Diario di un idiota sulla crisi economica

di Andrea Inglese

Una banale metafora per un soggetto idiota

Io sono un idiota, e un ignorante. Posso votare, certo, ma non devo osare pronunciarmi sulla politica economica del mio paese e tanto meno dell’Europa, di cui è parte il mio paese. Di politica economica io non posso parlare. Posso pronunciarmi, spericolatamente contro la privatizzazione dell’acqua, mettiamo. Anche se non ho un laurea in chimica o una formazione in gestione degli acquedotti. Ma se apro bocca sul capitalismo, mi si chiede imperativamente un master in macroeconomia. Dire che il capitalismo non funziona, per altro, non serve a niente. Sono i capitalisti più forsennati che, per primi, lo dicono. E se anche lo dicessi, non essendo io un capitalista forsennato, sembrerebbe che avanzassi, in modo puerile, un sembiante di critica. Ma è perfettamente inutile criticare il sistema capitalistico, perché per fare ciò bisognerebbe, nello stesso tempo, magari nella stessa frase critica, infilare una subordinata, che spieghi per filo e per segno quale sistema non capitalistico possa essere approntato, in alternativa (e con dovizia di dettagli). Per altri ancora, è ingenuo discutere sul sistema capitalistico e le sue idiozie: tutto è chiaro, e alla luce del giorno. Si attende solo, con un po’ d’impazienza, la rivoluzione mondiale sincronizzata.

Nonostante queste buoni ragioni di stare zitto, ho pensato che, se io riconosco preventivamente di essere un idiota, nessuno potrà biasimarmi se tengo un diario della mia idiozia. E così ho deciso di fare. Mettiamo che il mondo in cui io vivo sia davvero minacciato da una crisi economica che potrebbe, in un futuro non tanto lontano, produrre delle sofferenze sociali sempre maggiori e sempre più diffuse, tanto da travolgere anche me, cittadino qualunque, di uno paese in cui, ancora per un po’, sembra esistere una classe media, non definitivamente incarognita e dissestata, ma ancora capace di fare dibattiti intorno ai temi della tolleranza e della libertà di stampa. Insomma, se è lecita una metafora idiota quanto questo diario, io sono un topo ancora moderatamente allegro situato in qualche ala ancora moderatamente asciutta di un transatlantico, che comandante, ufficiali, direttori di macchine, ecc., ritengono un giorno sì un giorno no a rischio di speronamento iceberg. Ebbene, io voglio raccontare di questo topo, che invece di dedicarsi assiduamente alle partite di scala quaranta e alla competizione per giungere, tra i primi, all’apertura del ristorante (i pezzi migliori, se li pappano quelli che sono in testa alla coda), comincia a esplorare dubbioso la biblioteca degli ufficiali, in cui si trovano anche rotoli di carte navali, manuali di navigazione, ecc. Inoltre, è incuriosito da certe conversazioni, che si svolgono tra passeggeri, che pur non facendo parte dell’equipaggio, hanno avuto qualche esperienza di mare e di navigazione, e tali passeggeri, seppure considerati con noncuranza dalla massa degli imbarcati, esprimo dubbi e valutazioni molto critiche, quanto alla competenza dell’equipaggio, dagli ufficiali al capitano.

Fuor di metafora, mi piacerebbe cominciare a raccogliere, seppure per frammenti eterogenei, magari oscuri, per brevi citazioni, per titoli e nomi propri, per singoli vocaboli, una specie di materiale preparatorio, con l’illusione che esso non solo acquisti chiarezza concettuale, ma anche susciti qualche passione, solleciti la nostra capacità di immaginare, ossia di rendere concreto ciò che si disperde costantemente nei rivoli di un’analisi interminabile e astratta.

Protezionismo: un vocabolo tabù

Comincerò con l’evocare un vocabolo malfamato, all’interno dei discorsi anche più banali sull’economia. È un vocabolo tabù, eppure lo ritrovo sotto la penna di almeno quattro autori differenti, che difficilmente possono non essere definiti progressisti : Jacques Généreux, L’autre société. A la recherche du progrès humain (L’altra società. Alla ricerca di un progresso umano), Seuil 2009, Emmanuel Todd, Après la démocratie (Dopo la democrazia), Gallimard 2008, Noam Chomsky, Hopes and Prospects (Speranze e prospettive), Haymarket 2010, e Frédéric Lordon, La démondialisation et ses ennemies (La demondializzazione e i suoi nemici), “Le Monde diplomatique”, agosto 2011. Un vocabolo tabù a livello culturale si riconosce dal fatto che suscita uguale sconcerto in ascoltatori dalle opinioni antitetiche: il termine “protezionismo”, prima ancora di venir contestualizzato all’interno di una discussione, provoca riprovazione unanime da parte di un neoliberista convinto, di un democratico liberale moderato, di un marxista.

Così come questo termine malfamato mi è scivolato nell’orecchio, così vorrei che scivolasse in altre orecchie, così, senza che io debba esplicitarlo, difenderlo, sostenerlo attraverso un argomento: lo voglio solo evocare in modo dispettoso, attraverso citazioni succinte, parziali, enigmatiche come piccoli sbandieramenti silenziosi.

Gli ultimi due paragrafi dell’ultimo capitolo del libro di Jacques Généreux sono così articolati:

4-h Democrazia, protezionismo e internazionalismo

1- Il libero mercato è incompatibile con la democrazia

2- Un neoprotezionismo:

la reciproca protezione internazionale

4-i La democrazia fino in fondo

Il libro di Todd, si chiude con un paragrafo intitolato Il protezionismo, ultima occasione della democrazia europea.

Chomsky, in un passo del terzo capitolo, intitolato Il neoliberalismo contro lo sviluppo e la democrazia, cita Paul Bairoch, eminente storico dell’economia.

“Nel suo studio approfondito, Bairoch conclude: «È difficile trovare un altro esempio di tesi dominante che sia a tal punto contraddetta dai fatti che quella relativa all’impatto negativo del protezionismo».”

Dell’articolo di Landron, che consiglio vivamente di leggere, quando uscirà in italiano a metà del mese con “il manifesto”, cito un passaggio, che smonta, da sinistra, l’argomento contro il “protezionismo” basato sui pii desideri (come li definisce lui) dell’internazionalismo operaio.

“Si può ben constatare che il salariato cinese e il salariato francese si situano nel medesimo rapporto d’antagonismo di classe ognuno di fronte al “suo” capitale, resta il fatto che le strutture della mondializzazione economica li piazzano anche e oggettivamente in un rapporto d’antagonismo reciproco – contro il quale nessuna denegazione potrà un bel nulla. Il richiamo alla solidarietà di classe franco-cinese deriva da un universalismo astratto, che ignora i dati strutturali concreti e il loro potere di configurare dei conflitti oggettivi, ovvero deriva da tutto quello che Karl Marx rimproverava ai “giovani hegeliani di sinistra”: piuttosto che dare per scontato che delle “essenze” (l’“essenza” del salariato o l’“essenza” della lotta di classe) producano per virtù proprie degli improbabili effetti, sarebbe meglio preoccuparsi di rifare le strutture reali che determinano realmente i (molteplici) rapporti nei quali entrano i diversi gruppi sociali.”

La crisi affettiva

La crisi è effettiva. Non solo l’hanno detto le immagini degli impiegati di Lehman Brothers che riempivano i cartoni dei loro oggetti personali e sfilavano ai piedi del grattacielo in pieno giorno. Non solo l’hanno detto le rarissime immagini (ora già in via di cancellazione dalle menti) dei quartieri spopolati di Cleveland e altre metropoli statunitensi, con le case pignorate dalle agenzie di credito immobiliare, messe in vendita a meno del 50% del loro prezzo originario. Non solo l’hanno detto le immagini dei telegiornali, mostrando immagini di rivolta nelle piazze di diverse cittadine europee, in Grecia, in Gran Bretagna, in Spagna. La crisi è effettiva, lo ha detto anche il presidente degli Stati Uniti d’America. Eppure, ci ricorda Frédéric Lordon: la crisi non è (ancora) affettiva: la sua complessa articolazione reale è resa immediatamente solubile dalle agenzie dell’amnesia quotidiana, che tutto isolano, disgregano, livellano. Anche gli esperti più indipendenti, più critici nei confronti dell’ideologia dominante, non fanno che proporre analisi. Ma il concetto, ci ricorda Lordon nella postfazione di un suo recente libro, non ha di per sé forza, se non è portato dall’affetto. Se la verità non trova, non suscita la passione capace di muovere i corpi che la pensano, rimane inefficace. “Il capitalismo non resiste, forse, all’oltraggio abnorme della crisi presente, non si mantiene in piedi nell’inverosimile sprofondamento intellettuale e morale che dovrebbe inghiottirlo? Contro i vantaggi inerziali della dominazione, tutti i mezzi sono buoni, tutto va preso in considerazione, cinema, di finzione o documentaristico, letteratura, foto, fumetti, istallazioni, tutti i procedimenti vanno considerati per poter realizzare delle macchine produttrici di affetti.”

Così Lordon, economista spinoziano, come ama definirsi, in D’un retournement l’autre. Comédie sérieuse sur la crise financière. En quatres actes, et en alexandrins (Da un capovolgimento all’altro. Commedia seria sulla crisi finanziaria in quattro atti e in alessandrini), da cui questo passo è tratto.

(NB: Nei seminari pubblici sul neoliberismo, ricordati di convocare un mimo, un marionettista e un cantastorie.)

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17 Commenti

  1. grazie, davvero. proprio ieri cercavo qualche testo di argomento economico pubblicato da Andrea Inglese, rileggevo, spulciavo, molti gli spunti interessanti, ma non riuscivo a decidermi. forse stavo aspettando questo testo ancora prima che fosse

  2. Al protezionismo accennavo in commenti ad altri articoli su questo stesso sito.
    L’elemento che più vi si oppone non è l’opinione internazionalista di marxisti duri e puri, ma gli USA, il loro immane debito pubblico e soprattutto il loro cronico disavanzo commerciale con l’estero.
    Per questo, paradossalmente una scelta protezionistica, fatta da un paese quasi marginale come l’Italia sarebbe più agevole rispetto all’ipotesi di coinvolgervi una pluralità di paesi.
    Il punto però non sta tanto nel fissare determinate barriere doganali, ma l’economia che ne conseguirebbe, cioè il quadro complessivo economico che ne deriverebbe. Questa è la scelta più difficile.
    Non sottovalutiamo quanto l’invasione di merci cinesi (dico cinesi, ma intendo da paesi che producono a basso costo) abbia già influito sui costumi dei consumatori occidentali, ed italiani per quanto ci riguarda.
    Si è andato definendo un comportamento di acquirente che guarda innazitutto al prezzo, mettendo in secondo piano la qualità, ed in particolare la durata.
    Per ragioni anagrafiche, ricordo bene il tempo in cui il primo requisito di un capo di abbigliamento o di un oggetto per uso domestico era la durata. Paradossalmente, al crescere della ricchezza, era proprio la qualità, la capacità di durare degli oggetti che veniva a scemare.
    Protezionismo significa privilegiare la produzione interna, ed allora diventerebbe chiaro che non v’è un particolare vantaggio a tenere bassi i prezzi di acquisto dei beni.
    Se entriamo nella mentalità di volere un’economia rispettosa dell’ambiente, di volere un’economia a misura d’uomo e quindi tendenzialmente per la piena occupazione, allora che io paghi caro il contenuto lavorativo di un determinato oggetto, lungi dall’essere negativo, è una cosa lodevole.
    Ci vuole insomma un riordinamento generale dell’economia, vivere con meno oggetti, ma di ottima qualità, avere stipendi bassi, ma senza avere trentenni disoccupati.
    Come fa una nazione quasi del tutto priva di materie prime a sopravvivere col protezionismo? Vendendo quello che abbiamo, e che tra l’altro non possono toglierci, bellezze naturali, bellezze architettoniche ed artistiche, vendendo la nostra cultura gastronomica, mettendo su una struttura turistica sofisticata (e non a basso prezzo, la competitività è in assoluto una sciocchezza colossale).

  3. a vincenzo

    “Il punto però non sta tanto nel fissare determinate barriere doganali, ma l’economia che ne conseguirebbe, cioè il quadro complessivo economico che ne deriverebbe.”

    Certo, anche perché il problema è, ancor prima della libera circolazione delle merci, la libera circolazione di capitali, che rende i lavoratori cinesi oggi, e domani quelli africani, sfruttati dal capitalista occidentale o orientale di turno.
    Quanto al resto del tuo ragionamento, ricordo che la ri-localizzazione, che è uno dei cardini anche del pensiero della decrescita, esige anch’essa una riflessione sul protezionismo. Ma per quanto riguarda i paesei dell’Europa, avrebbe senso, secondo Todd e altri, su scala non nazionale, ma appunto europea.

  4. Questo articolo MI PIACE.

    Perché io mi sento proprio il cittadino idiota che se formula una protesta, se sente ribollire dentro un dissenso, può essere soffiato via come un peletto sulla spallina della giacca perché se mi mettono in mano un foglio del Sole24ore possono dirmi – E ora torna quando ci avrai capito almeno la metà di quel che leggi, altrimenti vai, accodati pure ai cortei da zona rossa, così sudate un poco di rabbia e ci allungate la vita, a noi che vivremo e lavoreremo sempre da un’altra parte e di sicuro alle spalle del vostro corteo. E quando dico noi non intendo degli invisibili massoni, dei complottisti mondiali, ma noi banchieri di cui qualche volta avrai sentito il nome a qualche telegiornale, noi governatori, noi top manager, noi che presi uno per uno siamo anche abbastanza squalliducci e che messi tutti insieme non facciamo paura a nessuno e non sembriamo neanche tanto intelligenti, noi, insomma, che tanto diversi da voi non siamo, ma che il potere di far approvare le nostre menate lo abbiano, noi che quando giochiamo e vinciamo, diventiamo più ricchi, e che quando perdiamo, rendiamo più poveri voi e scontenti noi, e pazienza, magari il premio di produzione in stock options ce lo daranno lo stesso. Noi che, se rischiamo, è solo per finta.

    Salvo questo articolo in una cartella personale e aspetto i prossimi.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  5. L’Europa, purtroppo è ben più che una mia personale opinione, non esiste. L’hanno affossato, dispiace dirlo, coloro che più ci tenevano e che hanno creduto che l’introduzione dell’euro avrebbe in qualche modo costretto a forme di maggiore unificazione politica, a partire da comuni regole fiscali.
    E’ fallita sullo statuto che c’è stato regalato dopo averlo pomposamente chiamato costituzione europea.
    Quell’Europa è proprio defunta ed irreversibilmente, e quando un progetto fallisce, rimangono i fantasmi del passato, di una lunga storia europea fatta di scontri anche bellici tra i differenti paesi.
    Se non si accetta e non si conviene che quel progetto è fallito, se si insiste sulla stessa strada, ben presto ogni nazione europea avrà il resto dei paesi europei come propri maggiori nemici.
    L’unico modo di salvare l’europa è accettare che bisogna ripartire da ben altre basi, come spesso accade le motivazioni di realismo, fare il possibile pur di fare qualcosa, finisce col provocare danni e non i vantaggi sperati.
    Una scelta europea coimune che suonerebbe palesemente come antiamericana, perchè, intendiamoci, così sarebbe, creerebbe tali e tante resistenze dall’essere a mio modesto parere del tutto improponibile. Solo se si conta poco, se non si influenzano i fragili e criminosi equilibri della finaza mondiale globalizzata, si può provare a sfilarsi. e lo si dovrebbe fare senza clamori per non innervosire i precarissimi ma potentissimi USA.

  6. perfetto.
    perfetto.
    sono felicissima di averlo letto.
    perfetto.
    ma finisce qui?
    il richiamo “diario” può farmi ben sperare che seguiranno altre pagine?

  7. Perché siamo muti davanti al mondo economico che crolla? Perché non ne capiamo niente, non ne sappiamo niente, non possiamo neanche parlarne, se non da (pseudo)idioti, come qui? (E in quel pseudo c’è tutto il limite di questo articolo). Perché “le azioni dell’esperienza sono cadute […] Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere” (W. Benjamin, “Il narratore”).

  8. @inglese

    La tua introduzione è molto azzeccata: per questo intendo rispondere cercando di evitare le cadute di stile da te menzionate e i tecnicismi gergali. Vorrei perciò articolare il mio intervento prima elencando una serie di conseguenze del protezionismo, per poi trarre delle valutazioni di giudizio complessive.

    1. Ritorsioni

    Uno degli effetti più immediati del protezionismo sono le ritorsioni introdotte dai partner commerciali: se A introduce dei dazi sulle importazioni da B, tipicamente B risponderà introducendo dei dazi sulle importazioni da A. Ciò significa che se io introduco dei dazi per cercare di proteggere un certo segmento produttivo in competizione sul mercato interno con beni o servizi di importazione, vado però a colpire i miei esportatori che si vedranno penalizzati sui mercati esteri da queste ritorsioni.

    In altre parole, per cercare di proteggere un settore debole dell’economia vado a danneggiare un settore forte. Dal punto di vista teorico si può discutere se sia un bene o un male (e magari lo faremo più in basso), ma nel caso dell’UE ciò significa in pratica andare a colpire gli esportatori tedeschi per proteggere i settori deboli di Francia, Italia e Spagna. Dal punto di vista politico, completamente improponibile — giusto per dare un’idea, il 40% delle esportazioni tedesche, pari a 384 miliardi, avvengono al di fuori dell’UE, con un attivo di circa 100 miliardi, sempre riferito a paesi extra UE.

    2. Propagazione lungo la catena dei fornitori

    Come esempio fittizio, supponiamo che per proteggere l’italo-francese STMicroelectronics vado ad esigere un dazio sulle importazioni dei chip prodotti dalla taiwanese TSCM. La tedesca Bosch, che prima adoperava i chip TSCM per produrre parti elettroniche per l’industria automobilistica, adesso si rifornisce presso STMicroelectronics, ad un prezzo che è sì inferiore al nuovo prezzo dei chip TSCM (che include il dazio), ma che è superiore al prezzo originale dei taiwanesi (se così non fosse, non sarebbe stato necessario introdurre il dazio in primo luogo). A fronte di costi maggiori, Bosch si trova ora indebolita nei confronti degli americani della Delphi, che invece possono continuare a rifornirsi presso i taiwanesi di TCSM. Quello che succede, cioè, è che per difendere un settore debole ho finito per colpire chi si deve rifornire in quel settore di mercato.

    Se fossi tentata ora di innalzare un balzello sui componenti per auto della Delphi, mi ritroverei di fronte ad un indebolimento dei produttori di automobili che si troverebbero a dover comprare centraline più costose.

    (Continua…)

  9. 2010 correva l’anno.
    La democrazia e l’entropia.
    La democrazia come prodotto a lunga scadenza, da consumarsi preferibilmente entro e non oltre un tempo sufficientemente virtuoso, poi si ricomincia da capo, si disarmano e, caso per caso cancellano i privilegi e tutti quei sedimenti dove le opportunità hanno creato feudi, caste e monopoli che non ridistribuisco opportunità e ricchezza, paralizzano il lavoro, la creatività e la crescita.
    Chi attiva la conseguente sintropia ? Forse è questo, con i massimi poteri, che il nostro testa di quiz,
    sig. Presidente del Consiglio ha voglia,sogna, di fare?

  10. a tutti,

    ringrazio per le risposte e le riflessioni: l’utilità di un diario idiota sull’economia, se ne esiste una, è quella di aprire uno spazio per legittimare pensieri che nascono, sull’economia, da dove ognuno è, costruiti con i materiali che uno ha, con le esperienze parziali di cui dispone, o magari con qualche competenza più specifica, che dovrà allora misurarsi con la lentezza di pensiero dell’idiota.

    A pensieri oziosi,

    intanto grazie anche a te, e spero tu continui, io pure tenterò di continuare…

    per ora provo a rispondere su una piccola articolazione del tuo ragionamento:

    “A fronte di costi maggiori, Bosch si trova ora indebolita nei confronti degli americani della Delphi, che invece possono continuare a rifornirsi presso i taiwanesi di TCSM.”
    Se Bosch compra i prodotti tedeschi o europei, significa che i settori deboli tedeschi e europei, da deboli diventano più forti, ossia producono di più, e quindi più impiego e più salario. Con questo più salario, il consumo torna a crescere, e gli stessi europei possono comprare bosch anche se più caro, e di conseguenza la produzione, in un giro virtuoso, cresce anch’essa. Quanto agli americani, essi da tempo non fanno che consumare sempre di più quello che altrove si produce, e quindi non possono che perpetrare ciò che fino ad oggi hanno fatto: indebitamento famigliare per continuare a comprare.

    Sul resto, provo a tornarci, pescando qualche rotellina degli autori che hanno infranto il tabù.

  11. Inglese si, però Bosh avrebbe problemi con le esportazioni estere che a questo punto diminuirebbero.

    a latere..

    certo è che se si adottassero politiche protezzioniste, la cina e il Giappone andrebbero verso un declino produttivo, che è comunque previsto. Ma questo significherebbe, tensioni sociali, emigrazione.. etc..

    .. no ?

    un idiota

  12. Che palle, il tempo di crisi.
    Si risvegliano sempre quelli che sanno tutto e ci devono dare lezioni, perché hanno la memoria corta.
    Vale la pena di ripetere la ragione dell’apertura dei mercati risiede proprio nella possibilità di migliorare l’efficienza e ridurre i costi, eliminando rendite di posizione?
    Fiato sprecato.

    Il capitalismo va in crisi? Via il capitalismo!
    La moneta unica crea tensioni? Via anche l’Euro!
    Il mercato globale sposta capitali e merci? E vai col protezionismo!
    Il controvalore della moneta basato sul PIL (e quindi sull’economia reale) e’ poco chiaro? E allora si torni alla parità aurea!

    E sempre più indietro…
    Facciamo che torniamo direttamente all’economia nomade ed al baratto e non se ne parla più. :-/

  13. Grazie Rio.
    Ora che ce lo ricordi tu, che tutto va bene, e questo sistema è impeccabile, perfettamente oliato, e sopratutto vantaggioso per tutti, possiamo davvero mettere gli autori eretici nelle caldaie, e goderci sul ponte il cozzo contro l’iceberg. Avanti tutta!

  14. @Rio
    Una semplice domandina: bene, l’apertura dei mercati, aumenta l’efficienza e riduce i costi, e questo perchè dovrebbe essere un bene? Sapresti dare una risposta chiara su questo?
    L’alternativa è che tale efficienza sia un valore in sè, ma allora si tratta di una nuova forma di idolatria.
    A me, di avere più oggetti non mi sembra un obiettivo augurabile, non mi convince, non credo che oggi si viva meglio che mezzo secolo fa.
    Interrogarsi sulle questioni fondamentali, dovrebbe venire spontaneo.
    Il problema non sono quelli che installano dubbi, ma coloro che pretendono il silenzio dall’alto delle loro incomprensibili certezze, non chi di fronte ad evidenze contrarie, risale a ritroso lungo la successione di scelte che c’hanno portato sin qui, e non chi resta graniticamente sulle proprie posizioni e quindi è costretto ad insistere sulla stessa cura come un medico ignorante che conduce il paziente alla morte a causa di una terapia errata.

  15. @inglese

    Se Bosch compra i prodotti tedeschi o europei, significa che i settori deboli tedeschi e europei, da deboli diventano più forti, ossia producono di più, e quindi più impiego e più salario.

    Sarebbe bello se fosse così. Da questo punto di vista il protezionismo agisce come un respiratore in un ospedale: dà all’industria protetta una boccata d’ossigeno, ma non è che ipso facto la guarisca dai suoi mali, cioè dalla sua scarsa competitività. Per la guarigione è necessario applicare cure ed apportare interventi. Se questi vengono a mancare, non c’è respiratore che tenga. Detto meglio, il protezionismo è utile soltanto se il tempo che ti consente di guadagnare viene utilizzato per apportare gli interventi necessari per rendere competitivo uno specifico settore. Ed infatti le uniche condizioni di applicazione accettate dagli economisti sono che il protezionismo sia su un settore di mercato specifico per una durata limitata nel tempo, mai per una copertura a tappeto, illimitata nel tempo. L’esempio tipico è quello di un’industria nascente:

    «Legitimating limited, time-bound protection of certain industries by countries in the early stages of industrialisation. However misguided the old model of blanket protection intended to nurture import substitute industries, it would be a mistake to go to the other extreme and deny developing countries the opportunity of actively nurturing the development of an industrial sector. A requirement for international approval of such protection could be a help to the governments of developing countries in resisting excessive demands from their domestic lobbies (and from multinationals considering local investment).» Dal “Technical Report of the High-level Panel on Financing for Development”, ONU 2001.

    Questo è un tema che volevo originariamente affrontare più sotto. Il punto delle mie osservazioni sopra (1) e (2) è che ad ogni modo gli eventuali effetti benefici del protezionismo su settori deboli (che come abbiamo detto vanno comunque accompagnati con l’applicazione di misure aggiuntive) non sono gratis. Li vai a pagare con un indebolimento di esportatori e di chi sui mercati protetti si deve andare a fornire.

    In realtà il grosso problema è che anche sul settore stesso che si vorrebbe proteggere ci potrebbero essere degli effetti diretti negativi:

    3. Rischio di atrofia, o di ulteriore perdita di competitività.

    Ritorando al nostro esempio fittizio di cui sopra, mentre l’Europa protegge STMicrolectronic, TSCM non sta ferma: la competizione con i coreani di Samsung ed i giapponesi di Toshiba, li porta a migliorare il loro chip che veniva utilizzato da Bosch. Ora il rischio che corre STMicrolectronics è di confrontarsi con dei chip di TSCM che sì costano di più per via dei dazi, ma che sono anche di qualità migliore, e Bosch potrebbe decidere che tale qualità valga il prezzo maggiorato, e che decida di rifornirsi di nuovo da TSCM.

    Prosegue Inglese: Con questo più salario, il consumo torna a crescere, e gli stessi europei possono comprare bosch anche se più caro, e di conseguenza la produzione, in un giro virtuoso, cresce anch’essa.

    Meriterebbe un discorso un po’ più articolato, ma è già tardi. Per il momento ed in poche parole: non è detto che ci sia salario in più, che anche se ci fosse subito dopo l’introduzione del protezionismo non è detto che ci resti, ed infine anche ammesso che possano non è detto che lo facciano.

    Quanto agli americani, essi da tempo non fanno che consumare sempre di più quello che altrove si produce, e quindi non possono che perpetrare ciò che fino ad oggi hanno fatto: indebitamento famigliare per continuare a comprare.

    Non c’è nulla di meglio che guardare ai problemi degli altri per rincuorarsi, eh? Poca attinenza diretta però al discorso che si faceva.

    (continua…)

  16. Riprendiamo l’osservazione di Inglese: Con questo più salario, il consumo torna a crescere, e gli stessi europei possono comprare bosch anche se più caro, e di conseguenza la produzione, in un giro virtuoso, cresce anch’essa.

    Nel commento precedente l’ho liquidata un po’ sbrigativamente. Vediamo un po’ più in dettaglio le debolezze dei vari passaggi logici.

    (a) Con questo più salario. I benefici derivati dal proteggere un’industria da chi vengono catturati? Dagli azionisti, dal management, dallo stato o dai lavoratori? Dagli azionisti in forma di dividendi e capital gain, dal management in forma di bonus, dallo stato in forma di imposte o dai lavoratori in forma di aumenti salariali? La risposta, tipica degli economisti, è: dipende. Di solito è una combinazione di quanto sopra, ma quel che mi preme far presente è che non è detto che ad un aumento dei profitti di un’industria (in questo caso generato non da una maggiore competitività, ma dal protezionismo) generi un aumento della forza lavoro in quella specifica industria: ad esempio il management potrebbe decidere di reinvestire i profitti in nuovi macchinari che aumentino l’efficienza della forza lavoro, portando quindi a ridondanze e quindi ad una riduzione del totale del reddito disponibile per i lavoratori nel settore.

    (b) il consumo torna a crescere. Di nuovo, dipende: l’aumento del reddito disponibile si distribuisce in risparmio e consumo, la porzione tra i due è in funzione delle condizioni macroeconomiche del sistema.

    (c) e gli stessi europei possono comprare bosch Di nuovo, dipende: la variazione percentuale della domanda in risposta alla variazione percenctuale del livello del reddito viene chiamata dagli economisti ‘income elasticity of demand’ (non so il termine tecnico in italiano: immagino elasticità sul reddito della domanda). La pagina di wikipedia in inglese riporta come esempio il caso della margarina negli Stati Uniti: all’aumentare del reddito la domanda di margarina cala — la gente le preferisce il più caro burro. Ne consegue che i produttori di margarina soffrono un aumento del livelli del reddito.

    ***

    Non abbiamo ancora toccato altri argomenti contro il protezionismo, quali vantaggio competitivo e l’insorgenza del contrabbando. Forse è giunto però il momento di concludere, e la conclusione di queste analisi è che solo in alcuni casi (nessuno dei quali applicabili all’UE) i benefici del protezionismo ne superano gli effetti collaterali negativi. Si può essere d’accordo con me o no sui vari punti presi in discussione, spero però che si sia d’accordo sul fatto che i punti vadano discussi. Un proponente del protezionismo che non li affronti — e non mi riferisco a te, Inglese, ma a chi should know better — va preso con la stessa considerazione di un dottore che consigli una medicina ignorandone gli effetti collaterali.

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andrea inglese
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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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