Architettura e potere

di Lucia Tozzi

In un libro che racconta di potere e architettura non si poteva tacere di Speer, di Pagano e Piacentini, di Iofan e Le Corbusier, del repertorio di cupole e colonnati, assi e scalinate monumentali che in diverse combinazioni hanno dato vita a progetti di mausolei e palazzi di governo, della “macchina da scrivere” piazzata sui Fori o della Große Halle rimasta sulla carta. Ma in fondo del blocco storico dell’architettura totalitaria anteguerra si sa già tutto, o per lo meno l’autore non ha molto da aggiungere. Deyan Sudjic non è uno storico da archivio, uno di quei pallidi ricercatori che estraggono prodigiose rivelazioni dai faldoni: è un critico di architettura che nel 1983 ha fondato insieme a Peter Murray la rivista Blueprint, e poi è stato direttore di Domus dal 2000 fino al 2004, della Biennale di Architettura a Venezia nel 2002 e del Design Museum di Londra dal 2006. Da decenni è letteralmente immerso nel mondo degli architetti, in una posizione dominante da cui nulla può sfuggirgli. Il suo è un sapere mondano e diretto, sofisticato proprio perché fatto di relazioni personali, di confidenze altrimenti inaccessibili, di un monitoraggio continuo del contemporaneo, e di infiniti concorsi, appalti, premi e giurie che gli hanno consentito di filtrare una mole imponente di informazioni sui meccanismi del potere.

L’importanza e l’interesse del saggio (“Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo”, Laterza 2011) aumentano quindi esponenzialmente con l’avanzare dei capitoli e della cronologia: molto più appassionanti le vicende dell’architetto Locsin che trasferì le proprie tetre competenze dalla coppia Marcos al sultano del Brunei, o di Saddam che condivise con Jacques Attali, l’ambizioso delfino di Mitterrand, i pacchianissimi Berthet e Pochy (che riempirono di soffitti a specchio tanto la sede londinese dell’odiosa quanto fallimentare EBRD, l’European Bank of Reconstruction and Development, che il terminal personale di Saddam nell’omonimo aeroporto internazionale), piuttosto che i soliti piani di Mussolini e Mao Tse Tung.
Meglio ancora le pagine dedicate alle biblioteche presidenziali, un genere che negli Stati Uniti viene declinato in modo molto peculiare come parco a tema: la descrizione della Bush senior Library, ispirata alla Rotonda di Jefferson (e quindi discendente in linea diretta dal Pantheon) e ornata da cinque cavalli di bronzo lanciati in corsa verso un pezzo di muro di Berlino, opera dell’artista western Veryl Goodnight, sfiora il sublime. Superata l’allegoria della sconfitta del comunismo a opera di Bush, si paga un biglietto per attraversare un percorso che rivela a ogni stanza un oggetto simbolico della vita presidenziale: l’aerosilurante Avenger da cui precipitò in Giappone, il jukebox Wurlitzer che suona la hit Boogie Woogie Bugle Boy accanto alla Studebaker che lo trasportò in Texas per la nuova vita postuniversitaria, la riproduzione della Stanza dell’alloro di Camp David. Bellissime anche la Biblioteca Nixon, che svolge il tema dell’inconsistenza del caso Watergate, e la Biblioteca Reagan, dotata di una statua in bronzo di Ronald vestito da cowboy e della riproduzione del chioschetto dove incontrò Nancy per la prima volta, per non parlare della sequenza delle Oval Room dalla Kennedy Library alla Clinton Library (prevedibilmente priva di richiami all’unico evento che l’ha consegnata alla storia).
Eccezionale la storia del reverendo Robert Schuller che riuscì a costruire un complesso ecclesiastico a Los Angeles composto dalla prima chiesa walk-in/drive-in al mondo, progettata da Neutra, dalla Crystal Cathedral di Johnson e da un centro visitatori di Meier. Nello stesso spirito ma con maggiore successo e buon gusto del suo epigono Don Verzè, Schuller ha sempre riposto la massima fiducia nel fatto che al finanziamento avrebbe provveduto Dio.
«Quali che siano le loro intenzioni, alla fine l’attività degli architetti viene definita non tanto dalla loro retorica, quanto dagli impulsi che spingono i ricchi e i potenti a servirsi di loro per tentare di dare forma al mondo», questa è la conclusione del libro di Sudjic, elaborata dopo anni di contiguità con l’ambiente puttanesco dell’architettura. L’implicazione critica più importante, formulata in maniera scandalosamente ardita per un pluridirettore come lui, è che «Le Corbusier e Mies van der Rohe, Rem Koolhaas, Renzo Piano, Wallace Harrison, Frank Gehry non sono liberi creatori. Il loro lavoro dipende dal coinvolgimento nel contesto politico mondiale». Nessun altro intellettuale organico al sistema internazionale dell’architettura oserebbe equiparare in maniera tanto esplicita il ruolo servile di intoccabili icone come Koolhaas o Piano a quello di volgari gregari di regime. I racconti di maggior successo contenuti nel testo sono infatti quelli che mostrano il narratore onnisciente, vale a dire il gossip riferito da chi ha avuto accesso alle stanze più segrete del potere: le strategie combinate di Jencks e Koolhaas perché quest’ultimo si aggiudicasse il concorso del CCTV, il palazzo della propaganda televisiva cinese. I retroscena della relazione tra Thomas Krens, il piratesco direttore del Guggenheim, e Frank Gehry. Il patetico opportunismo di Libeskind a Ground Zero. Il lungo processo politico e legale contro gli sprechi per il Parlamento scozzese di Miralles. Le dimissioni da dandy che Aldo Rossi porse al vessatorio Eisner per il progetto di Euro Disney (“Certo io non sono Bernini, ma sfortunatamente lei crede di essere il re di Francia”). Piano à genoux alla corte di Agnelli. Fatti raccontati alle volte con un certo spirito, altre infiacchiti da commenti mitigatori (come quelli sul buon gusto di Agnelli) o da una prosa ridondante, appesantita da una traduzione non eccelsa. Anche dopo un pezzo di colore brillante su un qualche monumento grandioso, Sudjic non si stanca mai di ripetere quanto deliranti e psicopatologiche fossero le intenzioni dei committenti, e quanto pacchiani i progetti. È come se Proust si fosse sentito in dovere di precisare qua e là nella Recherche che Charlus è un finocchio.
Al di là dei fatti, però, non esiste nessun impianto teorico: nessuna risposta sul senso dell’architettura, nessuna distinzione politica e storica, a parte una banale posizione contro ogni dittatura, e soprattutto neppure un caso positivo. Un vuoto che implica un rischio molto preciso, l’accettazione reazionaria dell’inesorabilità del sistema.

(pubblicato su Alfalibri, numero di ottobre 2011)

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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