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Mistica senza Dio

[Segnalo l’importante traduzione  di un maestro assai poco frequentato: Fritz Mauthner, Mistica senza Dio, Irradiazioni, pp. 216,  €12. Si pubblica parte del saggio introduttivo di Guido Vitiello, seguito da alcuni estratti dell’opera. DP]

di Guido Vitiello

(…) Certo le Wortwanderungen, le migrazioni delle parole, non seguono rotte costanti come quelle degli uccelli; ma non diversamente dagli stormi di rondini, le parole prendono in volo le figure più varie, si annodano e disnodano a comporne di nuove, trascorrono sui cieli del significato lasciando, al loro passaggio, un labile frego di lavagna. Non sono farfalle che lo spillo di un entomologo possa assicurare, una volta per tutte, al cartoncino di un significato unico e stabile, con etichetta tassonomica in latino. Lo sanno bene i lessicografi, un po’ meno i filosofi, che anzi mettono grande sforzo e dedizione nel definire una volta per tutte i loro termini. Eppure ci vuol poco a constatare che non si dà al mondo lessico tecnico più aleatorio ed esasperante di quello filosofico, dove ogni nuovo arrivato pretende di ripartire daccapo e foggiarsi, da bravo onomaturgo, le parole di suo gusto.

Fritz Mauthner, che arrivò buon ultimo, da ospite neppure troppo gradito, al gran ballo del pensiero filosofico, ebbe il ritegno e l’eleganza di non portarvi il suo stuolo di debuttanti, e non si sognò neppure di coniare un nuovo lemmario speculativo. Fu però insolente quanto basta da mandare gambe all’aria, dopo qualche giro di danza, le parole ereditate da un paio di millenni di tradizione teoretica, queste auguste e attempate signorine che i filosofi trattano con ogni riguardo e galanteria. L’insegna della sua impresa fu infatti la Sprachkritik, la critica del linguaggio. Anzitutto del linguaggio filosofico, che s’impegnò a demolire mattone per mattone nei due volumi del Wörterbuch der Philosophie, il dizionario dei termini filosofici che compose nei primi anni del Novecento. Esemplare rarissimo di dizionario suicida, il Wörterbuch manda in pezzi uno dopo l’altro i suoi termini per rivelare che, in fin dei conti, non vogliono dir nulla, o nulla di certo: una macchina progettata per l’autodistruzione, come quelle dell’artista Jean Tinguely.

I filosofi, per lo più, non accolsero Mauthner di buon grado nella loro cerchia. Ludwig Wittgenstein lo mise, letteralmente, tra parentesi. La proposizione 4.0031 del Tractatus logico-philosophicus recita così: «Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. (Ma non nel senso di Mauthner)». Queste parentesi hanno da allora imprigionato il nostro filosofo, in cui generazioni di esegeti hanno visto nel migliore dei casi un pittoresco ed eccentrico battistrada del più rigoroso successore. E così, quasi più nessuno si ricorda di Mauthner: rare le sue riedizioni, quasi inesistenti le sue traduzioni in altre lingue.

Eppure, Jorge Luis Borges annoverava il Wörterbuch tra i libri che più avevano inciso sulla sua opera, nonché tra i vertici della prosa tedesca. James Joyce incaricò Samuel Beckett di leggere l’altra grande opera di Mauthner, i Beiträge zu einer Kritik der Sprache (“Contributi a una critica del linguaggio”), al tempo in cui componeva il Finnegans Wake. Hofmannsthal echeggiò la filosofia di Mauthner nella Lettera di Lord Chandos, ed ebbe con lui un rado carteggio. «Sembra che quest’opera abbia avuto una vasta influenza sotterranea», annotava George Steiner a proposito dei Beiträge.

(…)

Theodor Fontane, che conobbe Mauthner negli anni berlinesi, così ne descrisse il carattere elusivo e imprendibile in una lettera a Otto Brahm del 3 dicembre 1893: «È un uomo acuto e pieno di spirito, ma c’è una qualità di seta che credo si chiami cangiante. Ha un aspetto molto bello, ma non si sa mai bene se sia verde, rossa o marrone; Mauthner evoca sempre qualcosa, quando però si vuol dire: “Mi permetta”, ecco che se n’è già andato via. (…)». Seta cangiante è formula che ben descrive l’opera di Mauthner, dove i registri sfumano senza tregua l’uno nell’altro, esasperando il lettore che non voglia arrendersi al gioco: capita così che, nella stessa pagina, la pedanteria antiquaria dell’erudito si accenda nello stile battagliero e sanguigno di certi libelli luterani, e che questo a sua volta trascolori nell’apologo mitologico, s’involi nella favola, si addolcisca nel diario intimo, si deformi nella parodia, si raggeli nella nota dotta del lessicografo, si sciolga infine nell’invocazione mistica. L’impressione del lettore è di attraversare uno di quei gabinetti delle meraviglie secenteschi dove il bronzetto e il vaso d’alabastro, l’orologio meccanico e l’astrolabio, il coccodrillo imbalsamato e il reperto di isole remote sono ordinati secondo non già il plumbeo spirito enciclopedico ma l’aereo spirito del Witz, l’arguzia, il demone dell’analogia, «il prete travestito che sposa tutte le coppie» come lo definì Jean Paul. Hamann e Mach, Schopenhauer e Nietzsche, Goethe ed Eckhart sono alcuni dei matrimoni che Mauthner celebrò nella sua opera, con pieno giubilo e senza sentore d’impedimenti dirimenti.

Mauthner fu un dilettante, membro di quella famiglia di spiriti curiosi di cui Goethe e Schiller consacrarono la nobiltà. Lo fu con piena e gagliarda consapevolezza, appena adombrata da una nota agra di risentimento: verso lo specialismo degli accademici e verso la sua formazione che considerava rabberciata. Nel Prologo alla seconda edizione dei Beiträge, del 1906, riferiva di un suo vecchio calcolo: per la mia opera, si era detto, servirebbero conoscenze approfondite di una cinquantina o sessantina di discipline, ciascuna delle quali richiede almeno cinque anni perché la si padroneggi se non altro nei fondamenti; pertanto, ne aveva concluso, mi occorrerebbero circa tre secoli di lavoro incessante prima di poter cominciare a esprimere il mio pensiero. Apparirà chiaro che Mauthner, nella tassonomia dei dilettanti, appartiene alla sottospecie dei dilettanti monumentali, come recita la bella formula di Mann su Wagner: coloro, cioè, che non dissipano la loro attitudine eclettica alla maniera degli esteti ma la pongono al servizio di una Grande Opera. Se però Wagner combinò le arti per edificare templi nuovi e allestirvi sacre rappresentazioni, Mauthner all’opposto radunò tutte le scienze e le discipline per compiere una grande impresa di demolizione. Due gli edifici da abbattere, o forse le due facciate di un solo edificio: il Linguaggio, e Dio.

 

 

***

Fritz Mauther

Dal capitolo «Dio»

 

Se volessimo mettere a paragone l’astruso concetto di Dio con altri concetti, incontreremmo una difficoltà: quella di trovare parole di simile insensatezza e, al contempo, di pari potenza storica.

La pietra filosofale non è mai esistita, eppure le si sono attribuiti poteri miracolosi. Essa, tuttavia, non era solo un oggetto di fede, era anche qualcosa di reale, un’opera umana, fabbricata e smerciata da qualche imbroglione.

Preferisco paragonare Dio al flogisto della chimica. Per cent’anni circa, dalla fine del diciassettesimo secolo alla fine del diciottesimo, i teologi della chimica, e con essi il mondo intero, hanno creduto in questa parola che doveva spiegare la combustione dei corpi, dunque l’origine della più importante potenza terrestre. Oggi sappiamo che l’ossido di piombo è piombo più qualcos’altro, Pb + O. All’epoca si insegnava, contro ogni evidenza – già infatti si era osservato il peso maggiore dell’ossido di piombo – che il piombo è ossido di piombo più qualcos’altro: il flogisto.

Qualcosa che non è di questo mondo doveva dunque essere all’origine di ciò che è qui. Così come s’immaginava che il flogisto fosse presente in ogni metallo, così Dio in tutti gli eventi: il caso si trasformò in storia per mezzo della divina provvidenza, la vendetta contro i criminali si volse in punizione per virtù della giustizia divina, la testimonianza divenne giuramento attraverso il richiamo a Dio.

(…)

Da tempo immemorabile gli uomini hanno avuto la propensione a rispondere prima alle domande ultime, a voler scoprire per prima la causa ultima. E così hanno imparato a usare come risposta ultima, ben prima di qualunque studio della natura, la parola Dio o altre simili. Come la parola anima. Come la parola flogisto. Se gli uomini fossero stati più pazienti, oggi non avremmo la parola Dio e io non avrei bisogno di precisare il mio rapporto con un termine che non capisco.

Non sembri che io voglia svicolare richiamandomi al punto di vista della critica del linguaggio. Prendo d’impulso una posizione netta rispetto a questa parola per me incomprensibile. Non solo non la capisco; credo anche che non abbia alcun senso. Credo che il vecchio Dio dei Giudei, come la sua traduzione nel cristianesimo, sia ormai un simbolo morto, una parola morta. La fisica ha preso da questo Dio la sostanza, la storia naturale il suo carattere di causa prima, l’astronomia il luogo poggiando sul quale egli poteva muovere la terra. L’ateismo, inteso come mera negazione del concetto di Dio, giunti a un certo stadio della conoscenza è l’unica concezione del mondo onesta.

(…)

Bacone ha ritratto magnificamente i pregiudizi, o fantasmi, o idoli degli uomini, che fino ad allora avevano impedito il progresso della conoscenza; ha parlato dei fantasmi o idoli della tribù, del tempio, del foro e del teatro. Possibile che gli sia sfuggito che l’idea di Dio è al tempo stesso un fantasma della tribù, del tempio, del foro e del teatro? Ovviamente Bacone poteva a malapena ritenere possibile ciò che ora, in ultimo, è diventato evidente: che Dio non è che una traduzione di idolo, che al posto di idolo o fantasma potremmo dire feticcio o Dio, e che dunque Bacone avrebbe potuto parlare degli dèi o idoli della tribù, del tempio, del foro e del teatro, fustigandoli a dovere. Dio è l’idolo supremo, il più onnicomprensivo, il più fallace. Un’immagine per cui nulla ha fatto da modello. A mio modo di vedere, un’immagine ideale.

Una parola, in ogni caso. Gli dèi sono parole. Dall’esistenza della parola si è ancora una volta dedotta l’esistenza della cosa, quasi che la prova ontologica appartenesse agli istinti dell’uomo parlante. E mi torna in mente la costruzione di una frase di Lutero, che certo non è stata scritta senza pensare; al contrario, essa figura nel primo articolo della meditatissima, e quasi diplomatica nello stile, Confessione di Augusta: «In primo luogo viene insegnato, in completo accordo… che vi è un’unica essenza divina la quale è chiamata, ed è, Dio».

 

***

 

Dal capitolo «Mistica»

 

Se di qualcosa posso fare esperienza, non si tratta più di mero linguaggio. Ciò che posso esperire è reale. E io posso, per brevi ore, non saper più nulla del principium individuationis, sentire che è caduta la distinzione tra il mondo e me. «Che io sono diventato Dio». Perché no?

La più alta virtù di tutte le più nobili religioni e dottrine morali non resiste in queste ore di estasi. Che cos’è il bene per un uomo che non sa più nulla del principium individuationis? Il bene è l’abbandono della propria individualità, ma è riconoscimento di quella altrui: «Ama il tuo prossimo come te stesso». Non più. Se non ho più il mio Sé, non ho più nemmeno il mio prossimo. Chi è ancora buono, non è ancora libero. Nelle sacre ore dell’estasi non si è buoni. Il bene non è possibile laddove non esiste distinzione.

Com-passione? Sì. Se per passione intendiamo cio che in origine significava; una forma passiva dell’esperienza, una compartecipazione non dolorosa. Ogni creatura partecipa dell’Unico Mondo. Ogni singolo vive in comunione con esso, com-patisce in esso. Percepisce di esso quanto più gli è possibile: l’uomo, l’animale, la pianta, la goccia di pioggia. Siamo dunque compassionevoli come lo sono i fiori e la goccia di pioggia. La compassione è la gioia del fiore e della goccia di pioggia.

Non hai mai conosciuto tali ore di estasi? Povero te! Allora non hai conosciuto la gioia.

Tu giaci nell’erba alta in un quieto giorno d’estate. In basso, sotto di te, scorre il Gange o il Reno. Accanto a te solo il tuo cane, a cui accarezzi la testa, che ti lecca la mano. Giochi con lui? Lui gioca con te? La distinzione è superata. E con essa tutte le altre distinzioni.

La differenza tra i sessi. Che sia perché sei diventato vecchio? Ad ogni modo, essa ti è indifferente. Forse è per questo che la mistica, cessazione di ogni distinzione, è la saggezza dei vecchi. Il motivo dell’amore ha perso la sua potenza. E giace calmo nella tomba accanto al motivo del bene.

La differenza tra il mio e il tuo. Non vuoi nulla, proprio nulla. Sei già contento. E il motivo della fame ha perso la sua disgustosa potenza, per la breve ora dell’estasi. Non pensi di sparare alla lepre dall’altra parte, di carpire all’albero il suo frutto. Ridi. A migliaia, intorno a te, strisciano e ronzano vermi e insetti, posseduti dall’amore e dalla fame. Tessono la tela e volano. Non conoscono nulla di meglio. Ecco! Di nuovo un coleottero. Innamorato e famelico. Povero lui! (…)

La distinzione tra gli uomini svanisce, la peggiore tra le distinzioni, e con essa il motivo della vanità perde la sua potenza. Ti era sempre parso impossibile, eppure adesso, in questa breve e sacra ora, ne hai fatto esperienza: gli uomini non possono più farti del male, perché finalmente li osservi come se fossero animali, o piante, o gocce di pioggia. O come le onde del fiume lì sotto, del Gange o del Reno. Il cane può morderti, l’albero può cadere e ucciderti, le onde possono trascinarti a fondo. Ma nulla e nessuno può farti del male, da quando tacciono i motivi dell’amore, della fame, della vanità. Che importa alla luna se il cane le abbaia? Che importa a te se gli uomini-bestia, gli uomini-pianta, gli uomini-onda ti abbaiano o sospirano qualcosa? Poveri loro! Ciascuno di essi crede di essere distinto. Già. Fino a quando sopravviene anche per gli altri la tua ora, e tutte, tutte le distinzioni cessano. Come ora è finita quella tra te e il sole. Non è così? Fratello Sole, Messer lo frate Sol, noi ci apparteniamo? Chi non conosce più amore, fame e vanità, esso è sole, Dio, filo d’erba.

Ti ho mai parlato degli altri motivi della vita umana oltre a questi tre terribili? Della sete di conoscenza e del bisogno di riposo, del desiderio di morte? Tacciono anch’essi, nella beata breve ora dell’estasi?

Tacciono entrambi. Sono messi a tacere. Non vuoi nulla, proprio nulla, nemmeno vuoi più conoscere. Poiché hai compreso che la distinzione tra il conoscente e il conoscibile è scomparsa anch’essa insieme alla distinzione tra te e il mondo. Hai compreso che non sei equipaggiato alla conoscenza, né il mondo a esser conosciuto. È tutto solo un girare attorno, come un bruco gira attorno alla sua foglia. Non hai più alcuna sete del sapere che altri hanno bevuto e risputato; sai che non esiste una conoscenza dei fondamenti ultimi e più profondi. Non hai sete di pozzanghere.

E tace anche il bisogno di quiete, poiché sei diventato quieto, interamente quieto, financo quasi morto. Non vuoi più nulla. E così come la doctissima ignorantia della tua conoscenza abissale è meglio del sapere risputato di tutti i saggi del passato, così la tua quiete è più viva di tutta la tua vecchia vitalità, la tua morte è più viva di tutto il tuo precedente affaccendarti.

 

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3 Commenti

  1. Molto, molto interessante.
    “Chi non conosce più amore, fame e vanità, esso è sole, Dio, filo d’erba.”

    Suprema comprensione dei “dilettanti”.

    Grazie infinite per il bel post.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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