situazione dichiarata insostenibile e in contrasto con l’etica dei diritti sociali dell’amministrazione Obama. Ora la grande speculazione internazionale, che poi è sempre di matrice americana, non guarda certo alle istanze dei deboli ed è sostanzialmente apolitica e metamorale. Ed e’ pura coincidenza di propositi opposti che dal 2010 viene a coincidere con i flebili sforzi dell’amministrazione democratica. Per dirla tutta, portare il dollaro alla parità con l’euro è considerato da tre o quattro possessori di hedge fund un affare da 40 biloni di dollari, ed è in vista di tael guadagnato che nel corso di una cena con pollo al limone a Manhattan sono stati messi in gioco quei 100. Che poi un dollaro tornato forte e di nuovo appetibile sia di enorme sollievo per la finanza federale ( e quindi per i programmi di riequilibrio sociale) è, come detto, una pura coincidenza.

  13. Sono appena tornata dalla Germania. E sono inciampata, ancora una volta, in un particolare. Nessun ipermercato aperto sulle strade per raggiungere l’aeroporto. Domenica i negozi sono chiusi, salvo alla stazione, all’aeroporto o quelli delle pompe di benzina. Eppure loro hanno non solo la tripla a, ma anche la crescita, l’offerta di lavoro. Non è solo per questo, ma il fatto che il paese con il welfare e gli ammortizzatori sociali più intatti, la tassazione più equa ecc. stia meglio, forse dovrebbe dire qualcosa a tutti quelli che non vedono altra uscita dalla crisi se non tagliare, tagliare, tagliare…

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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