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Note su La ballata del re di denari di Yuri Herrera

Eugenio Santangelo

Yuri Herrera (1970) è autore di due romanzi fondamentali per la letteratura latinoamericana contemporanea. Grazie a Nuova Frontiera, i lettori italiani potranno leggerli entrambi, a partire da La ballata del re di denari (Trabajos del reino), appena uscito nella traduzione di Pino Cacucci. In tempi in cui il mercato editoriale spinge gli scrittori verso una bulimia e una iper-produzione che indebolisce (e a volte annichilisce) lo spirito critico anche degli autori più promettenti, Herrera fa propria un’etica della scrittura tanto rara, quanto preziosa per la riflessione letteraria attuale. A distanza di cinque anni l’uno dall’altro, pubblica due testi brevi, che per concentrazione narrativa, cura strutturale, concettuale e linguistica, denotano un lucidissimo progetto di scrittura e una profonda riflessione sulle contraddizioni del mondo contemporaneo, sulle possibilità di raccontarlo partendo dal ripensamento delle sue frontiere: il confine, in questo caso quello tra Messico e Stati Uniti, come punto di osservazione privilegiato delle relazioni tra arte e potere, linguaggio e violenza, territorio e sfaldamento delle identità.
In un paese, il Messico, in cui queste contraddizioni sembrano radicalizzarsi a tal punto da rasentare l’indistinzione, l’indiscernibilità degli attori in gioco, e in cui il linguaggio che veicola l’orrore quotidiano sembra perdere, se possibile, ogni giorno un grado di senso in più – a causa della sua sovraesposizione, il bombardamento e la sua conseguente svalutazione –, Herrera cerca, per prima cosa, di riappropriarsi della parola, di rivalutarla, ricrearla, riempirla di significato a partire dalla distorsione che essa subisce nell’uso orale, lì dove la lingua continua ad essere viva, mutevole, creativa. In America Latina, nonostante la pervasività dei linguaggi mediatici e gli appiattimenti e svuotamenti che li caratterizzano, la cultura orale conserva ancora un ruolo centrale nella rielaborazione dei fenomeni e degli eventi drammatici che scuotono la società. L’oralità messicana, espressione di una cultura proteiforme ed eterogenea, è fonte di un continuo riassestamento della parola, di una continua creatività, troppe volte costretta a tentare nuove definizioni per nuove, inimmaginabili forme d’orrore.
Uno dei grandi obiettivi e meriti de La ballata del re di denari è la costruzione di un mondo finzionale e narrativo estremamente stilizzato, in cui il vero protagonista è la capacità d’ibridazione della parola. La trama ha i sui prevedibili principio, svolgimento e fine. Ha personaggi-funzione come in una fiaba allegorica. Una Corte, un Re e una Strega. Un Traditore, un complotto e una catastrofe. Un triste lieto fine che riporta tutto al punto di partenza. Le parole chiave sono: ripetizione e perpetuazione. Il tutto, però, visto dalla prospettiva straniante di un cantante di corridos, che dell’oralità fa la sua possibilità di sopravvivenza, il filtro con cui porre ordine, e allo stesso tempo comprendere e ricreare i fili di una realtà in decomposizione.
Il corrido è un fenomeno tanto affascinante – per la sua vicinanza con il processo dei poemi epici – quanto sinistro – per ciò che, nella forma del narcocorrido, manifesta in maniera brutalmente diretta ed esplicitamente dichiarata: il potere di pervasione pressoché totale e totalizzante che la criminalità organizzata esercita su una parte della società messicana. I compositori di questo genere di ballate sono messi in grado di scrivere e registrare quasi in presa diretta le gesta dei narcotrafficanti. Il giorno dopo la cattura o la morte di un capo del narco, nelle strade (o in youtube…), iniziano a circolare corridos che ne cantano la resa, che ne esaltano le imprese eroiche, che ribadiscono la fedeltà della Corte degli affiliati, così come la sommissione delle Istituzioni corrotte dello “Stato”.
Invece di raccontare questo mondo con i soliti, troppe volte innocui stilemi del romanzo poliziesco, del realismo sucio (sporco) o panflettistico, i quali, nella maggior parte dei casi, falliscono nel non riuscire a trasfigurare, per meglio comprendere e criticare, la pressione stringente dell’attualità, Herrera ne mostra la brutalità banale attraverso la riduzione dei suoi personaggi a maschere, pedine che acquistano e perdono senso solo ed esclusivamente nell’economia dell’insieme. È una totalità interamente e dichiaratamente letteraria che ricicla stilemi per corroderli con la parabola del linguaggio.
Lupo, il protagonista-filtro della narrazione, si chiama così solo nel primo e nell’ultimo capitolo del romanzo, sorta di prologo ed epilogo alla fabula del libro, che invece racconta il suo nascere, crescere e declinare con il nome e la funzione di Artista del Regno. Così, il libro si trasforma in una riflessione allegorica sulla labile costruzione dell’identità in una società che abbandona l’uomo al caos, e lo costringe, quasi come unica possibilità d’identificazione, ad entrare in un sistema d’ordine altro, il quale lo ribattezzi e gli dia un apparente scopo sociale all’interno del suo “spazio d’eccezione”, lo stesso che è ormai il centro e la regola della frontiera messicana. Prima di ricevere la ‘clemenza’ del Re del narcotraffico e d’essere accettato a palazzo, Lupo è “polvere e sole”, vita senza tempo (“Non aveva mai badato a quella cosa assurda, il calendario, perché i giorni sembravano tutti uguali”), è storie e canzoni d’altri, parole come “rimedio contro il caos”, ritmo e sillabe con cui puntellava il mondo illeggibile, la vita di strada come “territorio ostile, una sorda lotta di cui non comprendeva le regole”. Ma ecco che il “miracolo” attiva il calendario (e allo stesso tempo, per la sua circolarità, lo uccide ancora una volta): scorge il Re, scorge la possibilità d’entrare nella trama di colui che fa quadrare la vita, colui che, “come se fosse fatto di filamenti più fini”, fa e disfa il mondo a suo piacimento, però soprattutto, in apparenza, è in grado di dargli Senso.
“L’Artista doveva restare lì”: il Re, come un Dio, ricrea Lupo dandogli un nome e un posto nel mondo. Nel Regno, tutto è funzionale, tutti lo sono, il grande Racconto del Re ha il potere di dare ordine col solo nominare, e l’Artista ne diviene il rifrattore e propagatore, colui che, inavvertito, quasi invisibile, risale i gradini della Formazione, apprende le regole del palazzo (“qua chi piscia fuori dal vaso è fottuto”), ne ascolta le storie e le rimette in rima, perché gli Altri, quelli di fuori, quelli delle strade e degli altri palazzi, sappiano, e riconoscano qual è la Vera Realtà:

Sono morti. Sono tutti morti. Gli altri. […]
Hanno un incubo, gli altri: quelli di qui, i buoni, sono l’incubo; la peste che c’è qui, il rumore che proviene da qui, la figura che si vede qui. Ma qui è tutto più vero, qui c’è la carne viva, l’urlo stentoreo, e quelli sono a malapena una misera pellaccia piagnucolosa che ha perso il colore. Un rimasuglio di materia inerte e appesa con gli spilli.
[…] Vorrebbero sentirsi cantare solo le cose carine, come no, ma quelle di qui non sono canzoncine della buonanotte, il corrido non è un quadretto da appendere alla parete. È una verità ed è un’arma.

Nell’ultima frase, la traduzione di Cacucci interpreta e si allontana dalla lettera. È importante, però, che l’indiretto libero dell’Artista dica che il corrido è un nombre, un nome e un’arma. Nel palazzo, la parabola della parola è il processo mortuorio del nominare, del dare nomi alle cose perché queste siano, “ciascuna dicendo il vero nome a modo suo”: parole e cose, così come l’uomo, cosa tra le cose, sono perché “quelli di qui” hanno il potere di pronunciar el nombre (pronunciare il nome: un elemento fondamentale di un altro passo del romanzo, sparito dalla traduzione di Cacucci). Sottilmente, il romanzo conduce l’Artista verso la scoperta della (supposta) vera realtà delle parole: il Regno, attraverso il suo Re, nomina la realtà, e chi ne è parte funzionale, può nominare e definire se stesso. L’Artista apprende un nuovo linguaggio, però il romanzo in ogni suo momento fa cortocircuitare il sistema dei nomi del palazzo, con la lingua e il sistema di pensiero che era di Lupo prima di entrare nel regno del narcotraffico.
Dall’identificazione assoluta nella logica in cui ha trovato una definizione, a poco a poco, l’Artista, uscendo nuovamente al mondo della strada, inizia un processo critico che si riflette nel suo modo di vedere, nominare e raccontare la realtà. Allegoricamente, il Dottore scopre che l’Artista ha problemi di vista. Gli occhiali gli faranno ricominciare a vedere, in un altro modo, ciò che lo circonda. Quest’altro modo ha bisogno d’altre parole. Parallelamente, inizia a leggere libri, prestatigli dal Giornalista, e grazie a questi “si andava impossessando sempre più di nuove parole”. L’Artista prende coscienza dell’insufficienza dei nomi del regno. Nelle sue escursioni fuori dal palazzo, inizia a rivedere il mondo e se stesso, riscopre anche il tempo, si rivede bambino, si specchia nell’irredenzione della vita che nessun corrido, nessuna Bellezza artificiale del regno può riscattare: “È come se non vi fosse diritto alla bellezza, pensava, e si convinse che a quella città bisognasse appiccare il fuoco dalle fondamenta, perché ovunque la vita si manifestasse veniva immediatamente oltraggiata”. È così che, quando in strada vede il suo nome in un disco pirata, “questo non significava niente” perché “quel giorno aveva capito cose ben più importanti”.
A poco a poco, il nome del Regno e i suoi Lavori, le sue corvé, si relativizzano. Il complotto che manderà in rovina il Re, è preannunciato da una nuova immagine che sorprende l’Artista che ritorna in strada: “Ebbe una visione nitida del volto del Re, come se avesse una lente d’ingrandimento, vedeva la flaccida consistenza della pelle, della costituzione fisica precaria quanto quella di chiunque altro in quel luogo”. È l’oltraggio dell’artista di fronte al suo re. Ecco che sgorgano le nuove parole, i nuovi nomi, la nuova visione, la nuova storia: “Ecco una storia pronta per essere cantata, non quella che il Re aveva rappresentato con disinvoltura fino alla fine, ma l’altra, quella delle maschere, quella dell’egoismo, della miseria”. L’artista scopre che il fondamento dell’oltraggio alla vita è la mascherata delle cose che pretendono essere come sono, perché un Dio o un Re ha deciso che così siano.
La parabola del romanzo è la distruzione delle prime verità di Lupo: “Stare qui è questione di tempo e dipende dalle sventure. C’è un Dio che dice: Sopporta, le cose sono quelle che sono” (Aguántese, las cosas sono como son). In questa frase si riassume tutta la filosofia messicana della rassegnazione: il verbo aguantar significa sopportare, ma anche aspettare. È il verbo dell’inazione passiva. Quando Octavio Paz, nel suo classico Labirinto della solitudine, parla di maschere messicane, scrive: “La rassegnazione è una delle nostre virtù popolari. Più che il brillio della vittoria, ciò che ci commuove è l’integrità di fronte alle avversità”. L’Artista della Ballata del re di denari, che per un momento scopre nel Re un Dio che fa che le cose siano come sono, successivamente riscopre nella parola la possibilità della riappropriazione del tempo e dell’azione, in quanto occasione per la modificazione dello stato delle cose: “Da lì in avanti nessun re avrebbe dato un nome ai suoi mesi”, “No: Non può dominare la mia vita, non accetto che mi si dica cosa devo fare. Era una verità che già conosceva nel profondo delle viscere, ma che non era mai stato capace di nominare”. Ed è così che l’artista ridiventa un nuovo Lupo, capace di impossessarsi delle parole e di sé, per pensare un ordine di realtà distinto da quello della Corte, un mondo in cui le cose non sono mai quello che sono. I sistemi di potere rimangono inalterati, a un Re ne succede un altro, però Herrera costruisce la possibilità della presa di coscienza, la possibilità del rovesciamento della rassegnazione, e di un’analisi critica della realtà esistente, a partire dalla decostruzione dei suoi linguaggi, dalla risignificazione della parola, processi considerati ancora come due dei più grandi e pressanti compiti politici dell’arte attuale.
In conclusione, sento doveroso fare un appunto alla traduzione di Cacucci. Per il suo mettere al centro le possibilità d’ibridazione e creatività della lingua, e allo stesso tempo un discorso filosofico, politico sulla parola, La ballata è un libro difficilissimo da tradurre. Herrera scrive attraverso coagulazioni sintattiche e lessicali, sporca e allo stesso tempo distilla il suo stile, in frasi brevi, dure, e una continua manomissione della linearità del discorso. Crea una lingua difficile anche per un ispanofono, con continue coniazioni di verbi a partire da sostantivi, e un amalgama di linguaggio orale e linguaggio letterario. La traduzione di Cacucci, nella maggior parte dei casi, normalizza lo stile del romanzo. Lo rende leggibile. Goffredo Fofi, nell’Internazionale ha definito la traduzione del romanzo con un paio di aggettivi che, in relazione con il mondo linguistico creato da Herrera, risultano in aperta contraddizione: la considera “precisa e delicata”. Mi pare che Cacucci sia arretrato di fronte alla sfida che la traduzione del romanzo comportava: così come Herrera cambia, ricrea, manomette la lingua spagnola, sabotando qualsiasi tipo di “delicatezza”, mi sarei aspettato molto più coraggio nel tentare lo stesso processo deformante anche nell’italiano in cui è tradotto. Nella versione di Cacucci, la lingua di Herrera si trasforma in un italiano “medio”, un poco innocuo, un poco appiattito, perdendo esattamente la sua capacità di resistenza di fronte al linguaggio svuotato a cui si oppone.

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