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Hessel non abita in Italia

[Recupero questo articolo da senzasoste.it: mi sembra un contributo interessante per un ragionamento sulla manifestazione del 15 ottobre scorso. L’autore si firma con uno pseudonimo e dal sito non sono riuscito a recuperare un modo per contattarlo. Se capita qui su NI e ha voglia di approfondire ulteriormente la sua tesi, è il benvenuto.]

 Hessel non abita in Italia
La crisi permanente della forma movimento basata sul primato dell’opinione pubblica

Colui che finalmente si accorge quanto e quanto a lungo fu preso in giro, abbraccia per dispetto anche la più odiosa delle realtà; cosicché, considerando il corso del mondo nel suo complesso, la realtà ebbe sempre in sorte gli amanti migliori, poiché i migliori furono sempre e più a lungo burlati
(Nietzsche)

 

Una analisi di quanto accaduto a Roma impone considerazioni cliniche e quindi sgradevoli. Perché un’analisi della dinamica delle differenti forze sul terreno, che si sovrappongono ormai regolarmente ad ogni grande evento di piazza, prescinde da considerazioni di valore. Non assegna meriti ad un comportamento piuttosto che ad un altro, d’altronde la politica non è un concorso a premi ma un fenomeno che produce risultati a seconda degli equilibri tra le forze in campo, né si pone il problema di riparare torti attraverso un uso emotivo, terapeutico dell’analisi. Per tutto questo ci sono la letteratura, il giornalismo, Twitter, i post su Facebook e tutta una miriade di scambi microfisici di impressioni tra persone coinvolte, o che si sentono tali, su quanto accaduto.

La prima considerazione clinica che si impone, dopo la giornata del 15 ottobre, è che la forma movimento basata sul primato dell’opinione pubblica è in crisi permanente e non sarà in grado di incidere, né tantomeno risolvere, nessuno dei problemi che evoca. Dalla questione del debito, al precariato. Si tratta di un tema ineludibile già emerso con forza a Genova 2001 e con le manifestazioni globali contro la guerra in Iraq nel 2003 (dove la seconda superpotenza mondiale dei movimenti, come la definì il mainstream americano, evaporò prima che la superpotenza Usa si impantanasse tra Falluja e Ramadi). Sappiamo benissimo che la forma movimento che si basa sul primato dell’opinione pubblica nasce, in Italia come altrove in occidente (nei paesi extraoccidentali è questione differente), come tentativo di risoluzione della crisi del modello di movimento basato sulle pratiche antagoniste fuoriuscite dal ’68. Di questo modello ne ha denunciato a lungo l’obsolescenza, sia sul piano della funzionalità che su quello della differente sensibilità etica raggiunta dalle società successive agli anni ’70, imponendo mutazioni significative di linguaggi, pratiche, obiettivi all’intera sinistra di movimento in differenti paesi. L’idea di fondo, qui semplifichiamo un  posizioni anche differenti tra loro, era che abbandonando la simbolica dello scontro frontale, neutralizzando le pratiche sul terreno si sarebbe potuto incontrare ed egemonizzare le dinamiche di pressione dell’opinione pubblica verso il sistema politico e istituzionale. Nella versione più conflittuale di questo modello anche pratiche sindacali, tradizionali e innovative, come solidaristiche e persino culturali avrebbero tratto benefici concreti da questa forma movimento. Dopo quindici-vent’anni di riproposizione di questo modello si tratta di capire che è obsoleto, passato, inefficace perlomeno quanto i modelli che pretende di denunciare. Genova 2001 aveva fatto capire come la piazza (e non solo) potesse esplodere di fronte alla complessità sociale prodotta dagli eventi organizzati da questo genere di forma movimento. Il 2003 aveva fatto comprendere che, una volta sconfitto un movimento quando è stata usata la capacità massima di pressione del format opinione pubblica mondiale, non c’era un problema di masse, numeri e capacità di rappresentazione simbolica ma uno di efficacia del tipo di movimento messo in campo. Insistere sulle clonazioni di questo modello, legittimandole con le giaculatorie sulle “nostalgie del ‘900” che apparterrebbero a chiunque ne vede le evidenti crepature, ha portato a cronicizzare due evidenti patologie politiche. La prima legata ad un distacco reale dalla situazione sociale, persino dall’immaginario, di questo paese (ovvero il vasto mondo che vive fuori dal perimetro di realtà che si creano necessariamente i movimenti) la seconda da una serie di valutazioni ingenue su come si forma l’opinione pubblica in un mondo attraversato da una pluralità di piattaforme mediali.  Analizziamole entrambe partendo da quest’ultimo problema.

MUSSOLINI, GRAMSCI E NOI

La constatazione della fine dell’epoca liberale, alla quale segue una necessaria critica del fenomeno dell’opinione pubblica, non è di questi giorni ma degli anni ’20. Quando la finanza della prima globalizzazione, quella nata nella seconda metà dell’800 mise in crisi, assieme al protagonismo delle masse uscite dalla guerra ’14-’18,  la democrazia liberale. Uno dei padri fondatori della sociologia contemporanea, Ferdinand Toennies, legò la crisi della democrazia liberale al problema della critica dell’opinione pubblica, elemento regolativo della vita politica ufficiale, strumento di selezione delle istanze politiche di quel mondo. Senza entrare, anche se farebbe bene, nelle questioni teoriche poste da Toennies riportiamo una discussione nelle aule parlamentari del Regno d’Italia utile a focalizzare un problema del presente: il rapporto tra opinione pubblica e politica. Siamo nella primavera del ’25, Mussolini ha già fatto il primo atto del suo colpo di stato il 3 gennaio di quell’anno e si appresta a concludere la struttura politica e statale di una dittatura che durerà fino al 25 luglio del 1943. Alla Camera si confrontano Gramsci e Mussolini, il primo oramai messo all’angolo politicamente mentre il secondo risplende di boria essendo ormai il vincitore di fatto dello scontro politico, tra destra e sinistra, apertosi con la fine della guerra. Gramsci, per trovare un argomento che condizionasse il vincente Mussolini, comincia a parlare delle critiche che il Corriere della Sera aveva mosso al comportamento del fascismo. Mussolini non fa una piega: dice chiaramente che il potere dell’opinione pubblica, composta da centinaia di migliaia di lettori, è ormai stato travolto da quello di un partito organizzato, il suo. Di lì a poco tempo Mussolini, oltre a sciogliere il parlamento e a far arrestare Gramsci, si impadronirà anche del Corriere della Sera. Trasformandolo nella voce più prestigiosa del regime fino alla sua caduta. Dopo la fine del fordismo il rapporto tra opinione pubblica e politica organizzata si è rovesciato rispetto a quel dibattito della primavera del ’25. Per cui la capacità di esercitare pressione politica, dopo innumerevoli ristrutturazioni tecnologiche e mutazioni sociali, è tutta a favore dell’opinione pubblica rispetto ad una politica disorganizzata, succube e senza idee. Non  a caso le nostre società hanno tornato a definirsi liberali in un rapporto strutturato con temi e dibattiti politici definiti dal fenomeno dell’opinione pubblica. Egemonizzato da media verticali, di mercato, pronti a celebrare precise gerarchie di potere e di comportamento. L’architettonica del potere nelle società neoliberali, insomma. Gli stessi movimenti hanno istintivamente seguito questo rovesciamento di rapporto tra opinione pubblica e politica organizzata. Mentre i movimenti antagonisti degli anni ’70, in modalità molto diverse tra loro, cercavano di condizionare i partiti o costruire una forma dell’organizzazione tutta propria quelli delle ultime due decadi, non a caso, si sono strutturati nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica o di costruirne una propria. Il mitico spartiacque della nonviolenza altro non è, prima di tutto, che il tentativo di entrare pienamente sul terreno dell’opinione pubblica. Per il terreno del politico forza e diplomazia sono strumenti intercambiabili mentre in quello dell’opinione pubblica, che si struttura attorno allo schema antropologico che supporta la discussione razionale infinita attorno ai problemi, riduce la forza a mera violenza. E a questo schema i movimenti si sono adattati per un ventennio nella speranza di suscitare una massa critica tale da condizionare la politica istituzionale. E qui sono sorti tre problemi, mai analizzati, che hanno pesato in questi vent’anni: il primo è che le istituzioni vivono ormai in autonomia dall’opinione pubblica (Iraq del 2003 e referendum del 2011 dovrebbero insegnare qualcosa); il secondo è che l’opinione pubblica è, in ultima istanza (internet compresa), è governata da un intreccio tra media e politica istituzionale che è costituito efficacemente contro le istanze dal basso; il terzo è che questo intreccio non è mai stato destrutturato e messo a conflitto, nei temi che propone e nella sua struttura sociale interna. Eppure il potere di connessione generale nelle società contemporanee risiede lì. E non solo quello ma anche correnti consistenti di quello biopolitico. Occupy Wall Street ha chiesto l’abolizione della pubblicità televisiva per i prodotti per bambini. Perché questa è una società che addestra, nei termini del dressage foucaultiano, dei consumatori prima ancora di qualsiasi altro genere di figura sociale. Invece del politicismo della dissociazione dai “violenti” i movimenti potrebbero occuparsi di temi come questi, indubitabilmente con maggior efficacia.

I movimenti basati sul primato dell’opinione pubblica si sono così trovati a subire questo potere. Le istanze di contenuto e i temi sono dettati da chi la governa non dal suo segmento dal basso. Oltretutto è notevolmente mutato lo schema sociologico che legittimava questo genere di movimenti. Nel profondo degli anni ’80, quando si incubavano queste concezioni, una società postmateriale, sostanzialmente garantita poteva costruirsi uno dispositivo di selezione del contenuti politici basato sulla circolazione di opinioni espresse razionalmente. C’era una base materiale per tutto questo. Trent’anni dopo, larghi strati di società sono precipitati in drammi che, per quanto emersi a livello di opinione, non trovano ascolto in un sistema politico che dell’autonomia da tutto questo ha fatto ragione di sopravvivenza. Inoltre i movimenti basati sul primato dell’opinione pubblica si sono ritirati, nel loro complesso, dal quotidiano ritmo sociale della vita sui territori. Che è fatto di un intreccio di comportamenti sul terreno, piattaforme di comunicazione innestate su questi comportamenti, e linguaggi mediali che i movimenti non conoscono e ai quali non sanno parlare. Non resta quindi, come dalla fine degli anni ’90, che organizzare grandi eventi di piazza. Che dovrebbero parlare all’opinione pubblica. E che finiscono invece per essere travolti dalla complessità sociale attirata dal grande evento e fatti a tranci dai media che governano l’opinione pubblica. Questo modello di movimento ha quindi storicamente fallito: non ha rappresentanza mediale, non riesce ad autorappresentarsi, evapora sempre velocemente e non ha inciso su nessuno dei nessi di potere strategici nelle società contemporanee. Nei prossimi tempi non ne mancheranno gli epigoni, che si faranno forza a colpi di “siamo oltre il ‘900”, ma l’esito negativo dei loro sforzi sembra scontato. Come lo sarebbe stato quello di un ipotetica rifondazione di Lotta Continua all’inizio degli anni ’80. Le forze del politico stanno andando altrove.

-CUCCHI + RACITI

Questa scritta “- Cucchi + Raciti” campeggiava in bella mostra durante gli scontri del 15 ottobre. Spiega più la distanza tra i movimenti pacifici e radicali di quanto si possa immaginare. Perché, mentre sulle banche e il precariato il linguaggio può anche trovare punti in comune tra diverse esperienze di movimento, da parte dai movimenti che si vogliono maturi non c’è mai stata attenzione su questi temi. Dei diritti civili in ambiti tipicamente giovanili. Non solo ma tra i manifestanti “maturi”, nella piazza del 15, c’erano esponenti di partiti che le leggi militari del dopo Raciti le hanno velocemente approvate. Accentuando distanza e incomprensibilità tra culture di movimento. E’ evidente poi che la dinamica di scatenamento dei riot è quella del rovesciamento simbolico del’ordine del potere vigente. Per cui torna trasfigurata la figura dell’ispettore Raciti, si devastano banche, si distruggono madonne, si bruciano tricolori. Più che alla dinamica dello scontro di piazza è a questo rovesciamento simbolico che bisogna guardare per capire il significato del comportamento di questo tipo di movimenti. Si interviene direttamente per rovesciare nell’immediato un ordine simbolico ritenuto, non a torto, insopportabile. E si parla, sempre direttamente, all’immaginario profondo della società. In questo senso possiamo definire questo tipo di comportamenti come una radicalizzazione del modello di movimento basato sul primato dell’opinione pubblica. E’ frutto della sua crisi come lo era lo Schwarze Bloc tedesco rispetto al modello di partecipazione civica nella Germania dei primi anni ’80. Si parla al resto della società, evocandone la sollevazione, direttamente con il linguaggio del suo sostrato simbolico profondo piuttosto che con quello dei linguaggi mediati dai comportamenti ritenuti ragionevoli, creativi e politicamente razionali. In questo modo si scatena, come sempre in questo genere di riot, un’enorme energia sociale sollevata. I simboli del potere sono archetipici, si innestano profondamente nel corpo sociale ed è infatti forte la reazione all’operazione del loro rovesciamento e della loro trasfigurazione. Non a caso i media sono avidi di questo: condannano e trasmettono allo stesso tempo. La diretta Sky degli scontri a piazza San Giovanni si è rivelata un prodotto adrenalinico perfetto, specie nel tardo pomeriggio, tra uno stacco pubblicitario e un posticipo e l’altro della serie A. Il potere dell’immaginario del rovesciamento dei simboli immesso nel palinsensto, in una società mediale, non va trascurato. Ma va anche capito che la maggior parte di questo genere di comportamenti non ha ancora fatto il salto di complessità che va dai comportamenti radicali alla strutturazione politica, al radicamento nel territorio, alla capacità di governo delle stesse proprie immagini proposte. Si parla, e con forza, alla società ma non si è complessivamente in grado di connettersi complessivamente con il corpo sociale scosso dalla crisi.

La giornata del 15 è stata quindi caratterizzata, anche nello specifico dei comportamenti di piazza, da movimenti in crisi di complessità che si riproducono secondo schemi declinanti del primato dell’opinione pubblica e da movimenti che o si fermano sul piano del rovesciamento simbolico degli archetipi del potere o sono ancora embrionali rispetto al salto di complessità necessario per fare politica, per rovesciare l’asse del potere in questa società. E qui chi dice che in Italia accadono cose che non accadono altrove deve aver ben in testa che in altri paesi, UK e Usa per dirne due, tutto è filato via pacificamente perché questo tipo di piazza è stata in mano solo alla middle class impoverita. La Londra dei riot ha passato il testimone a quella degli indignati. In Italia c’è stata sovrapposizione, mescolanza che ha generato una complessità sociale insostenibile. Se si vogliono movimenti estesi lungo interi assi di società è la capacità di governare questa complessità che ci vuole.

IL FUTURO DELLA POLITICA DI MOVIMENTO

L’Italia non ha bisogno degli Hessel, figure paternali, la cui indignazione è uno strumento di una politica costruita su un dispositivo che non funziona. Garantisce sempre dignità morale, spesso incolumità fisica ma non funziona più, non ottiene risultati. Come in Spagna o in Israele. Perché basa la propria energia morale entro uno schema di regole del gioco che tende a far pressione su un’opinione pubblica che è strutturata per rendere inefficaci i movimenti. Si tratta invece di costruire movimenti che passano dal primato della sfera dell’ opinione pubblica a quello dell’occupazione del territorio. E qualsiasi campagna globale che incontra questo genere di radicamento non ne può che essere beneficata dall’incontro di pratiche reali, coestensive con la vita sociale.

Questa non è una situazione in cui l’energia sociale, come emerge dai movimenti più radicali, deve essere esorcizzata. Al contrario i cambiamenti necessari per garantire diritti universali in questa società necessitano di una lunga stagione di energetica sociale. Ma questa energetica sociale  deve entrare su un piano di microfisica dei territori che permette un un governo politico delle spinte radicali verso la mutazione reale della morfologia microfisica della società, dei rapporti di forza territoriali , stutturando forza per l’ ottenimento dei diritti universali concreti. E qui bisogna considerare che i territori non sono più quelli degli anni ’60 e ’70 e nemmeno quelli degli anni ’80. Il territorio, come dicevamo, è regolato da un intreccio di comportamenti sul terreno, piattaforme di comunicazione innestate su questi comportamenti, e linguaggi mediali che ne costituiscono la sostanza attuale. E non c’è solo bisogno di energetica sociale, necessaria, per plasmarlo. Ma anche di intelligenza strutturata. E qui i movimenti che vivono la crisi della concezione del primato dell’opinione pubblica possono trovare un loro ruolo.  Ristrutturandosi completamente, per trovare anche il modo di costruire campagne nazionali e globali efficaci, radicate, permanenti che non fluttuano al primo accidente. Dopo il 15 ottobre una certa tipologia di movimento, che oggi ha trovato collocazione nella forma indignata, rischia di essere in  mano ai media che oggi la preservano dai “violenti”. Per finire nel binario della più conclamata inefficacia. Allo stesso tempo la potente simbolica del riot può risultare inefficace nel momento in cui si ferma alla soglia dell’emergenza sociale evocata. Se la sollevazione può dare respiro ad ampi strati sociali oggi sottomessi dalla crisi, senza politica e senza strategia si rischia anche qui l’inefficacia.

Mentre, per la gravissima situazione sociale che viviamo, è di efficacia che abbiamo tremendamente bisogno.

Per Senza Soste, nique la police

 

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11 Commenti

  1. Apprezzo la proposta, Gherardo. Soprattutto a fronte di quello che sostenevi nella precedente discussione (i “parassiti” etc.). A differenza delle invocazioni staliniste di servizi d’ordine, di prese di distanza o, peggio, di delazione, il “filosofo d’accatto” Nique la Police costruisce un discorso politico dove i “violenti” sono considerati parte integrante del movimento, una delle basi su cui impostare “il salto di complessità che va dai comportamenti radicali alla strutturazione politica, al radicamento nel territorio, alla capacità di governo delle stesse proprie immagini proposte”.

    Condivido, inoltre, e lo condivido totalmente, l’obiettivo strategico “di costruire movimenti che passano dal primato della sfera dell’ opinione pubblica a quello dell’occupazione del territorio”.

    NeGa

  2. nevio, mi dispiace davvero dirlo, perché in più di un’occasione ho apprezzato i tuoi interventi, ma se leggi questo post come una specie di smentita di quello che ho sostenuto sotto il post di rovelli, non solo dimostri un’altra volta di non aver capito quello che dicevo in quella sede (sarò franco: pensavo che facessi confusione strumentalmente ma ora sono convinto che proprio non capisci) ma travisi in parte anche quello che sostiene nique la police.

  3. A me sembra che il discorso sia manicheo nella sua pars destruens, e poco efficace nella pars costruens. Il riferimento al piano simbolico è sempre sfuggente, ognuno ha la costruzione simbolica che è capace di interpretare. La mia e quella di nique la police per esempio non coincidono.
    Forse bisognerebbe dirlo che è il potere del simbolico va smascherato di continuo.
    Io se guardo Sky non mi adrenalizzo, ma voglio capire che succede.
    Bypassare l’opinione pubblica perché eterodiretta, nella postcrisi dello stato liberale, è dare egemonia al tanaliberatutti. La fatica è quella opposta, occupare non solo i territori ma anche la formazione dei movimenti: scuola, media, luoghi della politica – va incrementato un assemblearismo costante, che sia capace di portare a una consapevolezza che vada oltre le sintesi simboliche pret-à-porter.

  4. @ Gherardo
    naturalmente sono sempre gli altri che non capiscono … Nella precedente discussione, tu hai parlato dei “violenti” come “parassiti” e hai invocato la “mistica della jacquerie”, quindi, di fatto, negandogli ogni valenza politica. Questi sono alcuni reperti di testo dai tuoi commenti:

    […] mi sembra più urgente seguire con attenzione la revanche in corso da parte dei soliti noti (che agitano addirittura la madonnina fatta a pezzi!!) […]

    […] i gruppi che decidono di investire la propria presenza in piazza e quindi tutto l’impatto del corteo (e possiamo discutere sull’utilità, adesso, dei cortei) sugli scontri non possono parassitare il resto del corteo, usandolo come rifugio e copertura. cioè: lo possono fare ma allora è chiaro il rapporto che instaurano con gli altri soggetti. e francamente non è un rapporto che considero da “compagni” o che mi spinge a considerarmi uno di loro.[…]

    […] mentre la “mistica della jacquerie”, come la chiama giustamente più sopra mascitelli, rifiuta qualunque luogo di riconoscimento.[…]

    […] come al solito è chi militarizza la politica che si esclude, perché usa il movimento e in subordine il corteo come terreno da attraversare e non come insieme di soggetti con cui interloquire. ed è esatto: un parassita, anche se esprime odio di classe, rimane un parassita.[…]

    Ora, io sarò pure tonto, ma il senso dei tuoi interventi mi pare abbastanza chiaro: i “violenti”, proprio in quanto “parassiti”, sono un corpo estraneo al movimento. Puoi fare tutte le forzature interpretative che vuoi, ma Nique La Police dice altro. Li chiama “embrionali”, certo, ma li osserva non separandoli dal resto. Tutt’altra cosa di quello che hai scritto tu.

    NeGa

  5. @christian: al di là di alcuni schematismi dell’articolo (ma dovuti mi sembra più a un problema di “misure redazionali” che altro – e per questo spero che nique la police intervenga per un’argomentazione ulteriore) il punto dell’inefficacia della pressione sull’opinione pubblica credo sia ormai ineludibile, soprattutto in italia e soprattutto avendo alle spalle il decennio appena trascorso. e porre la questione del fatto per cui la stessa opinione pubblica è il frutto, in buona parte, di strategie eterodirette non mi sembra affatto un “libera tutti” ma l’assunzione di un oggetto d’analisi più complesso. tanto più che la proposta dell’articolo non è bypassare la generazione e l’articolazione di un “senso comune” ma legarle alla concretezza delle realtà territoriali (che sono composte anche da un livello mediatico). in questo senso, mi sembra che il successo e la tenuta del movimento no tav sia esemplare.
    mi rendo conto, d’altra parte, che tu veda con sospetto una lettura come quella proposta dato che, per esempio, l’intrapresa della generazione tq si basa anche su un legame rinnovato con la sfera dell’opinione pubblica (ed era, in effetti, uno dei punti deboli che trovavo nell’insieme della proposta – più che altro perché la mia impressione è che, oltre a tutto, l’opinione pubblica si stia estinguendo). però qui mi sembra si tratti piuttosto di una differenza strategica di fondo che non un problema di articolazione teorica.

    @nevio: sotto l’altro famigerato post hai detto di uscire dallo schema buoni/cattivi e invece continui a implicarlo. io non ho parlato di violenti generici opposti a pacifici generici ma dei gruppetti militarizzati che hanno sfruttato il corteo per le loro azioni (quindi non stavo neppure parlando degli scontri di s. giovanni). tutte le mie considerazioni, che ribadisco (e che per altro sono solo le deduzioni logiche derivabili dal comportamento messo in atto dai sullodati gruppetti), sono legate specificatamente a loro e non le considero affatto invalidate dal pezzo di cui sopra che, anzi, aggiunge un ulteriore tratto di debolezza alla loro azione. l’equazione generale che mi attribuisci è roba tua. per conto mio, sull’argomento ti invito a prendere almeno in considerazione il fatto che, probabilmente, “militanti” del genere marx li avrebbe definiti anarchici da biliardo.

  6. @ Gherardo
    per “gruppetti militarizzati” immagino tu ti riferisca alla polizia, perché io di altri non ne ho visti. Se invece ti riferisci a “quelli con i caschi”, stai ugualmente prendendo un granchio, giacché non si tratta di gruppi di parassiti, e quindi estranei al resto, bensì di componenti molto importanti del movimento. Come ho già scritto, se si vuole capire chi sono questi gruppi, si parta

    “dalla relazione di Maroni presentata al Parlamento; lì vengono fatti i nomi dei presunti responsabili degli scontri. Dopodiché, prova a trovare informazioni su cosa hanno fatto, in questi anni, queste componenti *importanti* del movimento. Potresti scoprire che sono gli stessi che hanno contribuito – e non poco! – alla lotta contro la Tav, o che hanno realizzato iniziative *pacifiche e di massa* sul precariato, sulla scuola, contro la guerra, sulla Palestina, etc., riuscendo, per altro, ad aggregare tante persone”.

    Altro che parassiti!

    In quanto a Marx, permettimi:

    “Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione”.

    NeGa

  7. Non scomoderei un concetto così sfuggente e scivoloso come “opinione pubblica” per spiegare l’insuccesso ormai credo manifesto di movimenti come gli indignados.
    Le argomentazioni svolte nell’articolo riportato potrebbero valere se ci trovassimo in presenza di un movimento dotato di granitica autoconsapevolezza che un sistema mediatico ostile avversasse attraverso un’informazione mendace.
    Dato per scontato il giudizio peggiore possibile sul sistema mediatico, rimane il fatto che lo stesso movimento si costituisce proprio all’interno di questo stesso sistema mediatico.
    Così, direi che i problemi che abbiamo di fronte siano di tutt’altra natura.
    Schematicamente, il mio punto di vista è che esista una situazione oggettivamente rivoluzionaria, nel senso che se ne esce solo con soluzioni assolutamente radicali. Una tale rivoluzione, prima di essere politica, deve essere culturale.
    Qui, quindi, si pone il problema di come gente nutrita quotidianamente con il monopensiero delle nostre società occidentali possa sviluppare al proprio interno una mentalità alternativa.
    E’ quindi necessaria un’opera di autoeducazione, che per definizione non può essere spontanea, deve avere elementi volontaristici e soprattutto deve avere un carattere collettivo, una capacità di costituire delle comunità in grado di resistere alla mentalità dominante e di progettare un piano culturale egemonico nell’intera società.

  8. L’intervento mi sembra interessante sopratutto nella prima parte, dove imposta una riflessione molto importante: ossia il paradigma dell’opinione pubblica, come potere di pressione nelle società liberal-democratiche. Il bilancio fatto dall’autore mi sembra veloce, ma senz’altro permette di evidenziare punti importanti. Anche se io credo che ci vorrebbero più analisi di contesto, per misurare l’inefficacia dell’opinione pubblica, ossia dei movimenti attivi al di fuori della sfera puramente parlamentare.
    Comunque la pista di riflessione è ottima.
    Nella seconda parte, invece, mi pare che non ci sia niente di nuovo rispetto a quanto già detto nel dopo 15 ottobre:

    “Ma va anche capito che la maggior parte di questo genere di comportamenti non ha ancora fatto il salto di complessità che va dai comportamenti radicali alla strutturazione politica, al radicamento nel territorio, alla capacità di governo delle stesse proprie immagini proposte. Si parla, e con forza, alla società ma non si è complessivamente in grado di connettersi complessivamente con il corpo sociale scosso dalla crisi.”
    Se si fa il salto di complessità, si deve passare dal calcio in culo alla madonnina a un’intervento efficace nei confronti del potere ecclesiastico in Italia, per dire. Gunter Anders aveva già analizzato negli anni Ottanta la povertà politica del radicalismo sui simboli.
    Il rifiuto del tipo di violenza simbolica programmato e realizzato il 15 ottobre nasce dalla sua inefficacia politica, e anzi dal suo essere controproducente al mutamento dello stato di cose. Proprio perché al di qua di quella risposta articolata, che solo può permettere di ipotizzare una qualche efficacia politica.
    Formenti parla di analfabetismo politico, nique la Police usa una frase più articolata, ma la sostanza è la stessa. Questa roba qua non serve.
    Qualcuno dirà che però la rabbia che c’era lì serve. Senz’altro. Ma la rabbia non c’era mica solo lì. Di rabbia inefficace ne troviamo dappertutto. O davvero si crede, che se qualcuno non va con il casco in manifestazione e brucia un SUV, nella sua vita di oggi è un sereno allegrone?

    Quando nique la police scende un po’ più nel concreto della pars contrsuens, parla ad esempio “di costruire campagne nazionali e globali efficaci, radicate, permanenti che non fluttuano al primo accidente.”
    Parole giustissime. Io sostengo infatti che dove non ci sono campagne politiche con obiettivi precisi, siamo al millenarsimo, alla pratica non politica ma religiosa, che può andar bene a qualche minoranza in vena di sfoghi simbolici. (Tanto il “mutamento” non è di questo mondo.)

    Ma l’autore scrive anche: “Si tratta invece di costruire movimenti che passano dal primato della sfera dell’ opinione pubblica a quello dell’occupazione del territorio.”
    Sì, ma cosa vuol dire occupare il territorio? In questa frase io ci posso mettere tutto?

    A me sembra che, per fare un passo avanti, bisognerebbe articolare, distinguendoli, due piani di discorso: quello relativo
    1) agli obiettivi politici reaggiungibili nella forma di un movimento non parlamentare (come e su cosa strutturare una campagna politica); su questo Brancaccio nell’intervista a Micromega ha fatto delle dure critiche al movimento del 15 settembre (quello, per intenderci, maggioritario e non violento)
    2) quello relativo ai metodi per rendere efficace una tale campagna; e qui scusate ma siamo ancora agli albori di una riflessione: per ora pare che le alternative siano: o sfili tranquillo per roma o spacchi qualche vetrina di banca.
    Solo nell’ambito dell’azione non-violenta, presa come forma di lotta politica radicale, ci sono una quantità di opzioni estremamente efficaci, in quanto a generica “occupazione” di un territorio: bloccare la circolazione del traffico, occupare momentaneamente spazi, l’obiezione fiscale, lo sciopero dei media, lo sciopero del consumo, ecc.

    Che la rabbia e la violenza ci siano, non è qualcosa di difficile da comprendere, a meno di essere in uno studio televisivo o in un editoriale della stampa generalista. Il problema è cosa il movimento decide di fare nei confronti di questa rabbia e di questa violenza, nel momento in cui esso ne diventa “oggettivamente” il bersaglio.

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