Milano brucia

di Giuseppe Catozzella

Un santo, doveva essere un santo, forse un barbone o al massimo davvero un angelo poteva essere l’uomo che stava sul tetto della palestra, del centro sportivo mentre bruciava tutto il piano sotto di lui, devono avergli cominciato a scottare anche le piante dei piedi a un certo punto dato che poi si è visto che era scalzo, ma non ha smesso un secondo di gridare da là sopra, mentre tutto era avvolto dalle fiamme “Siete pazzi! Siete tutti pazzi, figli di Dio!”, neanche mentre veniva braccato alle spalle da due poliziotti, tirato verso il pavimento, che poi era la copertura di tutta la struttura, “Siete pazzi! Siete i pazzi figli di Dio!”, braccato come un angelo un attimo prima dello spicco del volo, mentre della palestra rimanevano esposti soltanto i pilastri d’acciaio, lo scheletro artritico, e il fumo nero avvolgeva tutto e saliva denso verso il cielo.

Conosco il fuoco da quando ho quattro anni. Dapprima l’ho guardato al riparo, dietro la finestra nel salotto della casa in cui sono nato, periferia nord, tra Niguarda e Bruzzano. Ricordo bene lo scoppio, il rumore dei frantumi di vetro sul marciapiede – la vetrina che collassava; l’avevo capito subito che era una vetrina che colava a terra, poteva sembrare il rumore rassicurante della saracinesca di un negozio che si abbassa, allora vuol dire che sono le sette e mezzo, una giornata era finita e arrivavano i cartoni animati delle otto insieme a mio padre dal lavoro, ma non era esattamente quel rumore e poi era domenica, innanzitutto troppo lungo, quelle frazioni di secondo in più in verità fanno tutto, ti aprono al fatto che deve essere qualcos’altro, il rumore come di mille sassi che insieme piovono sul selciato. Mi sono staccato dalla tv, ho appiccicato il naso al vetro freddo della sala, arrampicato sullo schienale del divano: guardavo giù.

Il fuoco si prendeva la scrivania di legno, si mangiava la plastica del telefono; alcune lingue più lunghe sporgevano verso l’alto dalla vetrina frantumata accarezzando l’insegna di plastica bianca e annerendola, lì di fronte a me, dall’altra parte della strada. Quella era la lucentezza plastica dell’arroganza. Un negozio non va a fuoco da solo, quello lo capisce anche un bambino di quattro anni, qualcuno doveva aver deciso di farlo incenerire: la prepotenza, la violenza delle fiamme che si mangiavano tutto. Quando i vigili del fuoco hanno finito e hanno mosso l’autoclave dal centro della strada io ho preso il mio pesciolino rosso dalla boccia di vetro in cui gli versavo il mangime e l’ho bruciato, prima sul fornello acceso al massimo, tenendolo dalla coda finché non ha smesso di agitarsi, poi in un piatto, sul tavolo della cucina, con un accendino Bic blu.

È molta la differenza, del resto, tra una vetrina che scoppia per il calore delle fiamme che divampano all’interno di un negozio e piano piano lo divorano dallo stomaco, indisturbate innocenti e arrogantissime, e l’ineluttabile naturalezza con cui si è più gentilmente estromessi dalle lobby dalle amicizie dalle appartenenze dai lavori per il fatto di non essere un natobene un leccaculo un introdotto? Non è forse la stessa identica coincidente logica dell’amicizia? Non c’è forse a ben guardare un nesso tra le due cose, tra i due incendi, quello pubblico e quello tutto privato che si consuma invisibile al riparo di un appartamento, di un letto? Non scaturiscono forse i due incendi dallo stesso germe pestifero e omeopatico che cura l’uguale con l’uguale, l’amicizia con il vantaggio reciproco?
Signori, fatevene carico: quelle fiamme siete voi, quelle fiamme sono anche io.

L’altro giorno hanno bruciato il centro sportivo comunale di via Iseo, a Milano, Affori. “Dov’eri, tu?” Dov’ero, io? Sembra che chi è stato mi abiti a due passi, abbia sempre vissuto nella parallela da casa mia. Io li conosco benissimo, da quando sono nato. Sono gli stessi che da trent’anni fanno il prezzo della cocaina e stabiliscono seduti a un tavolo all’inizio dell’anno quanta se ne troverà nelle piazze del nord di Milano, broker degli stupefacenti. Gli stessi che da dieci anni gestiscono la più grande società di movimentazione delle merci della Lombardia. Gli stessi che posseggono la metà delle discoteche della città, quelli che hanno il monopolio del servizio di buttafuori nei locali, quelli che passano tutti i mesi a chiedere soldi ai baracchini che vendono i panini e le bibite di notte, ai quattro angoli di Milano. Gli stessi che hanno fatto eleggere un paio di consiglieri comunali e hanno creato la quarta corsia sulla Milano-Venezia, quegli stessi che seppellivano le scorie tossiche in un buco grosso come dieci campi da calcio dietro l’Esselunga di Pioltello.
Erano stati allontanati da quel centro sportivo non più di qualche mese fa perché appartenenti alla ’ndrangheta. E così l’hanno incendiato, distrutto. Se non è nostro non lo usa più nessuno.
Negli ultimi giorni sono andati in fiamme il Sugar Lounge di via Alserio, zona Isola, il Cappados di viale Monza, il Fox River, l’ex Transilvania e un altro locale in viale Abruzzi. Centotrenta incendi dolosi soltanto a Milano, centotrenta. Più settanta attentati con armi ed esplosivi ai danni di esercizi commerciali vari, e questo è il conto ufficiale, gli attentati riconosciuti, classificati, accertati come di matrice mafiosa.

Così l’uomo sul tetto braccato dai poliziotti e gridante, come Darete il sacerdote di Efesto che è costretto ad abbandonare Troia in fiamme nella piena consapevolezza della situazione, della disfatta – lui lo sa che Troia è ormai perduta per sempre – così quell’angelo scalzo continua a sgolarsi nella sua liturgia sulla pazzia, forse ha tenuto il conto del numero delle fiamme, forse è un contabile d’incendi dolosi rifletto, e io ci penso, forse ha ragione, forse è vero che non siamo sognatori, che siamo il risveglio da un sogno che si sta trasformando in incubo, e precisamente quello delle fiamme che tutto avvolgono, che mi vengono a prendere anche di notte mentre dormo che mi scalzano dal letto che cominciano a lambirmi i piedi poi si mangiano la prima gamba dei pantaloni del pigiama poi l’altra e infine la maglietta e poi mi infiammano i capelli il canale auricolare il cervelletto, il fuoco arriva e mi mangia tutto, mi avvampa ormai si è preso la mia ragione da tempo, la capacità che avevo di mettere due pensieri in fila di guardare le cose in maniera critica, di ragionare insomma, un’intelligenza viva, sognante, sana, salvifica, che corrode il reale, che diceva cose sensate anche.
E i due poliziotti lo portano giù, dopo qualche minuto compaiono tutti e tre, l’uomo prodigio in mezzo, il santo al centro, ed è scalzo, davvero non aveva le scarpe, e intanto alle loro spalle la città brucia nell’indifferenza di tutti, non fosse che per questo angelo caduto senza clac, senza platea, che però a un certo punto comincia a strattonare prima a destra poi a sinistra i suoi due custodi in divisa blu ottenendo che si fermino, e comincia a dire, rivolto a quello scarno pubblico, io e altri venti trenta astanti sfigati raccolti sul cavalcavia di viale Enrico Fermi a bloccare il traffico, davanti alle fiamme Darete dice: «Lo sapete che mentre io sono qui che cago» proprio così dice, come se fosse stato lì a cagare «e lo sfintere mi si allarga e mi addolcisce i pensieri perché li solletica, questo nostro adolescente Paese viziato ormai è troppo vecchio anche solo per guardarsi con coscienza nelle mutande e riconoscere il danno, l’essersela fatta addosso. Lo sapete, eh?» e il tono e il viso sono ispirati come quelli di un attore protagonista.
La gente là davanti e anche uno dei due poliziotti abbozza un sorriso, forse vorremmo ridere, forse no.

L’uomo mi passa di fianco scortato, con una mano quasi saluta la folla accarezzandola idealmente nel gesto papale, adesso sono io che penso all’eloquenza del fuoco alla sua forza che sta tutta nel fatto che è lì per tutti, e non può non venirmi in mente il salto di qualità, il cambiamento di strategia. Questi incendi sono qui per essere visti, penso mentre il santo mi passa di fianco e poi guarda il cielo, questo è un segnale bello e buono non è più la minaccia, il raccoglimento del pizzo in silenzio dalle casse di ogni commerciante che non batte un tot di scontrini per tirare fuori il dovuto e tace perché sa il suo e ha paura, questo è un atto pubblico una sfida aperta il guanto lanciato.
Mi sale alla mente allora il consigliere comunale Domenico Anselmo che ha preso a dormire stabilmente nella sua panetteria, la notte, dopo che gli è stata bruciata per non avere concesso la licenza per una sala giochi, dorme all’interno del suo negozio nel profumo del pane fresco perché ha paura di altri atti ritorsivi, ha paura che lo brucino di nuovo oppure rompano le vetrine o le facciano saltare, allora prende sonno o ci prova lì dentro, steso per terra su un materasso alla buona perché crede che fino a lì non possano arrivare – far saltare il locale con lui dentro – dopo che hanno incendiato anche il chiosco di alimentari di un altro consigliere comunale, Francesco Cuvello, per la stessa ragione., la sala giochi.
Mi giro e vedo il volto deformato o così mi sembra di una signora sui cinquanta che come me divide l’attenzione tra il santo e le fiamme, che ancora continuano ad ardere la palestra, hanno attaccato le gomme dei macchinari, il puzzo si fa più intenso. La guardo, lei se ne deve accorgere perché mi concede un sorriso, lo allunga quasi, lo tira, poi senza preavviso il suo volto ossequioso è d’un tratto orribile, il viso comincia a deformarsi, i lineamenti a contorcersi, dalle orbite degli occhi e le narici le fuoriescono larve, migliaia di larve, di acari e di batteri che prendono a impossessarsi dei suoi lineamenti, la sfondano, la divorano. Mi sembra che stia per avvicinarsi, io cerco di scantonare ma sbatto contro la spalla del vecchietto che mi sta di fianco a testa in su, ma lei invece si allontana, mi tiene per la verità a distanza, fa il contrario di ciò che credevo.
Poi il suo viso torna normale, come se nulla fosse stato, ritorna la signora con la gonna nera e il maglioncino che c’era prima. Questa volta mi si avvicina per davvero e sottovoce mi dice: «Milano brucia».
Io rispondo «Eh…».
Senza guardarmi, continuando a fissare le spalle del santo scalzo che viene trascinato via dai due poliziotti, continua: «Hai paura?».
Io giro di poco la testa, la sua guancia è normale, anche l’espressione degli occhi – luminosi, esaltati dal fuoco ma normali: «Di che?» rispondo.
«Non li vedi?» mi fa.
«Vedi chi?» faccio io.
«Non li vedi quando presenti Alveare a Milano e dintorni? Non ci fai caso che ce n’è sempre uno che ti viene ad ascoltare, di solito si mette dietro, un cappellino in testa o una grande sciarpa a coprirgli un po’ la faccia, e quasi di sicuro registra le tue parole?»
A quel punto mi giro completamente verso di lei, lei capisce che le sto chiedendo senza neanche volerlo come fa a sapere quelle cose.
«E non ti fa paura questo?» continua. «Sai cosa vuol dire quando i padroni arrivano a bruciare una città? Lo sai, vero, che il sindaco Pisapia ha dovuto fare quella dichiarazione appena insediato che un commerciante su cinque a Milano paga il pizzo, quando in verità è uno su due? Non ti fa paura che Milano brucia e nessuno fa niente?»

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4 Commenti

  1. Bello e forte. Si dovrebbe scoprire i volti, guardare in faccia, parlare, scrivere, mostrare, dire , leggere- come Giuseppe Catozzella o Roberto Saviano. Allora l’incendio, la minaccia, la fiamma sarebbe fragile, morte. Grazie a Helena e a Nazione Indiana per svegliare il coraggio, dare voci a chi sa guardare.

  2. “a volte mi domando se certi edifici vecchi di secoli non fossero già progettati per essere delle rovine.C’era un’attrazione romantica per il deterioramento strutturale.E i nobili si facevano costruire apposta delle rovine sui loro terreni per sedersici sopra a scrivere elegie”(P. Collins,nel paese dei libri).Forse si potrebbe fare un discorso parallelo sulle rovine di una società in disfacimento con il barbone in guisa di folle aedo in ricognizione per conto degli Dei,il tutto teso a ricordarci di non dimenticare

    http://www.dancewithrobotmedia.com/athlete_blog/adriano_celentano_-_prisencolinensinainciusol_gw_ruff_edit.mp3

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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